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LA CRISI RUSSO-UCRAINA. VINCENZO MUNGO (RADIO RAI ESTERI) INTERVISTA STEFANO VERNOLE (VICEDIRETTORE DI EURASIA)

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Intervista di Vincenzo Mungo (Radio RAI esteri) a Stefano Vernole, Vicedirettore di “Eurasia”

D. Mungo: Ritiene che gli Accordi di Ginevra raggiunti tra Occidente e Federazione Russa siano provvisori o possano “tenere”?

R. Vernole: Ritengo che l’azione russa in Crimea, logica conseguenza del colpo di Stato favorito dall’Occidente a Kiev, sia stata solo una mossa del Cremlino per poi trattare con Stati Uniti ed Unione Europea da una posizione di forza. L’accordo raggiunto a Ginevra, peraltro maldigerito dalla popolazione russofona dell’Ucraina sud-orientale, è soltanto provvisorio, si aprirà ora una fase in cui la Russia dovrà decidere se accettare il ruolo minore di potenza regionale assegnatole dall’Occidente o rilanciare la sua tradizionale aspirazione geopolitica per tornare ad essere una grande potenza in alleanza con i Paesi del BRICS.

D. Mungo: Qualche crepa sembra affiorare anche nella posizione occidentale. Crede che l’accordo tra Stati Uniti ed Unione Europea sulla crisi ucraina reggerà?

R. Vernole: E’ evidente che gli strategici e sinergici rapporti economici russo-europei siano stati incrinati dalla crisi russo-ucraina, così come voleva Washington. Ma è ovvio che forze economiche e politiche importanti, soprattutto in Germania, spingono per riappacificarsi subito con la Federazione Russa. Come auspicato dal Presidente Putin, toccherà proprio all’Italia – che guiderà il prossimo semestre di Presidenza dell’Unione Europea – svolgere un ruolo diplomatico determinante per riavvicinare Russia ed Europa.


L’EUROPA NELLE SPIRE DI NYLONKONG

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La piccola Europa, ancor più piccola nella sua versione d’Occidente, assiste ora distratta, ora semplice spettatrice impotente al sorgere possente del Nuovo Medioevo preconizzato nel lontano 1923 dal filosofo russo Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev. Un evo frenetico, in cui “tutti gli aspetti della vita andranno a collocarsi sotto il segno della lotta religiosa ed esprimeranno principi religiosi estremi”, come ebbe a scrivere.
Tutto ciò contemplando, affascinata e ormai sedotta, l’Europa d’Occidente non riesce a riconoscere il “principio religioso estremo” che anima l’intero discorso economico contemporaneo, nella sua declinazione – sostanzialmente totalitaria – che ha preso il nome di capitalismo. Tantomeno riesce a individuare nel suo dipanarsi la fisionomia dell’Impero di questo Medioevo. Discetta al contrario di astrazioni giuridiche e principi altrettanto astratti che però hanno un concretissimo costo che le esauste casse pubbliche non possono più sopportare.
Eppure basterebbe alzare lo sguardo, oppure scrutare la profondità degli oceani.
Sopra le nostre teste di europei stanchi e vecchi viaggiano ogni giorno oltre 12 trilioni di dollari di investimenti di portafoglio dell’Impero, ossia le armate della contemporanea forma del dominio, che le capitali imperiali amministrano con cerimoniosa compostezza, garantendosi con tale sfoggio di potenza rispetto reverente e timoroso.
Sotto i nostri piedi intanto decine di migliaia di chilometri di cavi sottomarini, gestiti e posseduti da sconosciute compagnie di telecomunicazioni, intrecciano i binari lungo i quali i treni carichi d’oro dell’Impero viaggiano alla velocità del pensiero: smaterializzati.
Le capitali dell’Impero, dunque. Una a Occidente e una a Oriente, come all’epoca romana.
A Occidente New York, ovviamente, con la sua succursale europea di Londra. Mentre a Oriente, chi meglio di Hong Kong? La nuova Costantinopoli cinese, già provincia dell’ex impero britannico.
Se uniamo le tre capitali arriviamo a conoscere la vera capitale dell’impero: Nylonkong.
Tale fortunata riduzione giornalista si deve a “Time”, che nel 2008 notò il viluppo di legami, culturali e storici prima ancora che finanziari, che legano le tre capitali dell’Impero in una sola. Città sicuramente virtuale, nel senso che oggi la tecnologia dà a questa parola, e quindi tutt’altro che immaginaria. Al contrario: terribilmente concreta. Con la sua teoria di grattacieli dorati e di vicoli maleodoranti miseria, di Pil pro capite fra i più elevati al mondo grazie al settore finanziario, la città virtuale appartiene a una geografia che poco o nulla ha a che vedere con quella del planisfero, ma semmai con quella del potere.
L’Europa, divisa nelle due anime d’Oriente e d’Occidente, è terra di passaggio e di attraversamento delle correnti imperiali e quindi non vi resiste. Troppo forte è la seduzione religiosa della ricchezza, che ha fatto strame della natura europea, che fu spirituale. Ma ancor più forte è l’educazione sentimentale che gli Stati Uniti hanno scritto e narrato al resto del mondo, celando il loro costante ricorrere a un’economia di guerra col travestimento del diritto alla felicità.
Tale narrazione, che è il vero collante dell’Impero, e della sua terra di mezzo – l’Europa – omette di approfondire la sua costituente, perdendosi infine nella notte dei tempi l’origine dell’agire economico contemporaneo, perciò ignoto a moltissimi, se non a tutti.
O peggio: tutti conoscono il New Deal di Roosevelt, ma pochi ricordano più dell’aneddotica. Il famoso scavar le buche per riempirle, volgarizzazione della spesa pubblica in deficit per creare occupazione che ha segnato la storia economica degli ultimi 80 anni, al lordo della sue semplificazioni. Concetto facile, che tutti potevano capire e i politici amministrare, e quindi sommamente retorico.
Quel che si dovrebbe sapere, o ricordare, del New Deal, tuttavia è altro: che fu economia di guerra, appunto, e che non è mai terminato.
Molti si stupiranno nello scoprire che pressoché tutto ciò di cui parliamo, quando parliamo di economia, è invenzione angloamericana.
Il Pil, ad esempio, quel Prodotto interno lordo che abbiamo messo a denominatore comune di ogni nostra fortuna (o disgrazia). Inventato negli anni ’30 da Kuznets, un oggi dimenticato economista ebreo russo emigrato in giovane età negli Stati Uniti e poi reclutato dal dipartimento di commercio, alla disperata ricerca di un indicatore onnicomprensivo che sostanziasse gli sforzi di Roosevelt in visibili effetti delle sue politiche keynesiane. E quindi inserire la spesa pubblica nel conteggio del prodotto, che fu la trovata geniale che disegnò le sorti dell’economia a venire.
E più tardi, il Pil, adottato da economisti inglesi, ormai nel dopoguerra, e da lì fatalmente, in tutti i manuali di statistica economica che le organizzazioni internazionali hanno imposto agli stati, peraltro ben lieti di adottarle.
Oppure: lo shadow banking: quanto se ne parla oggi, come se fosse l’ennesima deriva della creatività distruttrice dei nostri banchieri. Anche qui: una semplice ricognizione nella storia basterebbe a scoprire che anche questa, come il Pil, è uno degli stratagemmi meglio riusciti del New Deal per creare un mercato che ancora non c’era negli Usa: quello immobiliare. Dare credito alle famiglie americane per inseguire il sogno americano, che come ricorda Frank Capra, prevede anche una piccola ma confortevole casa di proprietà. Erano gli anni Trenta, negli Usa, e già andava forte il Monopoli, gioco da tavolo che addestrerà milioni di cercatori d’oro alla ricerca della fortuna nell’uso sapiente del mattone e della rendita.
In tal senso creare strumenti di cartolarizzazione del credito, quelli che i tecnicismi oggi chiamano MBS o ABS, con la garanzia di un’agenzia pubblica (Fannie Mae o Freddie Mac) e poi fare circolare questa carta scambiandola con mattone.
Tutto ciò che nel 2008 ha condotto alla crisi dei subprime affonda le sue radici in quegli anni. Che certo non sono trascorsi invano. Nel frattempo questa finanza è diventata patrimonio comune. Lo shadow banking, che di tali pratiche si nutre, ormai ha trovato casa pure in Cina, e segnatamente a Hong Kong, dove si stima alligni almeno il 20% del settore bancario ombra cinese, preoccupando non poco il Fondo Monetario internazionale, che ha dedicato alla questione anche un pregevole capitolo nel suo ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria globale.
Non a caso. L’ombra delle banche cinesi, stanziate nella Costantinopoli d’Oriente, è un preoccupante veicolo di potenziale infezione per il corpo ancora convalescente del sistema finanziario internazionale.
Ma più di ogni altra cosa, l’egemonia americana trova nella sua Banca centrale lo strumento principe. La cornucopia alla quale attingono senza sosta gli oltre 8.000 miliardi di investimenti di portafoglio che il Ragno americano tesse con prodiga generosità alle sue province. Miliardi che erano poco più di 2.000 nel 2001. La stessa Fed che nel 1917, quando l’America decise la sua entrata in guerra, ideò, creandolo, il mercato dei repo, che oggi è lo strumento principe della politica monetaria di tutte le banche centrali.
Ma moltiplicare la ricchezza finanziaria per quattro volte in un decennio, senza un corrispondente aumento del prodotto, è stato il capolavoro recente della capitale occidentale dell’Impero. Lo strumento attraverso il quale si assicura fedeltà e rispetto mutuando i cugini inglesi, che hanno alle spalle una robusta tradizione di finanza imperiale fondata prima sulle rapine dei corsari e poi sulle rendite della City. E ormai lo fanno anche i cinesi, che saranno pure comunisti, ma hanno interiorizzato la lezione principale dell’agire contemporaneo: la potenza dell’economia. Innanzitutto quale veicolo per la conquista della terra proibita: quella dell’immaginazione.
La forza di Nylonkong è la seduzione, d’altronde. Non la paura della forza, ma il desiderio della debolezza. L’esser ignavi ricettori di stimoli indotti dai potenti mercati, grazie allo strumento della pubblicità, e quindi monadi sterili nell’utero confortevole della rete. Saziando ogni appetito, con la stimolazione parossistica del desiderio, Nylonkong onnubila le coscienze e conquista il dominio, rimanendo persino invisibile. Non servono armate o gendarmi. Basta erogare denaro. E a questa pratica il fiat money della banca centrale giova egregiamente.
Cosa può l’Europa di fronte a questo spiegamento di denaro? Poco o nulla. Le sue popolazioni, cresciute a pane e diritti, faranno volentieri a meno dei secondi per garantirsi il primo. Senza che nessuno, peraltro, abbia spirito a sufficienza per rifiutare la promessa di felicità in terra, che l’Impero propina ad ogni seguace, in barba ad ogni autentica economia, che dovrebbe esser sobria e consapevole della finitezza delle risorse, a cominciare da quella più preziosa: il tempo.
Rimangono alcune battaglie di retrovia, confinate però in un sapere specialistico assai astruso e lontano dai cuori delle popolazioni.
Il luogo di questa debole forma di resistenza, per uno strano accanirsi della storia, è ancora una volta la Germania. La banca centrale tedesca sta conducendo una battaglia solitaria per affermare nella coscienza corrotta dei finanzieri di professione un principio ormai dimenticato: quello della responsabilità.
Un esempio: la battaglia per il bail in, ossia la fine della socializzazione delle perdite finanziarie e della privatizzazione dei guadagni, che così tante fortune di carta ha generato negli ultimi decenni è una di queste. I banchieri tedeschi dicono, e ci ricordano, che bisogna essere responsabili delle nostre azioni. E che quindi sia giusto che a pagare il fallimento di una banca non siano gli stati, ossia tutti i cittadini, ma chi quella banca la possiede o l’ha finanziata.
I malevoli osservano che la battaglia tedesca nasconde personalissimi interessi di bottega, e forse è così. E d’altronde altri atti della Germania, che non sfugge alla tela del ragno americano essendo a sua volta destinataria di centinaia di miliardi l’anno di investimenti di portafoglio in dollari, non testimoniano in alcun modo che tali affermazioni di responsabilità sostanzino il tentativo di affermare una diversa Weltanschauung. Piuttosto un timido tentativo di frenare la corsa dell’Impero al solo fine di farlo durare di più. Una raffinata forma di collaborazionismo.
Se servissero esempi, basti notare l’acquiescenza delle élites tedesche al progetto di area di scambio con gli Usa. Oppure la costante opera di seduzione verso la Cina, ossia il lato orientale dell’Impero, essendo fra le altre cose divenuta Francoforte la seconda piazza dopo Londra dove circolano gi ambiti renminbi.
La Germania, perciò, poco può o vuole fare.
Quale sarà, dunque, l’altro “principio religioso estremo”, per concludere con le parole profetiche di Berdjaev che andrà a contrapporsi a quello di Nylonkong?
Nessuno conosce la risposta, ma si può tentare una visione.
Il denaro, con la sua ansia di calcolo a interesse composto, parla esclusivamente alla testa. A sentire gli antichi rimangono altri due luoghi, nei quali si annida la vita: il cuore e lo stomaco.
Non abbiamo molta scelta quindi.
L’altro principio religioso estremo sarà l’amore. Quindi una forma di economia cooperativa che riconduca il discorso economico alle sue origini, anteriori a quelle che Polanyi chiamò la Grande Trasformazione.
O la fame.
Ossia la guerra.

ALEKSANDR DUGHIN: TEORIA LUMII MULTIPOLARE (10)

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Partea 2. GEOPOLITICA LUMII MULTIPOLARE

Capitolul 1.

Multipolaritatea ca proiect deschis

Multipolaritatea şi „civilizaţia Uscatului” (Land Power)

În acest compartiment ne vom referi la globalizare dintr-o perspectivă imposibil de adoptat din interiorul „civilizaţiei Mării”, adică din interiorul a ceea ce reprezintă nominal „lumea globală”. O astfel de optică nu este luată în seamă nici în cazul antiglobalismului, nici în cel al alterglobalismului, deoarece el renunţă la cele mai profunde baze filozofice şi ideologice ale eurocentrismului.

O optică de acest fel respinge credinţa:

· în universalitatea valorilor occidentale, în faptul că societăţile occidentale au parcurs de-a lungul istoriei lor singura cale posibilă, pe care urmează să o parcurgă toate celelalte ţări;

· în progresul văzut ca desfăşurare indiscutabilă a dezvoltării istorice şi sociale;

· în faptul că dezvoltarea tehnică, economică şi materială nelimitată constituie singurul răspuns la cele mai stringente necesităţi ale întregii omeniri;

· în faptul că oamenii din toate culturile, religiile, civilizaţiile şi etniile sunt, în principiu, la fel cu cei din Occident şi se conduc de aceleaşi motivaţii antropologice;

· în superioritatea indiscutabilă a capitalismului în raport cu celelalte sisteme social-politice;

· în lipsa de alternativă pentru economia de piaţă;

· în faptul că democraţia liberală reprezintă singura formă acceptabilă de organizare politică a societăţii;

· în libertatea individuală şi identitatea individuală ca valoare supremă a existenţei umane;

· în liberalism ca ideologie inevitabilă din punct de vedere istoric, prioritară şi optimă.

Altfel zis, ne deplasăm pe poziţiile „civilizaţiei Uscatului” şi examinăm momentul actual al istoriei mondiale din punctul ei de vedere sau din perspectivă „telurocratică”, văzut doar ca episod al „marelui război al continentelor”, nu ca încheiere a acestuia.

Desigur, este greu să conteşti faptul că momentul actual al dezvoltării istorice demonstrează un şir de trăsături unice, care, dacă există dorinţă, pot fi interpretate ca o victorie a Mării asupra Uscatului, a Cartaginei asupra Romei, a Leviatanului asupra Behemotului. Într-adevăr, niciodată în istorie „civilizaţia Mării” n-a mai atins succese atât de mari şi nu şi-a mai extins forţa şi influenţa propriei paradigme la o astfel de scară. Bineînţeles, „geopolitica Uscatului” recunoaşte acest fapt şi urmările pe care le comportă. Însă ea realizează în mod clar faptul că globalizarea poate fi interpretată şi altfel, şi anume ca o serie de victorii în lupte şi confruntări, însă nu ca o biruinţă finală în acest război.

Aici e necesară o analogie istorică: atunci când în 1941 trupele germane se apropiau de Moscova, se putea crede că totul este pierdut şi sfârşitul URSS este prestabilit. Propaganda nazistă comenta anume astfel mersul războiului: pe teritoriile ocupate este creată o „nouă ordine”, funcţionează organe ale puterii, sunt create structuri economice şi politice, este organizată viaţa socială. Însă poporul sovietic a continuat să reziste cu îndârjire, atât pe toate fronturile, cât şi în spatele frontului inamic, înaintând în mod consecvent spre scopul şi victoria sa.

În confruntarea geopolitică dintre Mare şi Uscat, la ora actuală este anume un astfel de moment. În interiorul „civilizaţiei Mării”, politica informaţională este construită astfel încât să nu apară nicio îndoială că globalismul este un fapt împlinit, iar societatea globală, în linii mari, s-a constituit că de acum încolo toate obstacolele poartă doar un caracter tehnic. Însă, fiind privite din perspectiva anumitor poziţii conceptuale, filozofice, sociologice şi geopolitice, toate acestea pot fi contestate, fiind propusă o viziune cu totul diferită asupra acestei situaţii. Totul ţine de interpretare. Fără o interpretare, faptele istorice în sine nu au niciun sens. În geopolitică, lucrurile stau la fel: orice stare de lucruri din domeniul geopoliticii are sens doar în funcţie de o interpretare sau alta. La ora actuală, globalismul este interpretat aproape exclusiv într-o cheie atlantistă. În felul acesta, el este investit cu un sens „maritim”. O privire de pe poziţia Uscatului schimbă nu starea de lucruri, ci sensul ei. Iar asta deseori are o importanţă decisivă.

Vom prezenta în continuare o privire asupra globalizării din unghiul de vedere al Uscatului, geopolitic, sociologic, filozofic şi strategic.

 

Temeiurile pentru existenţa unei „geopolitici a Uscatului” într-o lume globală

Cum am putea fundamenta însăşi posibilitatea unei optici a Uscatului asupra globalizării, în condiţiile în care, aşa cum am arătat, structura lumii globale presupune marginalizarea şi fragmentarea Uscatului?

Există câteva temeiuri pentru o astfel de abordare.

Spiritul uman (conştiinţa, voinţa, credinţa) este mereu în stare să-şi formuleze propria atitudine faţă de orice fenomen existent. Şi chiar dacă acest fenomen pare a fi ireversibil, atotcuprinzător, „obiectiv”, el poate fi acceptat sau respins, justificat sau condamnat. Anume în asta constă demnitatea supremă a omului şi deosebirea lui faţă de speciile animale. Şi dacă omul respinge şi condamnă ceva anume, el este în drept să elaboreze strategii de depăşire în orice condiţii şi stări, chiar şi în cele mai grele şi insurmontabile. Ofensiva societăţii globale poate fi acceptată şi aprobată, dar poate fi şi respinsă, şi condamnată. În primul caz, noi plutim în voia valurilor istoriei, în cel de-al doilea caz, căutăm puncte de sprijin pentru a opri acest proces. Istoria este făcută de oameni, iar aici un rol central îi revine spiritului. Prin urmare, există şansa creării unei teorii, radical opuse acelor viziuni, care sunt bazate pe „civilizaţia Mării” şi acceptă paradigmele de bază ale opticii occidentale asupra lucrurilor, mersului istoriei, logicii succesiunii sistemelor social-politice.

Metoda geopolitică permite interpretarea globalizării ca pe un proces subiectiv, legat de succesul uneia dintre cele două forţe globale. Oricât de marginalizat şi fragmentat ar fi Uscatul, el posedă temeiuri istorice solide, tradiţii, experienţă, premise sociologice şi civilizaţionale. Geopolitica Uscatului nu este creată pe un teren viran: ea reprezintă tradiţie, geografie şi tendinţe strategice. Tocmai din acest motiv, chiar şi la nivel teoretic aprecierea globalizării din perspectiva „geopoliticii Uscatului” este absolut legitimă.

La fel cum în centrul globalizării se află „subiectul” ei (mondialismul şi structurile lui), civilizaţia Uscatului îşi are propria întruchipare a subiectului. În pofida dimensiunilor gigantice şi formele impresionante ale polemicii istorice dintre civilizaţii, avem de a face, întâi de toate, cu confruntarea între minţi, idei, concepţii, teorii, şi doar după asta cu ciocnirea lucrurilor materiale, aparatelor, tehnologiilor, finanţelor, armamentului etc.

Procesul de desuveranizare a statelor naţionale încă n-a devenit unul ireversibil, iar elementele sistemului de la Westfalia încă se mai păstrează parţial. Prin urmare, un şir de state naţionale, în virtutea anumitor raţiuni, încă mai poate să mizeze pe promovarea unei strategii a Uscatului, adică poate să respingă în totalitate sau parţial globalizarea şi paradigma „civilizaţiei Mării”. Un exemplu în acest sens este China, care practică un echilibru între globalizare şi propria identitate terestră, urmărind cu stricteţe păstrarea unei balanţe generale, împrumutând din strategiile globale doar ceea ce întăreşte China în calitatea ei de formaţiune geopolitică suverană. Acelaşi lucru s-ar putea spune şi despre statele pe care SUA le-au trecut în categoria „axei răului” (Iran, Cuba, Coreea de Nord, Venezuela, Siria etc.). Desigur, riscul unei intervenţii directe a SUA atârnă ca sabia lui Damocles deasupra acestor ţări (după modelul Irakului sau Afganistanului), ele fiind supuse din interior unor subtile atacuri de reţea. Însă în momentul de faţă, suveranitatea lor se păstrează, ceea ce le transformă în zone privilegiate pentru dezvoltarea civilizaţiei Uscatului. Aceleiaşi categorii i-am putea atribui şi o serie de ţări oscilante, cum ar fi India, Turcia etc., care, fiind atrase în mod substanţial în orbita globalizării, îşi păstrează trăsăturile sociologice originale, care intră în contradicţie cu postulatele oficiale ale regimurilor guvernante. O astfel de situaţie le este proprie multor societăţi asiatice, latino-americane şi africane.

Şi, în fine, aspectul cel mai important – starea actuală a Heartlandului. Aşa cum cunoaştem, anume de el depinde dominaţia asupra lumii, realitatea sau efemeritatea globalizării unipolare. În anii 1980-90, Heartlandul şi-a redus în mod substanţial zona sa de influenţă. Din aceasta s-au desprins succesiv două centuri geopolitice, Europa de Est (ţările ce au făcut parte din „lagărul socialist”, „Tratatul de la Varşovia” CAER etc.) şi republicile unionale ale URSS. Către mijlocul anilor 1990, în Cecenia s-a declanşat testarea sângeroasă a posibilităţii de a continua divizarea Rusiei în „republici naţionale”. Această fragmentare a Heartlandului, până la crearea unui mozaic de state-marionetă în locul Rusiei, ar fi trebuit să se constituie într-un acord final al construcţiei lumii globale şi al „sfârşitului istoriei”, după care a mai vorbi despre Uscat şi despre „geopolitica Uscatului” ar fi fost mult mai dificil. Heartland joacă un rol central în posibila consolidare strategică a întregii Eurasii, şi, prin urmare, a „civilizaţiei Uscatului”. Dacă procesele ce aveau loc în Rusia în anii 1990 şi-ar fi urmat cursul, iar dezmembrarea ei ar fi continuat, ar fi fost mult mai dificil să se pună la îndoială globalizarea. Însă către sfârşitul anilor nouăzeci – începutul anilor 2000 s-a produs o schimbare bruscă a situaţiei, iar dezintegrarea a fost stopată; autorităţile federale au restabilit controlul asupra Ceceniei rebele. V. Putin a efectuat o reformă a subiecţilor federaţiei (eliminarea articolului despre „suveranitate”, numirea guvernatorilor etc.), care a fortificat verticala puterii în întreaga Rusie. Procesele integraţioniste în cadrul CSI au început să ia turaţii. În august 2008, pe parcursul conflictului militar de cinci zile cu Georgia, Rusia a stabilit un control strategic asupra unor teritorii ce se aflau în afara graniţelor ei (Ostia de Sud şi Abhazia) şi a recunoscut independenţa lor, în pofida unei susţineri masive a Georgiei din partea SUA şi a ţărilor NATO şi a presiunilor din partea opiniei publice mondiale. În ansamblu, Rusia, ca Heartland, a stopat, începând cu anii 2000, procesele de dezintegrare, a fortificat sectorul energetic, a reglementat chestiunile de livrare a resurselor energetice peste hotare, a renunţat la practica dezarmării unilaterale, păstrându-şi potenţialul nuclear. Concomitent, influenţa reţelei agenturii geopolitice a atlantismului şi a mondialismului asupra puterii politice şi a adoptării deciziilor de ordin strategic a slăbit în mod considerabil, iar fortificarea suveranităţii a fost înţeleasă ca sarcină de prim ordin, integrarea Rusiei într-o serie de structuri globaliste, ce ameninţau independenţa ei, a fost stopată. Într-un cuvânt, Heartland continuă a fi temelia Eurasiei, „nucleul” ei (core), unul slăbit, ce a suferit pierderi majore, şi totuşi unul existent, independent, suveran, capabil să-şi promoveze politica, dacă nu la scară globală, atunci cel puţin la cea regională. Pe parcursul istoriei sale, Rusia căzuse de câteva ori şi mai jos: răzleţirea pe cnezate la începutul sec. XIII, timpurile tulburărilor, evenimentele din 1917-1918 ne prezintă Heartlandul într-o stare şi mai deplorabilă şi slăbită. Dar de fiecare dată, peste o perioadă anume, Rusia renăştea şi revenea pe orbita istoriei sale geopolitice. Am putea aprecia cu greu starea Rusiei de azi ca fiind una strălucită sau chiar satisfăcătoare din punct de vedere geopolitic (eurasianist). Important însă e faptul că Heartland există, el este relativ independent, iar prin urmare, dispunem de o bază teoretică şi practică pentru a reuni toate premisele pentru elaborarea unui răspuns din partea Uscatului în faţa fenomenului globalizării unipolare şi pentru a le transpune în practică.

Un astfel de răspuns al Uscatului la provocarea globalizării (în calitate de triumf al „civilizaţiei Mării”) este reprezentat de multipolaritate în calitatea ei de teorie, filozofie, strategie, politică şi practică.

 

Multipolaritatea ca proiect al ordinii mondiale din perspectiva Uscatului

Multipolaritatea reprezintă un rezumat al „geopoliticilor Uscatului” în condiţiile actuale de desfăşurare a proceselor globale.

Multipolaritatea se constituie într-o antiteză reală a unipolarităţii în toate manifestările acesteia: dură (imperialism, neoconi, dominaţia directă a SUA), blândă (multilateralitate), critică (alterglobalism, postmodernism, neomarxism).

Versiunea dură a unipolarităţii (imperialismul american radical) se întemeiază pe faptul că SUA se proclamă ca fiind ultimul bastion al ordinii mondiale, al prosperităţii, al confortului, al securităţii şi al dezvoltării, care e înconjurat de haosul unor societăţi subdezvoltate. Multipolaritatea afirmă o poziţie diametral opusă: SUA este unul dintre statele naţionale existente ale căror valori sunt îndoielnice (sau cel puţin relative), pretenţiile – disproporţionate, apetiturile – exagerate, metodele politicii externe – inacceptabile, iar mesianismul tehnologic este unul fatal pentru cultura şi ecologia întregii lumi. În acest sens, proiectul multipolar este o antiteză dură a SUA ca instanţă ce construieşte metodic lumea unipolară, fiind orientat în mod categoric spre neadmiterea, zădărnicirea şi prevenirea acestei construcţii.

Versiunea blândă a unipolarităţii se declară că ar acţiona nu doar în numele SUA, ci în numele „umanităţii”, înţelegându-se prin asta, în mod exclusiv, Occidentul şi acele societăţi care sunt de acord cu universalitatea valorilor occidentale. „Unipolaritatea blândă” îndeamnă să nu se recurgă la impuneri prin forţă, ci să se apeleze la metoda convingerii, să nu se uzeze constrângerile, ci să se explice avantajele pe care le vor obţine ţările în urma intrării în globalizare. Aici, în calitate de pol, apare nu doar un stat naţional (SUA), ci civilizaţia occidentală în ansamblu, în calitate de chintesenţă a întregii umanităţi.

O astfel de unipolaritate „multilaterală” este respinsă de către multipolaritate, care consideră că cultura şi valorile occidentale reprezintă doar unul dintre seturile valorice printre multe altele, o cultură printre alte culturi diverse, că culturile şi sistemele de valori create pe principii total diferite au tot dreptul la existenţă. Tocmai din aceste motive, Occidentul n-are niciun temei să insiste asupra caracterului universal al democraţiei, al drepturilor omului, pieţei, individualismului, libertăţii personale, secularismului etc. şi să edifice în baza acestor norme societatea globală.

Împotriva alterglobalismului şi antiglobalismului postmodernist, multipolaritatea formulează teza potrivit căreia faza capitalistă de dezvoltare şi crearea unui capitalism la scară mondială nu reprezintă o fază obligatorie a dezvoltării societăţii. O astfel de afirmaţie în sine reprezintă o samavolnicie şi o tendinţă de a impune unor societăţi diverse un singur scenariu al istoriei. În acelaşi timp, amestecarea omenirii într-un singur proletariat mondial reprezintă nu o cale spre un viitor mai bun, ci un efect colateral şi absolut negativ al capitalismului global, care nu deschide nicio perspectivă nouă, ci conduce doar la degradarea culturilor, a societăţilor şi a tradiţiilor.

Multipolaritatea reprezintă o cu totul altă viziune asupra spaţiului terestru decât bipolaritatea.

Multipolaritatea este o privire normativă şi imperativă asupra situaţiei actuale din lume, din perspectiva Uscatului, şi se deosebeşte în mod substanţial de modelul ce predomina în sistemul Păcii de la Ialta şi al „războiului rece”.

Lumea bipolară s-a constituit pe principii ideologice, unde în calitate de poluri apăreau două ideologii, socialismul şi capitalismul. Socialismul ca ideologie nu punea la îndoială universalismul culturii occidentale şi reprezenta o tradiţie socioculturală şi politică, ce îşi avea rădăcinile în Iluminismul european. Într-un anumit sens, capitalismul şi socialismul concurau între ei ca două versiuni ale Iluminismului, două versiuni ale progresului, două versiuni ale universalismului, două versiuni ale gândirii social-politice occidentale.

Socialismul şi marxismul au rezonat cu anumiţi parametri ai „civilizaţiei Uscatului” şi tocmai de aceea au şi învins nu acolo unde presupunea Marx, ci tocmai acolo unde el însuşi excludea o astfel de posibilitate, într-o ţară agrară, cu un mod de organizare preponderent tradiţional al societăţii şi cu o structură imperială a spaţiului politic. Celălalt caz al victoriei socialismului, China, reprezenta, de asemenea, o societate agrară, tradiţională.

Multipolaritatea i se opune unipolarităţii nu de pe poziţiile unei ideologii care ar putea să pretindă a fi cel de-al doilea pol, ci de pe poziţia mai multor ideologii, mai multor culturi, viziuni asupra lumii şi religii, care (din motive de fiece dată diferite) nu am nimic în comun cu capitalismul liberal occidental. În condiţiile în care Marea are o singură expresie ideologică, în timp ce Uscatul nu dispune de aşa ceva, reprezentând câteva ansambluri de viziuni şi civilizaţionale diverse, multipolaritatea propune crearea frontului unic al Uscatului contra Mării.

Multipolaritatea diferă şi faţă de proiectul conservator de păstrare şi fortificare a statelor naţionale. Pe de o parte, statele naţionale din epocile colonială şi postcolonială reflectă în structurile lor concepţia occidentală a normelor de organizare politică (ce ignoră particularităţile religioase, sociale, etnice, culturale ale acestor societăţi), adică naţiunile însele sunt în parte produse ale globalizării. Iar pe de altă parte, din cele două sute cincizeci şi şase de ţări, care figurează oficial în lista ONU, doar o mică parte este în stare să-şi apere, în caz de necesitate, în mod independent suveranitatea, fără a se alia cu alte ţări. Adică, nu fiece stat existent în mod nominal poate fi considerat drept pol, deoarece în cazul majorităţii absolute a ţărilor, nivelul de libertate strategică este unul minuscul. Tocmai de aceea, multipolaritatea nu-şi propune să fortifice sistemul de la Westfalia, care mai există la modul inerţial la ora actuală.

Fiind un antipod al unipolarităţii, multipolaritatea nu îndeamnă nici spre revenirea la o lume bipolară pe baze ideologice, nici spre întărirea ordinii statelor naţionale, nici la simpla păstrare a statu quo-ului. Toate aceste strategii doar vor face jocul centrelor globalizării şi unipolarităţii, deoarece acestea dispun de un proiect, un plan, un scop şi o rută raţională de mişcare spre viitor, în timp ce toate scenariile enumerate mai sus, în cel mai bun caz, reprezintă nişte apeluri la încetinirea procesului globalizării, iar în cel mai rău (ca, de pildă, proiectul restabilirii bipolarităţii pe baze ideologice), arată ca nişte simple nostalgii sau fantezii iresponsabile.

Multipolaritatea este vectorul geopoliticii Uscatului, orientat spre viitor. El se întemeiază pe o paradigmă sociologică, a cărei consistenţă este demonstrată de trecut, ţine cont în mod realist de starea de lucruri ce s-a creat în lumea modernă, precum şi de tendinţele de bază şi liniile de forţă ale unor posibile transformări ale acesteia. Multipolaritatea se organizează ca un proiect, ca un plan al acelei ordini mondiale, care încă urmează să fie creată.

Din cartea lui Aleksandr DUGHIN „Teoria lumii multipolare”, în traducerea lui Iurie ROŞCA

ALEKSANDR DUGHIN: TEORIA LUMII MULTIPOLARE (11)

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Partea 2. GEOPOLITICA LUMII MULTIPOLARE

Capitolul 1. Multipolaritatea ca proiect deschis
Urmare din numărul precedent

Multipolaritatea şi înţelegerea ei teoretică

Deşi în ultima vreme termenul „multipolaritate” este utilizat destul de frecvent în cadrul discuţiilor politice şi internaţionale, sensul ei este destul de diluat. Diverse cercuri politice şi analişti aparte îi atribuie sensuri diferite. Cauza acestei situaţii este clară: înşişi parametrii discursului politic şi ideologic normativ la ora actuală sunt conturaţi la nivel global de către SUA şi ţările occidentale, iar în baza acestor reguli se poate discuta orice, însă nu şi cele mai stringente şi dureroase probleme.

Ar fi fost logic să presupunem că teoria multipolarităţii se va constitui în acele ţări care îşi declară deschis orientarea spre o lume multipolară ca vector de bază a politicii lor externe (Rusia, China, India şi altele câteva). În plus, apelul la multipolaritate poate fi întâlnit şi în unele texte ale personalităţilor politice europene (de exemplu, ex-ministrul de Externe al Franţei, Hubert Verdine). Însă la ora actuală este puţin probabil să descoperim ceva mai mult decât materialele unor simpozioane şi conferinţe ce conţin formulări destul de vagi.

 

Multipolaritatea: geopolitică şi metaideologie

Să creionăm acum sursele teoretice în baza cărora trebuie să fie construită o teorie solidă a multipolarităţii.

În condiţiile actuale, temelia acestei teorii poate fi doar geopolitica. Nicio ideologie religioasă, economică, politică, socială, culturală nu este în stare să consolideze la ora actuală o masă critică de ţări şi societăţi, care ţin de „civilizaţia Uscatului”, într-un front planetar unic, necesar pentru crearea unei antiteze solide şi eficiente globalismului şi lumii unipolare. Anume în asta şi constă specificul momentului istoric („momentul unipolarităţii”): ideologia dominantă (liberalismul/postliberalismul global) nu are o opoziţie simetrică de acelaşi nivel. Iată de ce este necesar să se facă apel direct la geopolitică, adoptându-se principiul Uscatului (Land Power) în locul ideologiei de opoziţie. Aşa ceva este posibil doar în cazul în care vor fi conştientizate în întregime dimensiunile sociologice, filozofice şi civilizaţionale ale geopoliticii.

Pentru fundamentarea acestei afirmaţii ne va servi „civilizaţia Mării”. Am văzut că matricea acestei civilizaţii poate fi găsită nu doar în Modernitate, ci şi în imperiile talasocratice din vechime, ca, de exemplu, în Cartagina, Atena antică sau în republica veneţiană. În cadrul lumii moderne, atlantismul şi liberalismul capătă o superioritate totală asupra altor tendinţe nu de la bun început. Am putea urmări o anumită consecutivitate conceptuală: cum anume „civilizaţia Mării” (în calitate de categorie geopolitică) se mişcă prin istorie, printr-o serie de formaţiuni sociale, căpătând diverse forme, până când îşi găseşte expresia cea mai împlinită şi perfectă în ideea lumii globale, unde postulatele ei interne devin dominante la nivel planetar. Ideologia mondialismului contemporan reprezintă doar o formă istorică a unei paradigme geopolitice mult mai largi. Între această formă (posibil, cea mai evoluată) şi matricea ei geopolitică există o legătură directă.

În cazul „civilizaţiei Uscatului” nu există o simetrie analogică. Ideologia comunismului a avut doar o rezonanţă parţială (pe seama eroismului, colectivismului şi antiliberalismului) cu principiile societăţii „terestre”, şi doar în cazul URSS-ului eurasiatic şi, într-o măsură mai mică, al Chinei, deoarece alte aspecte ale acestei ideologii (progresismul, tehnica, materialismul) se înscriau nereuşit în structura valorilor „civilizaţiei Uscatului”. Iar astăzi comunismul nu poate să îndeplinească nici la nivel teoretic acea funcţie ideologică pe care o exercita în sec. XX la scară planetară. Din punct de vedere teoretic, Uscatul este efectiv spart în fragmente şi este prea puţin probabil să ne aşteptăm ca în timpul apropiat să apară o nouă ideologie, ce ar fi în stare să reziste în mod simetric globalismului liberal.

Dar însuşi principiul geopolitic al Uscatului nu pierde nimic din structura lui paradigmatică. Anume acesta trebuie luat drept bază pentru construcţia teoriei multipolarităţii. Această teorie trebuie să apeleze direct la geopolitică, să extragă din ea principii, idei, metode şi termeni. Asta va permite să fie privit cu totul altfel şi spectrul larg al ideologiilor, religiilor, culturilor şi curentelor sociale nonglobaliste şi antiglobaliste. Acestea nu trebuie să se transforme în mod obligatoriu în ceva unic şi sistematizat. Ele pot rămânea foarte bine locale sau regionale, dar să fie integrate într-un front comun al opoziţiei faţă de globalizare şi dominarea „civilizaţiei Occidentului” la un nivel metaideologic, la nivelul paradigmei „geopoliticii Uscatului”. Acest aspect al multitudinii ideologiilor stă la însăşi temelia termenului multipolaritate, şi nu doar în cadrul spaţiului strategic, ci şi în sfera ideologică, culturală, religioasă, socială şi economică.

Multipolaritatea nu este altceva decât extinderea „geopoliticii Uscatului” într-un mediu nou, marcat de ofensiva globalismului (atlantismului) la un nivel calitativ nou şi în proporţii calitativ noi. Multipolaritatea, pur şi simplu, nu poate avea alt sens.

 

Multipolaritatea şi neoeurasianismul

Cel mai apropiat de teoria multipolarităţii este neoeurasianismul. Această orientare îşi are rădăcinile în geopolitică şi operează cu precădere cu formula „Rusia-Eurasia” (ca Heartland), dar elaborează, în acelaşi timp, un spectru larg de curente filozofice, sociologice şi politologice, şi nu se limitează doar la geostrategie şi analiza aplicată.

Conţinutul termenului „neoeurasianism” poate fi ilustrat prin citarea unor fragmente din Manifestul „Mişcării Eurasianiste” Internaţionale, „Misiunea eurasianistă” . Autorii lui scot în evidenţă cinci niveluri ale neoeurasianismului, care permit ca acesta să fie tratat în mod diferit în funcţie de contextul concret.

 

Nivelul întâi: eurasianismul este o viziune asupra lumii

Potrivit autorilor Manifestului, termenul „eurasianism” se aplică faţă de o anumită viziune, o anume filozofie politică, ce îmbină de o manieră originală Tradiţia, Modernitatea şi chiar elementele Postmodernităţii. Filozofia eurasianismului porneşte de la prioritatea valorii societăţii tradiţionale, recunoaşte imperativul modernizării tehnice şi sociale (dar fără ruperea de rădăcinile culturale) şi tinde să-şi adapteze programul ideologic la situaţia societăţii postindustriale, informaţionale, numite „Postmodernitate”.

În cadrul Postmodernităţii este eliminată opoziţia între tradiţie şi modernitate. Însă postmodernismul de tip atlantist le egalează de pe poziţiile indiferenţei şi ale irosirii conţinutului. Postmodernitatea Eurasianistă, dimpotrivă, consideră posibilă o alianţă între tradiţie şi modernitate ca un impus constructiv, optimist şi energic, care dă un imbold creaţiei şi dezvoltării.

În filozofia eurasianistă, un loc legitim le revine realităţilor marginalizate de epoca Iluminismului: religia, imperiul, cultul, predania etc. Concomitent, din Modernitate este preluat saltul tehnologic, dezvoltarea economică, echitatea socială, eliberarea muncii etc. Contrariile sunt depăşite, contopindu-se într-o teorie unică, armonioasă şi originală, ce dă viaţă unor idei proaspete şi noi soluţii pentru problemele eterne ale umanităţii (…).

Filozofia eurasianismului este una deschisă, fiindu-i străină orice formă a dogmatismului. Ea se poate îmbogăţi cu cele mai diverse curente: istoria religiilor, descoperiri de ordin sociologic şi etnologic, geopolitica, economia, culturologia, cele mai diverse tipuri de cercetări strategice şi politologice etc. Mai mult decât atât, eurasianismul ca filozofie presupune o dezvoltare originală în fiecare context cultural şi lingvistic concret: eurasianismul ruşilor se va deosebi în mod inevitabil de eurasianismul francezilor sau al germanilor, eurasianismul turcilor – de eurasianismul iranienilor, eurasianismul arabilor – de cel al chinezilor etc. În acelaşi timp, liniile de forţă ale acestei filozofii se vor păstra neschimbate (…).

Principalele puncte de reper ale filozofiei eurasianiste ar fi următoarele:

• diferenţialismul, pluralismul sistemelor de valori împotriva dominaţiei obligatorii a unei anume ideologii (în cazul nostru, în primul rând al liberal-democraţiei americane);

• tradiţionalismul împotriva nimicirii culturilor, dogmelor şi riturilor societăţilor tradiţionale;

• „statul-lume”, „statul-continent” împotriva atât a statelor naţionale burgheze, cât şi a „guvernului mondial”;

• „drepturile popoarelor” contra atotputerniciei „miliardului de aur” şi hegemonismului neocolonialist al „Nordului bogat”;

• etnia ca valoare şi subiect al istoriei contra depersonalizării popoarelor şi înstrăinarea lor în cadrul unor construcţii social-politice artificiale;

• echitatea socială şi solidaritatea oamenilor muncii contra exploatării, logicii înavuţirii rapace şi înjosirea omului de către om.

 

Neoeurasianismul ca trend planetar

La cel de-al doilea nivel: neoeurasianismul este un trend planetar. Autorii proiectului explică:

Eurasianismul la nivelul unui trend planetar reprezintă un concept global, revoluţionar, civilizaţional, care, şlefuindu-se pe parcurs, este chemat să devină o nouă platformă de viziune pentru înţelegerea reciprocă şi colaborarea unui spectru larg de forţe, state, popoare, culturi şi confesiuni, ce resping globalizarea atlantistă.

E suficient să fie citite cu atenţie declaraţiile celor mai diverse forţe din întreaga lume – politicieni, filozofi, intelectuali – pentru a ne convinge că eurasianiştii constituie o majoritate absolută. Mentalitatea multor popoare, societăţi, confesiuni şi state, chiar dacă ele nu bănuiesc acest lucru, este una eurasianistă.

Eurasianismul însumează toate obstacolele naturale şi artificiale, obiective şi subiective în calea globalizării unipolare, ridicate de la simpla negare la un proiect pozitiv, la o alternativă creatoare. Atât timp cât aceste obstacole sunt răzleţite şi haotice, globaliştii le fac faţă fiecăruia în mod separat. Dar e suficient ca ele să fie integrate, să fie unite într-o viziune unică şi consecventă de anvergură planetară, şi atunci şansele de victorie ale eurasianismului din întreaga lume vor deveni deosebit de mari.

Neoeurasianismul ca proiect integraţionist
La următorul nivel, eurasianismul este tratat ca proiect al integrării strategice a continentului eurasiatic:

Noţiunea de „Lumea Veche”, care, de obicei, i se atribuie Europei, poate fi privită mult mai larg. Este vorba de un spaţiu multicivilizaţional gigantic, populat de către popoare, state, culturi, etnii şi confesiuni, legate între ele din punct de vedere istoric şi spaţial, de comunitatea destinului lor dialectic. Lumea Veche este produsul dezvoltării organice a istoriei omenirii.

Lumea Veche este contrapusă, de regulă, Lumii Noi, continentului american, descoperit de către europeni şi devenit o platformă pentru construcţia unei civilizaţii artificiale, în care s-au întruchipat proiectele europene ale Modernităţii, epocii Luminilor. (…)

În sec. XX, Europa şi-a conştientizat esenţa originală, înaintând treptat spre integrarea tuturor ţărilor europene într-o singură Uniune, capabilă să-i asigure acestui spaţiu în întregime suveranitatea, independenţa, securitatea şi libertatea.

Crearea Uniunii Europene a constituit un jalon major în cauza reîntoarcerii Europei în istorie. Acesta a fost un răspuns al Lumii Vechi la pretenţiile exagerate ale Lumii Noi. Dacă privim alianţa SUA şi a Europei Occidentale (cu dominarea Americii) ca pe un vector atlantist al dezvoltării europene, atunci integrarea însăşi a ţărilor europene cu predominarea ţărilor continentale (Franţa-Germania) poate fi considerată una de natură eurasianistă.

Acest lucru devine şi mai evident, dacă e să ţinem cont de teoriile potrivit cărora, sub aspect geopolitic, Europa se întinde de la Atlantic şi până la Ural (Ch. de Gaulle) sau până la Vladivostok. Altfel zis, nemărginitele spaţii ale Rusiei sunt incluse la fel de legitim în câmpul Lumii Vechi, ce urmează să se integreze.

(…) În acest context, eurasianismul poate fi definit ca un proiect de integrare strategică, geopolitică, economică a nordului continentului eurasiatic, înţeles ca leagăn al istoriei europene, ca matrice a popoarelor şi culturilor, strâns împletite între ele.

Iar întrucât însăşi Rusia (ca, de altfel, şi strămoşii multor europeni) este legată într-o măsură considerabilă cu lumea turcică, mongolă, cu popoarele caucaziene, prin Rusia şi, în paralel, prin Turcia, o Europă ce se integrează ca Lume Veche capătă pe deplin dimensiunea eurasiatică, de această dată nu doar în sens simbolic, ci şi în cel geografic. Aici am putea identifica în mod sinonimic eurasianismul cu continentalismul.

Aceste trei definiţii cele mai generale ale neoeurasianismului arată că aici avem de a face cu baza prealabilă pentru construirea teoriei multipolarităţii. Este vorba despre o optică terestră asupra celor mai acute provocări ale momentului actual şi o încercare de a le da un răspuns precis, care ţine cont de legităţile geopolitice, civilizaţionale, sociologice, istorice şi filozofice.

Din cartea lui Aleksandr DUGHIN „Teoria lumii multipolare”, în traducerea lui Iurie ROŞCA

LEVIATANO – RASSEGNA DELLA STAMPA ATLANTICA (21 APRILE – 27 APRILE)

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Editoriali e saggi si concentrano questa settimana su tre interrogativi.

Il primo è di carattere militare, ovvero quale sia, in uno scenario di scontro militare, la capacità d’urto della NATO. La risposta non è molto incoraggiante date le forti tensioni fra i membri dell’Alleanza Atlantica. Da una parte quelli storici che prediligono mantenere rapporti economici stretti con la Russia (a cominciare dalla Germania); dall’altra, i partner orientali e baltici che non si sentono affatto rassicurati dalla NATO e dal suo modo, per troppi anni, soft, di rapportarsi alla Russia. Solo dopo i fatti occorsi in Georgia, i vertici militari atlantici hanno cominciato ad allertare quelli politici sulla necessità di rimpolpare il budget destinato alla difesa. La situazione però non sembra aver raggiunto ancora alcun punto di equilibrio, stante la riluttanza di molti governi ad impegnare una spesa superiore al 2% dell’intero budget.

Il secondo quesito attiene agli scenari territoriali possibili a prodursi in Ucraina. Nel primo, l’Est dell’Ucraina viene annesso alla Federazione Russa o, salvando in parte le apparenze, vengono a determinarsi regioni con una larghissima autonomia in grado di sviluppare autonomi rapporti con Mosca. A parte la Crimea (col 58%), le minoranze filorusse si concentrano massimamente nelle città e rappresentano un’aliquota fra il 22% ed il 38% della popolazione: da un punto di vista demografico, la maggioranza della popolazione è concentrata nelle campagne dove, al contrario, è forte il sentimento ucraino di appartenenza. La strategia intelligente della Russia è stata quella di aprire non solo a coloro che fossero russi di origine ma anche ai russofoni così da ampliare l’interesse russo fino ai confini di Moldavia e Romania. Il problema però è che i russi si basano su una rappresentazione geografica dell ’ Ucraina risalente al 2001, quando la russificazione continuava a dispiegare gli effetti dei decenni precedenti, mentre oggi però non è più così.
Il secondo scenario prevede la stessa frammentazione completa del paese (con la repubblica di Donetsk nell’Est; la Crimea, una Nuova Repubblica Russa nel Sud (Odessa, Mykolayiv, Kherson, e la metà occidentale di Dnipropetrovsk; la repubblica di Dnipropetrovsk-Slobdzhansk Republic nel Centro Nord con Kharkiv, Poltava, Chernihiv, Sumy, e le parti occidentali di Dnipropetrovsk, Cherkasy, e distretti kievani) ma con Kiev destinata a diventare la Berlino del XXI secolo divisa fra una parte russa ed una ucraina.

Il terzo scenario è la ricostituzione di una Nuova Russia risalente all’epoca di Caterina la Grande. La domanda è se Putin voglia veramente spingersi nei fatti, oltreché nelle parole, verso tale direzione.
Qui si entra nel terzo interrogativo, ovvero se Putin lanci questa idea di Novorossiya come provocazione o vero disegno geostrategico. Nel primo caso, saremmo di fronte ad un frammento di una complessa trattativa diplomatica che consenta – anche tenuto conto delle imminenti scadenze elettorali europee – di verificare quale rappresentanza politica potrà emergere a Bruxelles e a Kiev. Nel secondo caso, ovviamente, lo scenario, per quanto sopra illustrato per la parte militare, sarebbe ben più preoccupante
Al momento in cui stiamo scrivendo la rubrica, la tensione fra Kiev e Mosca sta salendo oltre i normali livelli di guardia. Il tentativo del governo ucraino di riprendere militarmente il controllo di Slovyansk e, in generale, dell’area orientale del paese, sta provocando le reazioni russe al confine con ammassamenti di truppe a cui fanno da controcanto dichiarazioni infuocate da parte di Putin e Lavrov

http://www.nytimes.com/2014/04/24/world/europe/eastern-europe-frets-about-natos-ability-to-curb-russia.html?_r=0

http://www.foreignaffairs.com/articles/141311/alina-polyakova/ukrainian-long-division

http://www.cfr.org/ukraine/ukraine-long-road-rupture/p32814?cid=rss-analysisbriefbackgroundersexp-is_ukraine_on_a_long_road_to_r-042214

PRESENTAZIONE DI “EURASIA” 1/2014 A MILANO: “RIFONDARE L’UNIONE EUROPEA?”

IL LEVIATANO – RASSEGNA DELLA STAMPA ATLANTICA (28 APRILE – 4 MAGGIO)

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Un saggio di Walter Russell Mead a proposito del “ritorno della geopolitica” sul nuovo numero di “Foreign Affairs”.
Gli USA trovano fastidioso che la Russia rivendichi in modo così determinato la Crimea, che la Cina voglia mantenere un controllo così ferreo sulle proprie acque territoriali, che l’Iran intenda assumere un ruolo di guida nel Vicino Oriente. Essi vorrebbero dettare l’agenda geopolitica con temi quali la liberalizzazione dei commerci, la non proliferazione nucleare, i diritti umani, il cambiamento climatico, lo stato di diritto e così via. La situazione odierna sembra precipitare verso il brutale realismo dei secoli scorsi, piuttosto che evolversi verso strategie partecipate e condivise. La verità è che, contrariamente alle illusioni prodottesi agli inizi degli anni ’90, la fine della Guerra Fredda non ha decretato la vittoria di un ordine perpetuo bensì l’apertura di nuove faglie scosse da attori (Russia, Cina e Iran) che cercano un proprio spazio combattendo l’Ordine Occidentale non in quanto tale ma se ed in quanto ostacolo all’affermazione della loro realtà. Esaminati da vicino questi paesi tutto rappresentano fuorché un unitario e compatto asse del Male: Russia e Iran fanno leva sulle esportazioni rispettive di gas e petrolio e condividono un’aspettativa di prezzi alti; la Cina è il più grande paese consumatore ed al contrario necessita di prezzi bassi : ciò che lega questi paesi sarebbe dunque la volontà di rovesciare l’ordine esistente per riaffermare lo spazio geopolitico sovietico (la Russia), per assumere una leadership nell’Asia (la Cina) e scalzare la potenza saudita nel Medio oriente (l’Iran) . Gli USA sono l’ostacolo a questi loro disegni. Oggi l’attività diplomatica di questi paesi sembra aver segnato punti a loro favore (es. la Russia nel Medio Oriente) ma il paradosso è rappresentato dal fatto che il raggiungimento dei loro obiettivi porterebbe inevitabilmente a far riemergere, al loro interno, tutti quei problemi di ordine economico sociale che l’attuale fase sembra aver aiutato loro accantonare. D’altro canto, l’Amministrazione USA, succube di quella mentalità da “fine della Storia”, per usare l’espressione di Fukuyama, non appare in grado di rilanciare alcun disegno strategico valido sul piano geopolitico: ciò si combina con una pubblica opinione più ripiegata sui problemi interni (occupazione ed assistenza sanitaria) che su questioni relative ad un ordine internazionale percepito come fonte di problemi piuttosto che di benefici. Eppure, conclude l’autore, la Storia non è giunta al suo capolinea semmai al crepuscolo. Essa non si ridurrà mai ad una gestione routinaria affidata ad un esercito di burocrati e lobbisti capaci di garantire alle masse di consumare pacificamente i propri beni essenziali e, soprattutto, voluttuari che siano: già Hegel, nel 1806 di fronte all’avanzata trionfante delle armate napoleoniche scriveva della fine di un mondo che, con le armate rivoluzionarie francesi, non sarebbe stato più quello di prima, e a poco valsero i tentativi di Restaurazione per illudersi che nulla fosse cambiato.
Per quanto possano apparire all’Occidente rozzi e retrogradi, esistono paesi che hanno visioni e priorità diverse per le quali combattere e la difesa di quelli che sono ritenuti i valori della civiltà occidentale passa dal guidare istituzioni che si conformino al capitalismo industriale e digitale: se non si è (più?) in grado di affrontare questa partita, anche con una prospettiva che coinvolga problemi di ordine militare che sembravano superati e propri di epoche date per finite, si è destinati a soccombere.

http://www.foreignaffairs.com/articles/141211/walter-russell-mead/the-return-of-geopolitics

LO SPETTRO POPULISTA SULLE ELEZIONI EUROPEE

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I cinquecento milioni di cittadini europei chiamati al voto per il rinnovo del Parlamento Europeo che si svolgerà nel maggio 2014 stanno attraversando una delle più gravi crisi economiche dal dopoguerra, che ha portato alla disillusione verso i partiti tradizionali, colpevoli di non aver adottato le giuste misure per arginarla. L’ondata populista che in questo momento attraversa la quasi totalità’ dei paesi europei ha messo in allarme i politologi che temono che il Parlamento cada in mano dei partiti e dei movimenti antieuropeisti.
Il successo dei movimenti di matrice populista sta aumentando in maniera esponenziale e questi trovano terreno fertile in tutti i settori popolari, specie in quelli poco interessati alla vita politica democratica e con un basso livello di istruzione. Viene poi tracciata una mappa sintetica della geografia dell’antieuropeismo, attraverso i dati delle elezioni locali e nazionali dei maggiori Paesi europei come l’Ungheria, l’Austria, la Francia, il Regno Unito, l’Italia, la Grecia ed infine Germania, Polonia e Grecia.

L’ultima settimana del maggio 2014 i cittadini dell’Unione Europea saranno chiamati ad eleggere i propri rappresentanti al Parlamento Europeo. La ripartizione dei seggi, definita nei trattati europei sulla base del principio di proporzionalità degressiva, prevede l’assegnazione di un numero maggiore di seggi ai paesi con un maggior numero di abitanti rispetti ai paesi di dimensioni minori, nonostante questi ultimi ottengano un numero di seggi superiore a quello che avrebbero ottenuto sotto il profilo strettamente proporzionale. Per queste elezioni il trattato di Lisbona prevede quindi, per ogni paese, un numero di deputati per il Parlamento europeo che varia da un minimo di 6 per paesi come Malta, Lussemburgo, Cipro e Estonia fino a 96 per la Germania.
Il ricorso a una forma di rappresentanza proporzionale, elemento comune ai diversi sistemi elettorali presenti all’interno dell’Unione Europea, fa in modo che tutti i partiti politici abbiano la possibilità di vedere eletti un numero di rappresentanti in funzione del successo elettorale riscosso. I deputati che verranno eletti al Parlamento europeo avranno la possibilità di aggregarsi a gruppi politici transnazionali, il più forte dei quali avrà di conseguenza un peso determinante sulle decisioni che saranno adottate nel corso della nuova legislatura. Il Consiglio Europeo dovrà, infatti, tener conto dei risultati elettorali quando dovrà procedere alla designazione di un candidato alla carica di Presidente della Commissione Europea, organo esecutivo dell’UE.
Sulla scia di questa premessa occorre sottolineare come gli oltre 500 milioni di europei che saranno chiamati alle urne in maggio stiano vivendo una delle più drammatiche crisi economiche del dopoguerra, caratterizzata dalla disillusione verso i partiti tradizionali, dimostratisi incapaci di arginare l’ondata populista che in questo momento sta attraversando la quasi totalità dei paesi europei.

 

La minaccia populista ed euroscettica

Dalle più fosche previsioni dei politologi europei si evince il timore di un Parlamento europeo in mano ai partiti anti-europei. Tra i leader nazionali serpeggia la paura del concretizzarsi di questa eventualità: l’ex capo del governo italiano Enrico Letta, in un’intervista al New York Times rilasciata nel mese di ottobre, è stato tra i primi a dare voce a questi timori (1), rilevando come l’ascesa del populismo, definito come il principale problema sociale e politico europeo, minacci la stabilità sul continente, minando gli sforzi che si stanno compiendo per rafforzare le istituzioni politiche e finanziarie dell’eurozona. Letta aveva posto l’accento sull’ingestibilità della prossima assemblea continentale qualora gli euroscettici ottengano più del 25% dei seggi; nel fare questo, ha richiamato i colleghi europei all’impegno affinché si eviti quella che si preannuncia come «una legislatura da incubo» (2).
Nel caso specifico dell’Italia occorre rilevare come in diversi momenti del dopoguerra siano state presenti campagne contro la classe politica, le istituzioni e i partiti politici (3). Si tratta di battaglie contro la partitocrazia condotte da formazioni politiche diverse tra loro, come l’Uomo Qualunque di Giannini o il Partito Radicale di Pannella, le quali, nonostante un successo iniziale, non hanno modificato in maniera significativa il sistema dei partiti e la cultura politica degli italiani (4).
La mobilitazione dell’antipolitica che si sviluppa a partire dagli anni Novanta del secolo scorso ha avuto, infatti, un ruolo decisivo nella crisi della cosiddetta Prima Repubblica, dando inizio ad un nuovo sistema dei partiti e all’affermazione di nuovi stili di comunicazione politica (5). All’interno di tale ragionamento, sarebbe necessario chiedersi come mai la mobilitazione populista di questi anni in Italia non sia stata condotta da un partito della destra tradizionale come il Movimento Sociale Italiano, vicino al francese Front National per storia e tradizione ideologica, bensì abbia fatto emergere partiti come la Lega Nord (6) e successivamente Forza Italia (7).
Occorre però sottolineare che sia in Italia, che negli altri paesi europei, la proposta politica delle formazioni populiste ha ruotato intorno a tre cardini fondamentali:
- la delegittimazione dei partiti e della vecchia classe politica, che si estende alle istituzioni della democrazia rappresentativa e sostiene la valorizzazione delle forme di democrazia diretta e plebiscitaria affidano a un leader il compito di interpretare la volontà popolare. Nel caso italiano l’ascesa del Movimento Cinque Stelle e la carismatica e onnipresente figura del leader Beppe Grillo ne possono essere un esempio tanto lampante quanto inquietante.
- un’idea di una massa costituita da gente comune, incline ad impegnarsi politicamente e fortemente diffidente dalle idee proposte attraverso le élite economiche, politiche ed intellettuali e i paesi di appartenenza.
- il collegamento tra la crisi economica e le trasformazioni sociali indotte da questa alla presenza dei numerosi migranti provenienti dal Nord Africa ai quali vengono imputate responsabilità come l’aumento della criminalità, l’inefficienza dei servizi sociali e il degrado delle aree urbane (8).
Da quanto detto emerge come il percorso verso una via autenticamente democratica incontri difficoltà crescenti a causa della globalizzazione dell’economia e della comunicazione, dell’indebolimento degli Stati nazionali, della crescente influenza, rivelatasi spesso dannosa, del sistema dei media nella vita politica e in generale della crisi del ruolo di mediazione dei partiti di massa (9).
Il populismo, in quest’ottica, si manifesta come un fenomeno transitorio, sia che caratterizzi un movimento sociale o un regime politico, e si incarna in forme di transizione che possono essere pacifiche o caotiche, costituendo un organismo sociopolitico instabile, dal significato indeterminato (10).
Il populismo ha, inoltre, la caratteristica di identificarsi come un “contenitore trasversale” per movimenti politici di vario tipo (di destra come di sinistra, reazionari e progressisti, e via dicendo) che trovano un punto di incontro sulla retorica del rifiuto delle oligarchie politiche ed economiche e nell’esaltazione delle virtù naturali del popolo, massa socio-culturalmente indefinibile, quali la saggezza, l’operosità e la pazienza.
È pertanto matematico l’aumento esponenziale del successo dei movimenti di matrice populista nei momenti di crisi profonda e sfiducia nella classe dirigente al potere, quando cioè il patto tra classe dirigente e popolo viene disatteso e quest’ultimo cerca una soluzione opposta che percorre una nuova via politica che nasce dall’antipolitica. Un esempio calzante è certamente l’affermazione di fenomeni come il grillismo in Italia, prima mediatici e solamente in seconda battuta rappresentativo-istituzionali. Il grillismo del Movimento 5 stelle, rappresenta in effetti un’ulteriore evoluzione di populismo mediatico, che ha saputo fare della rete di internet il principale canale di comunicazione e diffusione delle proprie battaglie, dando vita a una realtà che una volta raggiunta la ribalta nazionale e istituzionale, cavalcando il grave malcontento generato dalla crisi, non è però riuscita a palesare il suo peso decisionale e programmatico nel governo del paese (11).
Per avere una dimensione di quanto gli orientamenti e gli atteggiamenti populisti siano penetrati nel nostro paese e di quanto si siano legati alle posizioni politiche e alle tradizioni culturali che lo caratterizzano, occorre tenere conto di una serie di indicatori fondamentali. Si pensi, ad esempio, all’ampiezza della mobilitazione dell’antipolitica, basata sul risentimento nato dalla sensazione di essere stati espropriati della sovranità popolare e di tradimento dell’idea del popolo sovrano (12). Si dovrà valutare inoltre la dimensione della mobilitazione dell’ostilità nei confronti degli immigrati extracomunitari, di come i poteri politici siano criticati per la mancanza di tutela delle caratteristiche etnoculturali del popolo e per il tradimento dell’idea di popolo-nazione (13). Il principio di rappresentanza, che era stato proposto per primo dal Front National, è stato adottato infatti da tutte le formazioni populiste, che sostengono la priorità nazionale per la titolarità dei diritti e l’accesso alle risorse locali. Anche in questo caso l’esempio italiano può essere preso come riferimento: basti pensare alle polemiche scoppiate all’indomani del gravissimo naufragio di decine di immigrati dell’ottobre 2013 a Lampedusa, evento drammatico che ha portato sotto gli occhi di tutti il fallimento delle politiche italiane ed europee in tema di accoglienza.
Dovrà essere considerata infine la necessità di una figura autorevole carismatica, che trova espressione nel particolare ruolo attribuito ai leader populisti: in quest’ottica le regole e le procedure della democrazia formale non sono ritenute all’altezza per esprimere l’autentica volontà popolare, che può essere gestita esclusivamente da un leader forte (14).
Dalle analisi statistiche effettuate (15), emerge poi come la diffusione delle idee populiste sia stata maggiore in quei settori della popolazione poco interessati allo svolgimento della vita politica democratica, e come questa diffusione sia stata più ampia nei settori della popolazione con un livello di istruzione più basso. In generale è stato possibile osservare come la penetrazione delle diverse dimensioni degli orientamenti populisti, individuate nell’etnocentrismo, nell’antipolitica e nella domanda di autorità, sia stata rilevante in tutti i settori popolari: operai, lavoratori autonomi, disoccupati, casalinghe e pensionati. Tali segmenti sociali sono stati in molti casi raggiunti e parzialmente coinvolti dalle formazioni politiche populiste, per le quali il sistema dei media ha svolto la funzione di cassa di risonanza nelle diffusione delle tematiche e delle idee tipiche di questi movimenti di protesta (16).

 

Una geografia dell’antieuropeismo

Una volta compiuta questa premessa, occorre prendere atto del fatto che tutti i partiti populisti stanno riscuotendo inaspettati successi nelle elezioni locali e nazionali in quasi tutti i paesi europei: Ungheria, Austria, Francia, Regno Unito, Italia, Paesi Bassi, Grecia, Germania, Polonia e Belgio. Nulla vieta di pensare che alla chiamata alle urne del maggio 2014 gli elettori europei potrebbero rispondere riversando i loro consensi su tali formazioni, arrecando un grave danno alla stabilità continentale per come si è espressa in tutti questi anni. Nonostante la geografia dell’anti-europeismo sia molto varia e spesso contraddittoria, cosi come le fortune elettorali e demoscopiche di nazionalisti, populisti ed estremisti non sono stabili, ma cicliche, per i motivi sopra elencati, possiamo tentare un’analisi dei diversi movimenti euroscettici presenti nelle varie nazioni dell’Unione Europea e cercare di prevedere quale sarà il loro atteggiamento all’indomani dell’esito elettorale europeo.

 

L’Ungheria di Viktor Orban

L’ Ungheria, storicamente divisa tra le grandi potenze d’Occidente e dell’Oriente per gran parte della sua storia, si trova oggi tra una Unione Europea in declino e una Russia apparentemente più forte e assertiva. Qui il Fidesz-KDNP ha ottenuto alle elezioni del 2010 la schiacciante maggioranza del 52,73%, conquistando due terzi dei seggi in parlamento, che gli sono stati sufficienti a modificare la costituzione nel 2011. La linea politica del leader Viktor Orban suscita di volta in volta speranza o indignazione negli osservatori internazionali, i quali fanno fatica a comprenderne l’enigmaticità, ed è spesso rivolta a mostrare il fallimento del modello europeo post-nazionale che non ha saputo garantire le stabilità economica e politica prospettate all’inizio. Le sue politiche più discusse vanno dalla nazionalizzazione dei fondi pensionistici privati e delle attività energetiche strategiche al tentativo di neutralizzare il settore giudiziario. L’intento è chiaro: concentrare il potere nelle mani dello Stato e migliorare la posizione di Budapest per l’apertura verso la Russia, che Orban giudica inevitabile. La linea politica adottata da Orban e dal Fidesz si scontra con gli ideali liberisti di Bruxelles e l’accanimento dell’Europa contro i suoi metodi non fa che alimentare il suo consenso interno. Nonostante queste premesse è molto improbabile che l’Ungheria possa scegliere di uscire dall’Unione Europea, con la quale sussistono strettissimi rapporti economici, dai quali dipende la quasi totalità dell’apparato produttivo nazionale.

 

L’Austria di Heinz Christian Strache

In Austria, l’ultranazionalista Freiheitliche Partei Österreichs fondato da Georg Haider ha recentemente conquistato oltre il 20% dei voti nelle elezioni nazionali. Heinz Christian Strache, leader del partito di ultradestra Fpoe, sbandiera sicuro il suo euroscetticismo e si dice convinto che gli europei non vogliano una Ue centralista, bensì più libertà e sovranità nazionale. Cresce sempre più forte il desiderio di un’Europa delle Patrie, e non di un’Europa che ordina e decide tutto dall’alto, lontana dalle persone che ci vivono come quella attuale.
Heinz Christian Strache assume il francese De Gaulle ad esempio e denuncia la pericolosa tendenza centralista dell’Unione Europea. Egli sostiene che i Trattati di Maastricht e Lisbona, insieme al Patto di stabilità, siano stati violati in disprezzo del diritto internazionale e che l’idea di assumersi debiti di altri paesi vada contro ogni concetto di diritto. Una tendenza che ha perso ogni credibilità e che viene vista in antitesi al suo concetto di Europa, che vive e ha sempre vissuto della molteplicità di culture lingue e popoli.
Il politico austriaco auspica un’unione delle destre patriottiche europee, si dichiara apertamente contro una presunta islamizzazione dell’Austria e dell’Europa in rispetto dei valori cristiani e occidentali, nonché contro la moneta unica europea, che reputa essere un esperimento fallito e un pozzo senza fondo tra responsabilità comune dei debiti, tassi bassi e rischio inflazione e alta disoccupazione. Secondo la sua visione la presenza di valute diverse creerebbe uno sviluppo europeo molto più pacifico per i paesi deboli, i quali potrebbero svalutare, e per i ricchi, che a loro volta potrebbero rivalutare.

 

La Francia di Marine Le Pen

Secondo i sondaggi più recenti il Front National di Marine Le Pen sarebbe oggi il primo partito in Francia, al 24 %, posizione confermata al ballottaggio delle elezioni cantonali di Brignoles, dove il candidato del Front National ha battuto quello dell’Ump. In molti in Francia iniziano ora a chiedersi se alle elezioni locali ed europee di quest’anno il Front National amplierà ulteriormente i suoi consensi, che gli permetterebbero di porre in atto le premesse per una clamorosa vittoria nella corsa per l’Eliseo del 2017. Anche in questo caso occorre fermarsi un attimo a riflettere sulle motivazioni che stanno alla base del grande favore incontrato dalla destra di Le Pen figlia che ci permetteranno di trovare i punti in comune con gli altri movimenti nazionalisti e populisti europei.
Il Front National ha certamente cavalcato l’onda di risentimento popolare che accomuna i diversi Paesi europei, capace di mischiare sapientemente elementi di euro-scetticismo a una forte componente nazionalistica. Ha fatto della critica contro le caste politico-industriali corrotte il suo cavallo di battaglia, e attraverso posizioni autarchiche e protezionistiche, che contemplano l’uscita dall’euro, vuole riappropriarsi della sovranità perduta (17).
La Francia si caratterizza per un panorama politico a suo modo peculiare, quella Quinta Repubblica figlia di De Gaulle dove sembra non esserci spazio per posizioni politiche che invochino un minor peso dello Stato nell’economia e dove Hollande ha fatto portare al 75% l’aliquota marginale dell’imposta sui redditi, poi dichiarata illegittima, prima dal Consiglio Costituzionale e poi dal Consiglio di Stato nel marzo 2013.
Mentre la popolarità di Hollande scende ai minimi storici, Marine Le Pen tenta il sorpasso con il suo partito che acquista una nuova spendibilità attraverso l’abbandono dei riferimenti storici e politici del vecchio neofascismo e la conquista delle fasce medie e medio-basse dei salariati e delle imprese individuali, piccole o medie a basso valore aggiunto.

 

Il Regno Unito e l’United Kingdom Independence Party di Nigel Farage

Nigel Farage è l’elemento di spicco del britannico Ukip: ricopre le cariche di deputato europeo e di presidente di Europe of Freedom and Democracy. All’inizio della sua carriera politica Farage nasceva come conservatore, ma se ne allontanò quando i Tories nel 1992 riconobbero il Trattato di Maastricht, sicché nel 1993 sarà tra i fondatori dello Ukip. Il partito conquista nove seggi su settantatre a disposizione dei sudditi di Sua Maestà nel Parlamento Europeo e fa dell’indipendenza del proprio paese dall’Unione il suo principale obiettivo, ponendosi come il maggiore movimento euro-scettico britannico, confluendo a Bruxelles nel gruppo “Europa della Libertà e della Democrazia”, di cui fa parte pure l’italiana Lega Nord. Anche l’Independence Party si pone come obiettivo principale quello di preservare la sovranità nazionale inglese, minata dai progetti di centralizzazione del Consiglio Europeo.
Proprio il Presidente del Consiglio Europeo, Herman Van Rompuy, è stato accusato da Farage di essere la causa del ribaltamento del governo greco e di essere stato il responsabile dell’insediamento di Mario Monti in Italia, in accordo con i dettami della tedesca Merkel, altra grandissima nemica dell’Ukip che fa della battaglia alle strategie economiche tedesche la sua punta di diamante.

 

L’Italia del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo

Dei movimenti populisti in Italia si è già parlato in questa sede. Vale la pena soffermarsi sull’affinità di propositi e intenti è rilevabile tra il britannico Nigel Farage il pentastellato Beppe Grillo: l’Europa di burocrati da combattere, il dominio delle banche da contrastare, la fine della sottomissione all’area tedesca e dell’intromissione della BCE nell’organizzazione sociale e statale di ogni paese. In ultimo la battaglia delle battaglie: la netta opposizione alla moneta unica europea.
Il politico inglese si è speso in diverse occasioni nell’elogiare l’operato del leader del M5S, al quale riconosce il merito di aver svegliato un’intera nazione dal torpore che la vedeva schiava dei suoi apparati politici. Un’intesa che potrebbe rapidamente trasformarsi in alleanza all’indomani delle elezioni per il parlamento europeo del 2014.

 

La Grecia di Alba Dorata e Syriza

Secondo un sondaggio condotto dal portale ellenico Zougla.gr su un campione di 1437 persone dall’11 al 14 novembre 2013, se si fosse andati a votare l’indomani i neonazisti di Alba dorata e gli anti-europeisti di Syriza – insieme – avrebbero raccolto la maggioranza assoluta dei voti. A determinare il malcontento che sta alla base di questi risultati possiamo certamente collocare gli ingenti tagli dovuti alle misure imposte ad Atene da Bce, Fmi e Ue, che avrebbero dovuto ridurre il debito pubblico e che in molti casi hanno messo in ginocchio e affamato i cittadini con le drammatiche immagini alle quali i media ci hanno abituato in questi mesi. Se poi aggiungiamo a questo clima di tensione esasperata lo sgombero dell’ex sede occupata dell’Ert, unitamente alla possibilità di nuove riduzioni di stipendi e pensioni e, limitatamente a quanto riguarda i dati di Alba Dorata, l’attentato che il primo novembre scorso ha portato alla morte di due militanti della destra estrema di 22 e 27 anni, riusciamo a comprendere appieno le motivazioni che stanno alla base dei risultati di questo sondaggio.
Nello statuto di Alba Dorata troviamo tutti gli elementi che caratterizzano i movimenti nazionalisti e populisti ai quali abbiamo già accennato. Il nazionalismo, visto come «unica e vera rivoluzione», l’avversione verso la «partitocrazia tradizionale», la ferma condanna della plutocrazia delle banche e della finanza internazionale uniti a un forte statalismo. Infine viene sottolineata, tra gli obiettivi del partito, l’uscita dall’Unione Europea e la lotta serrata ai «poteri occulti internazionali che opprimono il popolo greco» (18).

 

Alternative für Deutschland, Sprawiedliwość, Vlaams Belang

L’ascesa degli estremisti antieuropei non risparmia neanche Germania, Polonia e Belgio, ove troviamo rispettivamente i movimenti Alternative für Deutschland, Sprawiedliwość e Vlaams Belang, che in poco si differenziano da tutti i movimenti elencati in precedenza, ai quali sono accomunati dall’obiettivo di portare i Paesi di appartenenza fuori dalla moneta unica europea. A questi potremo aggiungere a buon diritto lo xenofobo Partij voor de Vrijheid di Geert Wilders, attualmente in testa nei Paesi Bassi. Quest’ultimo ha definito l’Unione Europea uno «Stato nazista», sottolineando la necessità per il suo popolo di liberarsi dal gioco mostruoso di Bruxelles, e ha avviato con Marine Le Pen la costruzione di un’alleanza in chiave anti-europea per le elezioni del maggio prossimo. I due, che si sono incontrati a l’Aja, hanno dichiarato in una conferenza stampa di voler riunire all’interno dello stesso gruppo parlamentare europeo tutti i movimenti schierati contro l’Unione.

 

Conclusioni

Analizzate le premesse, è facile prevedere nella tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento Europeo un balzo in avanti significativo della destra populista, nazionalista e anti-europea.
Le conseguenze di questa avanzata si possono già esaminare a livello locale, dove i partiti di centrodestra guardano all’uscita dall’Unione Europea con crescente trasporto. Il Regno Unito, ad esempio si prepara a votare per uscire dall’Unione europea con un referendum. Una svolta storica che risponde alle richieste degli euroscettici del partito conservatore guidato da David Cameron, che ha ottenuto, con 304 voti a favore, il via libera per il referendum che si terrà entro il 2017. Il provvedimento per la consultazione referendaria, tuttavia, non è vincolante e il prossimo governo, qualora non fosse guidato da Cameron, potrebbe revocarne la disposizione. Il risultato raggiunto dal partito conservatore di David Cameron genera un precedente al quale gli altri governi europei si dovranno loro malgrado adattare.
In questa particolare congiuntura economico-sociale, caratterizzata dalla crisi e dalla forte pressione sulle istituzioni europee, potrebbe scatenarsi un’eco che da Londra arriva a Parigi, a Lisbona e magari a Roma, dove l’insofferenza per le strategie economiche delle Merkel non si limitano ai grillini ma si estendono a tutti i partiti di centrodestra.
Possiamo comprendere quindi per quali motivi da Bruxelles si guardi alle elezioni del maggio 2014 con tanta preoccupazione, in un momento nel quale il gradimento per l’Europa ha toccato i minimi storici e i partiti populisti anti-euro e anti-Unione Europea non erano mai sembrati cosi forti. Tutti i partiti e i movimenti dei quali abbiamo parlato, dall’Italia alla Germania, dall’Ungheria alla Polonia, guadagnano consensi nei sondaggi e nelle elezioni locali. Il rischio che il Parlamento europeo si riempia di euroscettici, pronti a far guerra a ogni proposta e a paralizzare l’assemblea che spesso vota a maggioranza qualificata non è un timore infondato, ma si poggia al contrario sulla concretezza dei dati raccolti.
Se questi partiti riusciranno a mobilitare una fetta significativa dell’elettorato attraverso la protesta, vincendo così il nemico rappresentato dall’astensionismo, potrebbero rappresentare la novità delle prossime elezioni e dare corpo al peggiore incubo di molti governanti europei. Tutto dipenderà inoltre dalla loro capacità di formare una coalizione pre, ma soprattutto post elettorale, costituendo un gruppo unico nell’Europarlamento. Elemento non trascurabile dato che tra queste diverse formazioni politiche sono presenti marcate differenze: mentre alcune si collocano su posizioni più conservatrici, altre hanno inclinazioni nazionaliste e xenofobe.
Non sarà certo semplice mettere d’accordo movimenti apertamente anti-clericali come Syriza con altri che sono invece ultra-cattolici, come ad esempio Prawo i Sprawiedliwość. Un altro tema scottante è quello delle unioni omosessuali che trovano il consenso di Partij voor de Vrijheid, ma si scontrano con la ferma opposizione della Lega Nord. Sarà ancora più difficile infine mettere d’accordo i filo-israeliani del Partij voor de Vrijheid con i filo-palestinesi del Front National.
In conclusione, ci avviamo verso l’ingovernabilità del Parlamento Europeo, qualora i partiti euroscettici riescano veramente a capitalizzare la maggioranza dei 751 seggi in palio alle prossime elezioni, con conseguenze che non devono essere sottovalutate in quanto minerebbero l’assetto interno di tutti i Paesi interessati.

Margherita Sulas (Oristano 1982) ha conseguito il Dottorato di ricerca in Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Storia, Beni Culturali e Territorio dell’Università di Cagliari, ove è Assegnista di Ricerca; socia Sissco dal 2010, collabora con il Comando Regionale della Guardia di Finanza in Sardegna e il Museo Storico della GdF di Roma per l’allestimento di mostre e convegni.

NOTE:
1. Jim Yardley, Letta, Italy’s Premier, Says His Goal Is to Move ‘From Austerity to Growth’, transcript of an interview with Prime Minister Enrico Letta of Italy in Rome on Oct. 14, 2013, as recorded by The New York Times, pubblicata integralmente il 15 ottobre 2013 http://www.nytimes.com/2013/10/15/world/europe/letta-italys-premier-says-his-goal-is-to-move-from-austerity-to-growth
2. J. Yardley, Italian Prime Minister Calls Populism a Threat to Stability in Europe, in The New York Times – New York edition, 15 ottobre 2013, p. 12
3. Alfio Mastropaolo, Antipolitica. All’origine della crisi italiana, L’Ancora, Napoli 2000; Salvatore Lupo, Antipartiti. Il mito della nuova politica nella storia della Repubblica (prima, seconda e terza), Donzelli, Roma 2013
4. Marco Tarchi, L’ Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi, Il Mulino, Bologna 2003
5. Simona Colarizi, Marco Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della seconda Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2012
6. Andrea Sarubbi, La Lega qualunque. Dal populismo di Giannini a quello di Bossi, Roma, Armando 1995
7. Roberto Biorcio, La Padania promessa. La storia, le idee e la logica d’azione della Lega Nord, Il Saggiatore, Milano 1997
8. R. Biorcio, Democrazia e populismo nella Seconda Repubblica, in Marco Maraffi (a cura di), Gli italiani e la politica, Il Mulino, Bologna 2007
9. Yves Mény – Yves Surel , Populismo e democrazia, Il Mulino, Bologna 2001
10. Pierre-André Taguieff, L’illusione populista, Mondadori, Milano 2003; Loris Zanatta, Il populismo, Carocci, Roma 2013
11. Sul Movimento Cinque Stelle si rimanda a Piergiorgio Corbetta, Elisabetta Gualmini (a cura di), Il Partito di Grillo, Il Mulino, Bologna 2013 e Roberto Biorcio, Paolo Natale, Politica a 5 stelle. Idee, storia e strategie del movimento di Grillo, Feltrinelli, Milano 2013. Un’analisi articolata del successo grillino alle elezioni politiche del febbraio 2013 in Fabio Bordignon, Luigi Ceccarini, «Tsunami» a 5 stelle, in Ilvo Diamanti, Un salto nel voto. Ritratto politico dell’Italia di oggi, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 60-71
12. Y. Mény – Y. Surel , Populismo e democrazia, cit., pp. 173-180
13. ivi, pp. 187-196
14. R. Biorcio, Gli imprenditori dell’intolleranza, in Il Manifesto, 25 febbraio 2002
15. Sondaggi Itanes 2003 e 2004
16. R. Biorcio, The Lega Nord and the Italian Media System, in Gianpietro Mazzoleni, Julianne Stewart e Bruce Horsfield (a cura di), The Media and Neo-populism. A Contemporary Comparative Analysis, Praeger, Westport 2003, pp. 71-94
17. Sara Gentile, Il populismo nelle democrazie contemporanee. Il caso del Front National di Jean Marie Le Pen, Franco Angeli, Milano 2008
18. Dimitris Dalakoglou, Neo-Nazism and neoliberalism: A Few Comments on Violence in Athens At the Time of Crisis, in “Working USA: The Journal of Labor and Society”, volume 16, giugno 2013, pp. 283–292


MULTIPOLARISMO GLOBALISMO, LE DUE COSMOVISIONI GEOPOLITICHE E IL LORO RETROTERRA SPIRITUALE

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Durante la cosiddetta Guerra Fredda, abbiamo vissuto in un mondo bipolare. Almeno questo era ciò che la maggior parte della gente pensava. Ma quanto bipolare era veramente? C’erano due superpotenze (gli USA e l’Unione Sovietica), con le loro rispettive aree geopolitiche di influenza (occidentale e orientale), che cercavano di controllare le risorse e la popolazione mondiale, in competizione l’una con l’altra.

In realtà, questo sistema bipolare era un esperimento. L’Occidente (“americano”) e l’Est (“sovietico”) non erano (dopo la morte di Stalin) in realtà veri nemici ma, piuttosto, due sistemi che operavano come strumenti al servizio degli stessi padroni. I globalisti, infatti, li controllavano entrambi, cercando di capire quale dei due sistemi funzionasse “meglio” (meglio per loro, ovviamente) al fine di raggiungere il loro obiettivo finale; la dominazione totale mondiale dopo la distruzione di un mondo multipolare naturale e un ordine pluriculturale (di nazioni sovrane), basato su comunità organiche.
Essendo a conoscenza di ciò, non sorprende vedere come molti degli attuali e più importanti globalisti (Wolfowitz, Podhoretz, ecc), che agiscono come guerrafondai per l’imperialismo di Washington, sono ex comunisti provenienti dal ramo trotskista.
Entrambi i sistemi sono stati messi in opera durante quattro decenni. Entrambi sono internazionalisti. Il comunismo marxista addirittura si definisce internazionalista, e il capitalismo finanziario, basato sul potere del denaro, è senza dubbio internazionale, dato che i capitalisti non conoscono confini… e perché il denaro non ha patria.
Gli Stati in cui è entrata la piovra liberale del capitalismo fornivano (e forniscono) ai cittadini l’illusione della “democrazia” (il potere del popolo), l’illusione che realmente i cittadini stanno scegliendo i propri rappresentanti. La maggior parte delle persone che vivono nel “Primo Mondo” ancora credono a ciò, mentre tutto sta diventando sempre più orwelliano e i nostri cosiddetti politici democratici stanno mostrando la loro vera natura di marionette. Ma nel sistema capitalistico, dove a causa dell’usura dei banchieri il denaro può essere creato dal nulla, il potere non è nelle mani del popolo, ma nelle mani di chi controlla il denaro… e il denaro non è democratico.
D’altro lato, in molti paesi comunisti è avvenuto qualche fenomeno abbastanza interessante: il marxismo comunista ortodosso, divenenuto anti-tradizionale e ateo; così come globalista e internazionalista (avendo la stessa tentacolare e materialista natura come il capitalismo), è iniziato a svilupparsi in modi diversi in ogni paese, fondendo il sistema economico socialista con il carattere di ogni nazione, di comunità organica in cui ha preso il potere . (Questo non è accaduto nei paesi capitalisti, che sono stati e ancora sono tutt’ora sotto estremo lavaggio del cervello e sotto un enorme imperialismo culturale e sociale proveniente dagli Stati Uniti: con elementi sovversivi come Hollywood, mezzi di comunicazione di massa, distruzione della propria lingua, del propria patrimonio, ecc).

Questa è stata una cosa molto naturale: il comunismo si è adattato in ogni paese, il comunismo è stato assorbito in ogni paese, e non l’ opposto, come originariamente previsto dai globalisti, che volevano implementare un freddo, anti – naturale e senza radici sistema dittatoriale sul mondo.
La spaccatura interna del comunismo iniziò già con la lotta tra Stalin, orientato nazionalmente, e Trotsky – che predicava un comunismo globalista senza confini con la sua “rivoluzione permanente”. Così, ad esempio, in Corea del Nord il comunismo si è fuso con le antiche tradizioni coreane, con la sua ricca cultura e la sua idiosincrasia nazionale, e il leader Kim Il Sung ha sviluppato l’ideologia dello Juche; una versione coreana del socialismo. In Romania, Nicolae Ceausescu era un grande ammiratore degli eroi nazionali del glorioso passato nel Medioevo.
Quindi, quello che era in origine un freddo e senz’anima sistema intenzionato a distruggere i valori tradizionali come “reazionari”, una volta implementato in un determinato paese, è stato assorbito dalla idiosincrasia nazionale prendendo le sue tradizioni come un mezzo di resistenza.
C’è un parallelismo interessante con il cristianesimo. Molti considerano il cristianesimo un antico genere di comunismo, e vi è un qualche fondo di verità in questo. Quando i cristiani sono saliti al potere a Roma, durante i primi secoli, hanno vietato tutte le altre religioni – quelle pagane – nell’Impero e hanno imposto la loro con il dogmatismo e la violenza; erano universalisti, antichi globalisti. Ma dopo qualche tempo, il cristianesimo è stato assorbito nelle nazioni in cui era entrato e si è sviluppato in modo diverso in ogni parte del mondo, a volte introducendo anche sincretismo con la vecchia tradizione. Ciò può essere osservato nel ramo ortodosso del Cristianesimo e nelle sue chiese nazionali: c’è il Patriarcato greco, quello serbo, quello russo, e così via. Nel caso russo, lo zar era il capo dello Stato e della Chiesa, equivalentemente con la tradizionale religione giapponese dello Shinto, dove il Tenno – l’Imperatore – era al tempo stesso leader nazionale e religioso.

Questo stesso fenomeno è accaduto con l’Islam; c’è un proverbio iraniano che recita che “l’Islam non ha conquistato la Persia, ma la Persia ha conquistato l’Islam”. Lo Zoroastrismo e il Mazdeismo hanno avuto un ruolo importante nella formazione della corrente sciita persiana. E nell’odierna Repubblica islamica dell’Iran c’è una Guida Suprema (l’ayatollah Khamenei, che è allo stesso tempo il leader religioso e nazionale). Altri esempi possono essere visti con il califfo ottomano in tempi recenti o con l’imperatore romano nel passato antico.
Il fatto che il comunismo (come il cristianesimo in passato) si stava sviluppando in ogni luogo secondo le sue tradizioni era molto pericoloso per i globalisti (Trotskisti e liberali). Così, la tendenza del nazional-comunismo doveva essere fermata.
Ecco perché hanno deciso di sopprimere il “lato orientale”, porre fine alla guerra fredda e al bipolarismo e di utilizzare da quel momento solamente il sistema liberale capitalistico come l’unico accettabile. L’Unione Sovietica e i paesi del Patto di Varsavia erano un esperimento, e si sono rivelati essere non più utili perché i “padroni” dietro le quinte si resero conto che era il sistema capitalista quello maggiormente idoneo per raggiungere i loro obiettivi.
Cosi è nato il “Nuovo Ordine Mondiale” proclamato da Bush senior, sperando che con il crollo dell’Unione Sovietica, la Russia e le altre nazioni eurasiatiche sarebbero state private della sovranità nazionale e ridotte in schiavitù con il liberalismo. Durante gli anni ’90 del secolo scorso, Gorbaciov e Eltsin tollerarono e fomentarono il saccheggio della ricchezza russa ad opera degli oligarchi e della finanza internazionale, ma con l’inizio del nuovo secolo, cominciò ad essere restaurata la sovranità nazionale dal Presidente Putin, motivo per cui è stato calunniato in Occidente con epiteti come “autoritario”, “dittatore”, ecc …

La libertà offerta dal liberalismo potrebbe essere spiegata molto sinteticamente come segue: libertà di scegliere tra Coca-Cola e Pepsi, o tra McDonalds e Burger King. Non è nient’altro che consumismo, materialismo puro, dove il profitto è l’unica cosa che conta…
Tutti i paesi che non vogliono essere governati da questo cosiddetto sistema democratico, o non collaborano con esso, erano quei pochi paesi rimasti comunisti come Cuba e la Corea del Nord e i Terzi Posizionisti, i non allineati, come la Jugoslavia, l’Iraq , la Libia o la Siria. I globalisti decisero che questi paesi dovevano essere distrutti, uno dopo l’altro. Prima di tutto dovevano essere mediaticamente demonizzati (il concetto di “asse del male” fu reso popolare in questo contesto), minacciati, e, infine, come ultimo passo, distrutti dalle guerre in nome della libertà e della democrazia.
Nel caso particolare della Siria, un fatto che non è così noto, è che prima dello scoppio della crisi, il presidente Assad stava progettando di implementare la strategia dei Quattro mari, per trasformare il proprio paese in un hub commerciale tra il Mar Nero, il Mar Mediterraneo, il Golfo Persico / Mare Arabico e il Mar Caspio. Come un paese sovrano con una moneta stabile e una banca nazionale non di proprietà dei Rothschilds, questo avrebbe potuto rendere la Siria un incrocio geopolitico molto potente. E in Libia, tra l’altro, Gheddafi aveva cercato di introdurre il dinaro d’oro, che sarebbe stato un vero e proprio attacco frontale contro l’internazionale e ingannevole economia basata sul dollaro.
Per tornare ai tempi del bipolarismo:

Questi due sistemi globalisti, utilizzati dagli USA e dai suoi alleati (il cosiddetto “mondo libero”) da un lato e dai sovietici e i loro alleati dall’altro, erano, rispettivamente, come sappiamo, il capitalismo e il comunismo. Entrambe queste ideologie non erano in contraddizione, come molti credono, ma “fratelli di sangue” provenienti dalla stessa origine, dalla stessa visione materialista del mondo, dalla stessa weltanschauung o cosmovisione, che è lineare e crede nel progresso senza fine, senza rendersi conto che le risorse naturali del mondo non sono infinite.

Per dirla in altre parole: il capitalismo e il comunismo sono due facce della stessa medaglia.
Tornando al parallelismo spirituale, è anche possibile affermare che il comunismo era la risposta al capitalismo nel 19 ° secolo come il cristianesimo era la risposta al giudaismo nel 1 °.
L’ebraismo è una religione etnica. Chiamano se stessi il popolo eletto, e questo concetto sviluppato negativamente in alcuni rami del giudaismo, viene utilizzato come una sensazione di superiorità razzista e di diritto divino a governare in modo opprimente tutti coloro che non appartenevano alla loro religione etnica, i goyim. Gesù è venuto per redimere gli ebrei dalla smarrimento, quindi è stato ucciso dai farisei, come i profeti prima di lui. Il sionismo è una versione contemporanea del Fariseismo. Dopo di che, Paolo cercò di estendere il messaggio del giudaismo (la presenza di un Dio assolutista, un creatore separato dalla sua creazione, che vi ricompenserà se lo ricompenserete e vi punirà se non lo farete) a tutte le persone nell’Impero Romano , creando, o inventando, (con gli insegnamenti di Cristo), un “giudaismo per i Gentili”. Karl Marx può essere visto come il San Paolo del XIX secolo; colui che insegna la necessità della ricchezza economica per tutti, non solo per l “elite” dei capitalisti.

La differenza tra l’ebraismo e le altre religioni etniche (pagane) dell’antichità è che l’ebraismo è la prima religione (di quelle che esistono ancora oggi) che si ritiene di essere la verità assoluta, mentre tutti gli altri percorsi spirituali sono errati, tutte le altre tradizioni sono considerate sciocchezze. Si è sviluppato dall’ enoteismo (credendo che Yahweh era il dio più potente, ma che esistevano anche altri dèi di altri popoli) verso una rigorosa e gelosa sottomissione monoteista al Signore come unico Dio.

Più tardi, questa particolarità venne “ereditata” dal cristianesimo e dall’Islam, ma fino ad un certo punto, perché, come il comunismo, nella secolare modernità socio-economica, il Cristianesimo e l’Islam si sono adattati ai diversi paesi quando si diffusero in tutta Europa, Medio Oriente, Asia, Africa e più tardi nelle Americhe.
All’interno del cristianesimo si svilupparono due differenti correnti nel Medioevo europeo: i guelfi e i ghibellini. I primi sostenevano il Vaticano e il Papa incondizionatamente, essendo religiosamente molto dogmatici e intolleranti; i ghibellini, invece, erano orientati verso la nazione e supportavano la multipolarità sotto il dominio di un re o di un imperatore, che sarebbe dovuto divenire il simbolico leader religioso-nazionale. Esiste anche qui un parallelismo con il comunismo, potendo vedere Stalin come ghibellino e Trotsky come guelfo.
Per quanto riguarda l’Impero e l’imperialismo, si tratta di due concetti diversi e in realtà opposti. Mentre l’Impero integra, componendo una unità continentale di natura tellurocratica che rispetta ogni cultura dei diversi popoli al suo interno, l’imperialismo è una moderna parodia mercantile senza confini, con l’unica “patria” rappresentata dal denaro. Non compone o integra, ma, al contrario, impone e disintegra, divide e conquista con la forza o con l’inganno, ritenendosi l’unico sistema possibile o la “verità assoluta”.

Oggi, dopo la guerra fredda, esiste un solo imperialismo, internazionale e mercantilistico, che è anche conosciuto come globalismo e sionismo (Fariseismo moderno).
Questo imperialismo sta diventando ogni giorno più potente e distruttivo poichè le masse non riescono a comprendere qual è il vero pericolo e chi sono i veri nemici. La plutocrazia e l’usura (il capitalismo) sono gli strumenti di questo sistema che, per essere più efficace, opera per idiotizzare le masse (tramite i mass media, la TV, i film di Hollywood, ecc) e dividerle (per esempio, sunniti contro sciiti nel mondo musulmano o cristiani contro i musulmani nei Balcani, ma anche uomini contro le donne nelle nostre società occidentali già laiche, o bambini contro genitori).
In geopolitica, ci sono due flussi in lotta permanente l’uno contro l’altro: Atlantismo o Talassocrazia (rappresentata dal Regno Unito e dalla Francia nel passato coloniale e oggi per lo più dagli Stati Uniti d’America); e il Continentalismo o Tellurocrazia, che è il concetto eurasiatico e utilizzato per essere rappresentato dagli Imperi centrali nel passato e oggi per lo più da una Russia risorgente.
L’atlantismo è un sistema geopolitico globalista, che attraverso il commercio – il liberalismo – alla fine vuole imporsi su tutto il mondo – perché, come detto in precedenza, ritiene di essere l’unica verità, l’unico sistema valido. Il continentalismo, invece, crede in una visione del mondo multipolare, non in uno unipolare e globalistico, ma in un sistema multipolare con diversi blocchi di potere, ciascuno con la propria area di influenza.

Uno di questi blocchi di potere potrebbe essere l’ Eurasia dalle Isole Canarie a Vladivostok. Un altro, per esempio, è il mondo arabo (Nasser e l’ideologia Baath in Iraq e Siria), mentre un altro può essere un America Latina unita (Perón e Chávez hanno seguito questa idea). Anche il Nord America rappresenta un blocco, dato che gli Stati Uniti sono una potenza bi-oceanica e continentale che ha abbastanza ricchezza naturale propria e non ha bisogno di saccheggiare le risorse (petrolio, gas …) dei paesi sovrani esteri distanti migliaia di chilometri sotto il falso pretesto della “democrazia” e di imporre la propria visione del mondo socio-economico (quello globalista), considerata dai loro politici fantocci non solo la più desiderabile o più accettabile , ma l’unica alternativa possibile, la “verità assoluta” .
Questo è il dogmatismo laicista del Kali Yuga.

Il continentalismo è sinonimo di autarchia, piena sovranità, autosufficienza, vera indipendenza, rappresenta la conservazione dei tradizionali confini con la natura, la spiritualità, famiglia, nazione. L’atlantismo, al contrario, ha bisogno dell’ import-export per sopravvivere, quindi, sinonimo di mercantilismo, e incernierato al materialismo, al mammonismo. Questo è il pericoloso e fertile terreno per la pratica della speculazione finanziaria e per la demoniaca pratica della creazione del denaro dal nulla, che rende schiavi tutti i popoli tramite l’usura.
Il continentalismo persegue relazioni amichevoli tra tutti i popoli e le nazioni. L’integrazione territoriale e politica dovrebbe essere ottenuta con l’approvazione reciproca e gli scambi culturali sono benvenuti e desiderabili, ma senza alcuna ingerenza negli affari interni. L’atlantismo, che è controllato da un’ “elite” parassita di bankster criminali, ha bisogno di invadere e depredare le nazioni straniere per sopravvivere, dato che questo è in pieno accordo con la propria natura parassitaria.
E’ importante sottolineare, come ha detto Parvulesco, che non dobbiamo integrare la Russia nella “UE”, ma la “EU” in Russia (che nonostante la debacle del 1990, prosegue mantenendo la propria tradizionale idiosincrasia quasi intatta, cosa che non si può dire dell’Occidente).

Le idee imperiali del geopolitico tedesco Karl Haushofer , orientate verso un asse eurasiatico Berlino-Mosca-Tokyo, dovrebbero essere studiate, diffuse e sviluppate al fine di contrastare la tesi imperialista della Sfera angloamericano-sionista (atlantismo), sempre alla ricerca del sabotaggio delle tradizionali vie commerciali terrestri dell’Eurasia e di dividere maggiormente le popolazioni eurasiatiche mettendole l’ una contro l’altra su una base confessionale o utilizzando il cosiddetto “terrorismo islamico” (in realtà, il terrorismo wahhabita saudito eseguito dalla CIA) come un cavallo di Troia, con la creazione di “Al-Qaeda” come un utile strumento contro la sovranità nazionale e l’indipendenza, come già visto in Jugoslavia, Cecenia, Libia, o in Siria.

Per concludere, il multipolarismo e il globalismo sono gli unici due reali sistemi antagonisti che lottano l’uno contro l’altro e non il capitalismo e il comunismo, che sono stati inventati come una distrazione e un inganno.

articolo originale: http://informazionescorretta.altervista.org/blog/multipolarismo-globalismo-cosmovisioni-geopolitiche-retroterra-spirituale/?doing_wp_cron=1399398269.9989290237426757812500

UE E RUSSIA: TRA CRISI DIPLOMATICA E INTERDIPENDENZA ECONOMICA

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Nel clima incandescente di questi giorni al confine orientale dell’ Ucraina, cerchiamo in questo articolo di dare un approccio generale al rapporto dell’ Unione Europea con la Russia. Mantenendo una visione d’insieme che vada oltre alla crisi ucraina, molti ritengono che il legame tra Russia ed UE rimarrà solido anche in futuro. Frédéric Oudéa, chief executive officed della Société Générale (una delle banche più importanti dell’ eurozona) dichiara che “nel lungo termine il rapporto tra UE e Russia sarà forte, lo sarà sulla base dell’energia. La Russia è inoltre un importante cliente di molte società europee; se la sfida europea è quella riprendere la crescita certamente la Russia è un partner indispensabile e altrettanto importante resta l’UE per la Russia. Certo, la situazione attuale determina molta incertezza, ma sono convinto che nel lungo periodo i rapporti resteranno forti”. Questa tesi, nonostante la caotica situazione del momento, sembra essere supportata dalla grande interdipendenza economica tra le due parti, che va anche oltre alla sola questione energetica. Un forte legame si è infatti instaurato per quello che riguarda il settore industriale e imprenditoriale. Le esportazioni di merci dall’UE in Russia nel 2012 sono state stimate in circa 170 miliardi di euro, mentre le merci russe importate ammontano ad un valore di ben 293 miliardi. Dal 2009 le esportazioni verso la Russia sono in aumento e rappresentano più del 7% dell’export totale dell’ UE. I beni importati dalla Russia nell’ Unione rappresentano invece il 12% dell’ import totale. La Russia, sulla base di questi dati, è dunque il secondo partner per le importazioni ed il quarto per le esportazioni dell’ UE. L’Unione Europea è invece il principale partner commerciale della Russia, ed assorbe il 22% delle esportazioni totali del paese.
Continuando nell’analisi macroeconomica vediamo come gli altri interlocutori fondamentali per la Russia sono la Cina e, ovviamente, l’ Ucraina. Resta però l’UE il più importante destinatario di esportazioni energetiche (stimate al 75% del totale) e ben il 77% delle esportazioni Russe consiste nel petrolio greggio, prodotti petroliferi e gas naturale. Da parte sua la Russia è il più importante fornitore singolo dell’ UE sui prodotti energetici, con il 30% delle forniture di petrolio e gas ed è il terzo partner commerciale dell’ Unione Europea, dopo Stati Uniti e Cina. Nel suo complesso, in sintesi, vediamo quindi che l’UE riveste grande importanza per la Russia e viceversa: gli scambi tra le due economie hanno mostrato forti tassi di crescita fino alla metà del 2008, quando la tendenza è stata interrotta dalla crisi economica e dalle misure unilaterali adottate dalla Russia, che hanno avuto un impatto negativo sul commercio fra i due partner. Dal 2010 gli scambi hanno ripreso a crescere fino a raggiungere livelli record nel 2012.
A livello legale e diplomatico invece il legame tra UE e Russia è ancora in parte ancorato alla politica europea di vicinato (PEV), che favorisce un alto grado di integrazione con i paesi geograficamente limitrofi all’ Unione, instaurando relazioni privilegiate in vari settori attraverso l’ European Neighbourhood and Partnership Instrument (ENPI). L’Ucraina è stato uno dei tanti paesi che hanno avuto sostegni economici da questo progetto politico, grazie al quale anche la Russia ha stabilito un legame con l’Unione Europea, che si è espresso con il partenariato strategico del 1994: questo è stato l’ultimo vero accordo diplomatico tra UE e Russia ed è scaduto nel 2007. L’ accordo di partenariato e cooperazione del 1994 fa parte di una serie di accordi, di durata generalmente decennale, stipulati con tutti i paesi dell’ ex Unione Sovietica. L’oggetto di questi trattati riguarda un più intenso dialogo per il consolidamento delle istituzioni democratiche, un’integrazione maggiore dal punto di vista commerciale e una spinta verso il mercato. Successivamente a questo accordo, nel 2008, tra UE e Russia vi fu anche il summit a Khanty-Mansiysk, che non lasciò però particolari cambiamenti nel rapporto tra le due parti. Non si sono fatti sostanziali passi in avanti anche perché nel 2003 la Russia non ha voluto essere inserita nei paesi nella European Neighbourhood Policy. Da sottolineare è invece il fatto che nel 2009, in un importante vertice tenutosi a Praga, l’Unione Europea aveva escluso la volontà di stabilire una sua influenza in sei paesi dell’ ex Unione Sovietica, tra cui anche l’ Ucraina.
Lo scenario di cui siamo testimoni oggi dunque è molto diverso da quello che si era sviluppato negli anni precedenti. Cerchiamo insieme di capire il perché. In questi ultimi cinque anni, in cui l’Unione Europea è stata impegnata severamente a gestire la crisi economica che ha colpito molti dei paesi membri, la Russia ha rinnovato la sua politica estera, con particolare attenzione ai paesi del Mediterraneo orientale e delle repubbliche ex sovietiche dell’Eurasia. Già negli ultimi tempi le relazioni tra Unione Europea e Russia erano bloccate, per la mancanza di una nuova visione strategica chiara da parte dell’ UE. Anche la percezione che ha la Russia dell’ Unione europea si è modificata negli ultimi anni: la concezione di cooperazione dei primi anni ‘90 infatti sembra essere lontana e la Russia ormai vede l’ UE come un grande competitore e non solo come un grande socio d’affari. I settori in cui vi è questa concorrenza sono molteplici, basti pensare anche solo agli ambiti energetico, commerciale e della ricerca. Contestualmente però si è registrato anche un avvicinamento per quello che riguarda le relazioni tra Russia ed Italia e Germania. In assenza di una forte politica estera europea infatti, la Russia ha ritenuto importante stringere un maggiore legame con due importanti paesi membri, in modo da garantirle una posizione di forza nel futuro dialogo con l’ Unione Europea. Anche l’ Inghilterra ha importanti interessi in gioco, e vuole che Londra resti la ‘piattaforma’ finanziaria privilegiata degli affari russi su scala planetaria, mentre la Francia ha l’interesse di vendere a Mosca gli elicotteri da guerra Mistral. In molti, tra cui lo stesso Vladimir Putin, ritengono in sostanza che la stabilità dell’intero continente europeo dipenderà dalla capacità di risolvere gli attuali problemi legati alla questione ucraina, per poi gettare la basi su una indispensabile visione strategica dell’ UE verso i paesi dell’ Unione eurasiatica (Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan).
Solamente il tempo potrà dirci come si evolverà la situazione Ucraina, e conseguentemente le relazioni diplomatiche tra Russia ed Unione Europea, certamente però i prossimi leader europei che saranno nominati a breve dovranno cercare di trovare una soluzione rapida e meno traumatica possibile.

EURORUSSIA: UNIRE EUROPA E RUSSIA

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In un momento altamente critico delle relazione fra la Russia e l’Unione Europea e la Nato, nel vivo di questa fiacca campagna elettorale europea, dal “pozzo” in cui mi trovo, desidero affacciare l’ipotesi, ardita in verità, di unire l’Unione Europea e la Russia, sperando che qualcuno ci mediti sopra.

Un’idea che, se avviata, potrebbe modificare radicalmente la prospettiva delle nostre relazioni con la Russia: dalle tensioni attuali, dal possibile conflitto (da evitare ad ogni costo) alla cooperazione, all’integrazione, all’unione.
Ovviamente, la realizzazione dell’ipotesi va vista nel medio-lungo termine e tenendo conto degli sviluppi, e delle conseguenze, degli accordi per il Nuovo ordine internazionale. E senza lasciarsi influenzare dalle “contingenze” ossia dai personaggi, dai metodi e dalle circostanze politiche e militari attuali (“questione ucraina”) che, in quella prospettiva, saranno superati.
In ogni caso, ritengo che già cominciarne a parlare sarebbe di grande aiuto per la pace e un grande beneficio per le due entità e per i loro popoli.

Ma ecco, di seguito, l’ipotesi come l’ho, sinteticamente, formulata nel mio recente libro “I giardini della nobile brigata”. Vedi link. (https://www.facebook.com/notes/agostino-spataro/vi-presento-i-giardini-della-nobile-brigata-eddefinitiva/517156131740082)

Per alcuni l’Europa non è un continente, ma solo una propaggine dell’Asia verso l’Atlantico e il Mediterraneo. Fisicamente, così è. Tut­tavia, da tremila anni, l’Europa è fonte e sede di una delle più grandi civiltà umane. Purtroppo, oggi, è in declino e molti, amici e concor­renti, cercano di anticiparne la caduta, per spolparsi le sue ricchezze materiali e immateriali.
Più che una speranza ben riposta, il futuro dell’Europa è un problema mal posto, poiché resta incerto e succube di forze e interessi ostili e contrapposti.
La soluzione? La risposta non è facile. Abbozzò un’ipotesi, così di getto, che forse risente della contingenza.
Per evitare la disgregazione della U.E. , la prima cosa da fare è quella di cambiare registro politico, per un’Europa dei popoli e non delle consorterie mul­tinazionali.
Sulla base di tale correzione, dovrà proseguire l’allargamento fin dove è pos­sibile nell’ambito europeo, senza più provocare o favorire tensioni per conto terzi.
In secondo luogo, l’Europa deve progettare, e realizzare, l’unione con la Russia. Sì, avete letto bene, con la sterminata Russia che ci viene presentata come l’eterno nemico. Oggi, un’idea simile potrà apparire paradossale, fuori da ogni ragionevole previsione.
Tuttavia, avrebbe un senso, una logica direi, se considerata per il me­dio/lungo termine e alla luce delle nuove riaggregazioni (spartizioni?) mondiali che stanno avvenendo su basi continentali e non più ideologi­che o di reddito: Nord- Sud, Est- Ovest, ecc.
Nel nuovo scenario in formazione, l’U.E., barcollante e squilibrata al suo interno, ri­schia di apparire un “continente” in bilico, alla deriva.
Se l’Europa desidera uscire da tale condizione dovrà ag­gregarsi per creare un nuovo polo dello sviluppo mondiale.
Con chi? Gli Usa sono lontani e i loro interessi non sempre comba­ciano con quelli europei; l’ipotesi euro-mediterranea è stata fatta fallire per volere degli Usa e per subalternità francese.
Non resta che la Russia ossia con un Paese- continente che dispone di territori sterminati e di enormi riserve energetiche e metallifere, di bo­schi, di acque, di terre vergini, di mari pescosi, ecc.
Risorse importanti, strategiche che, unite al grande patrimonio europeo (tecnologie, saperi, scienze, professioni, tradizioni democratiche, ecc), potrebbero costituire il punto di partenza per dare vita a “EuroRussia”, a una nuova “regione” geo economica mondiale, dall’Atlantico al Pacifico, al Mediterraneo.
Ovviamente, questo è solo uno spunto, una “bella utopia”. I giochi di guerra, gli intrighi per il nuovo ordine mondiale sono in corso da tempo. E sono ancora aperti. Il problema è come vi si partecipa, se da protagonisti o da comprimari.
All’orizzonte si profila una nuova bipartizione del mondo, con Cina e Usa come capifila. Taluno prevede una tripartizione, inserendo la Russia nel terzetto. Nessuno pronostica un ruolo primario dell’U.E., condannata a restare sottoposta agli Usa.
Non sappiamo quali saranno la collocazione, il ruolo di Russia e del’Europa fra 30/50 anni. Una cosa sembra sicura: divise, potranno solo sperare che uno dei due capifila le inviti ad accodarsi.

Agostino Spataro, bibliografia in :

montefamoso.blogspot.it/2014/04/agostino-spataro-bibliografia.html

LA REPUBBLICA CENTRAFRICANA AL CENTRO DELLA GEOPOLITICA INTERNAZIONALE

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La Francia non ha mai messo da parte le sue mire “colonialiste” e la cosiddetta Françafrique nel Continente africano. Osserva sempre con molto interesse le vicende politiche delle sue ex colonie nel continente nero, spesso intervenendo in prima persona. Dopo la Costa d’Avorio, la Libia, il Mali, ora tocca alla Repubblica Centrafricana, scossa da una crisi senza precedenti, ad essere nel mirino dell’Eliseo. La situazione si va complicando giorno dopo giorno tant’è che sono dovute intervenire le Nazioni Unite con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza

La Repubblica Centrafricana è diventata un ingarbugliato gomitolo di filo spinato dal quale è difficile trovare l’inizio e venirne fuori. Nel corso degli ultimi trent’anni si sono avvicendate missioni di pace riproposte in tutte le salse per cercare di mettere un po’ di ordine nel Paese. La Francia, che non ha mai messo da parte le sue mire neo-colonialiste nel continente nero e il sogno della Françafrique, ha sempre avuto un ruolo di primo piano. Operazione Barracuda (1979), Minurca (1998-2000), Fomac (2010), Misca, Sangris (2013).
Il Paese è ripiombato nel caos circa un anno fa, quando un gruppo ribelle di fede musulmana, la Coalizione Sèlèka, proveniente dal nord e dal Ciad (alleato storico della Francia) hanno messo a segno un colpo di Stato ai danni dell’ex Presidente Bozizé, costretto alla fuga, rimanendo al potere fino a gennaio 2014. Un lasso di tempo in cui si sono verificati una moltitudine di soprusi ai danni della popolazione e in particolare sui cristiani. In questo contesto di violenza, si è formata la milizia di autodifesa “anti-balaka”, come reazione alle esazioni e ai crimini perpetrati sulla popolazione civile, che a sua volta ha condotto attacchi altrettanto sanguinanti contro i ribelli e i civili musulmani. La conseguenza è che i civili vivono nel terrore e fuggono dal Paese in massa. La situazione è drammatica. Nonostante l’elezione del nuovo capo di Stato, Catherine Samba-Panza, si registra una crisi alimentare e sociale di enorme portata, aggravata dalla guerra civile. Anche l’Unione europea si è attivata raccogliendo circa 500 milioni di dollari. Di questa cifra 200 verranno destinati alla gestione delle emergenze umanitarie più impellenti, mentre il resto verrà impiegato per stabilizzare la zona e per ripristinare i servizi fondamentali, come l’acqua corrente.

Ben poca cosa per togliere il Paese dalle mani del caos. Per il momento le risoluzioni prese a livello internazionale riguardano più l’aspetto geopolitico che l’emergenza umanitaria che sta attraversando la Rca, ricca di minerali.

Il 10 aprile di quest’anno il Consiglio di Sicurezza dell’Onu (su insistenza dei francesi e dei cinesi) ha approvato la risoluzione 2149 con la quale ha dato il via alla creazione di un’operazione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, per proteggere i civili e facilitare l’accesso umanitario nella Repubblica Centrafricana (Rca) devastata dalla guerra. Di pari passo, l’Unione Europea, che continua a seguire la linea d’azione dettata dalla Francia e dal suo presidente Hollande, ha dato il via libera alla missione militare, ribattezzata Eufor Rca, nel Paese africano “per contribuire alla creazione di un ambiente sicuro in questo Paese”, in linea con la risoluzione Onu. L’operazione militare opererà a Bangui e nell’aeroporto della capitale con l’obiettivo di proteggere la popolazione e fornire aiuti umanitari. Dietro ai nuovi provvedimenti, c’è sempre il presidente francese François Hollande che ha cercato di risalire la china dell’impopolarità mostrando i muscoli in politica estera e rilanciando, con le missioni militari in Africa, il ruolo della Francia in uno scacchiere – quello delle ex colonie – in cui Parigi vorrebbe sentirsi ancora egemone e protagonista. Già a dicembre Parigi è intervenuta nella Repubblica Centrafricana, prendendo parte a MISCA (la Missione internazionale di sostegno alla Rca sotto l’egida africana) e dislocando sul terreno circa 1600 soldati.

Fin qui le certezze geopolitiche di un conflitto che secondo l’ultima risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – 2149 (2014) (1) – desta “profonda preoccupazione” soprattutto perché “la disastrosa situazione umanitaria nella Rca” che riguarda in particolar modo “le esigenze umanitarie degli oltre 760.000 sfollati interni e degli oltre 300.000 rifugiati nei paesi vicini, gran parte dei quali sono musulmani” e le conseguenze che il flusso di rifugiati potrebbe portare “sulla situazione in Ciad, Camerun e nella Repubblica Democratica del Congo, così come altri Paesi della regione “.

L’escalation di violenza cui si è assistito, parallela alla progressiva incapacità di Michel Djotodia, il capo dei Sèlèka che si autoproclamò presidente, di controllare i suoi uomini, anche dopo il loro scioglimento, ha “dato il la” al presidente francese che ha ritenuto necessario un intervento rapido e obbligato che solo la Francia sarebbe riuscita a garantire (data la presenza di contingenti francesi sia in Repubblica Centrafricana stessa, sia nei Paesi confinanti a cominciare dal Ciad e dal Camerun). Inutile sottolineare la somiglianza tra quest’intervento e quello in Mali, dove peraltro le forze transalpine si sono trovate a dover prolungare il loro intervento a data da destinarsi, senza potere ridurre il numero degli effettivi come inizialmente previsto.

Nella Rca non è da minimizzare la riorganizzazione dei ribelli (ex-Sèlèka) che sono scappati a Nord e che si sono dispersi nelle zone rurali. In futuro potrebbero essere fonte di destabilizzazione ulteriore del Paese.
In ultima analisi, la crisi in Centrafrica mette in evidenza ancora una volta la debolezza e l’inefficacia dell’Unione Africana. Nonostante negli ultimi anni abbia intrapreso un lento ma profondo processo di riforma (non ancora terminato), non dispone ancora di strutture adeguate e pronte a intervenire in conflitti “ingarbugliati” come quelli che caratterizzano la fascia del Sahel, in cui milizie, anche provenienti dall’esterno, riescono a impadronirsi rapidamente di porzioni considerevoli di territorio.

*Antonio Coviello, laureando in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha cominciato la sua avventura giornalistica collaborando con La Nuova Basilicata. Ha scritto per alcune testate on line e cartacee occupandosi in particolar modo di politica interna ed estera. E’ appassionato di storia araba e di relazioni internazionali.

NOTE:
1) Risoluzione CdS 2149(2014) “its serious concern at the dire humanitarian situation in the CAR, and emphasizing in particular the humanitarian needs of the more than 760,000 internally displaced persons and of the more than 300,000 refugees in neighbouring countries, a largenumber of which are Muslim, and further expressing concern at the consequences of the flow of refugees, on the situation in Chad, Cameroon and the Democratic Republic of the Congo,as well as other countries of the region”

IL PIÙ GRANDE ERRORE DELLA NATO – L’ALLEANZA HA DEFORMATO LA SUA MISSIONE E IL MONDO NE PAGA IL PREZZO.

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Foreign Affairs- 5 maggio 2014

Per 20 anni la politica di sicurezza europea e della NATO si è basata su quattro chiari presupposti. Il primo, la Russia non era più una potenza ostile e perciò non ci si sarebbe dovuti preoccupare di alcuna minaccia al confine. Il secondo, dato che un’alleanza difensiva contro la Russia non aveva più ragione d’essere, lo scopo per cui gli alleati avrebbero potuto e dovuto rimanere uniti si sarebbe dovuto ricercare fuori dal perimetro imposto da motivazioni storiche ormai sorpassate: da qui l’esigenza di espandere la NATO oltre i suoi confini tradizionali e di allargare la membership ad altri paesi. Il terzo, diretta conseguenza dei due precedenti, prevedeva che la Russia, divenuta non più ostile, nulla avrebbe obiettato ad una nuova configurazione della NATO basata su una nuova “mission”. Infine, quarto punto, pensavano che la NATO avrebbe avuto successo in teatri lontani come Iraq, Afghanistan, Libia.
Oggi, nel 2014, i papaveri occidentali stanno imparando la dura realtà. La Russia non è affatto propensa ad un “benign neglect” verso un’alleanza di questo tipo, l’est Europa è ancora cruciale per la NATO perché quelle ragioni storiche non si sono affatto esaurite, e i teatri afghani iracheni hanno comportato altissimi prezzi in termini monetari e di vite umani senza che la pubblica opinione abbia potuto vederne effettivi vantaggi.
In realtà, in Europa la presenza militare della NATO è ancora necessaria per scoraggiare la minaccia russa e rassicurare gli alleati sugli impegni americani: è tempo di tornare alle ragioni fondamentali su cui si fondò la stessa Alleanza (back to basics). Il crollo dell’Impero sovietico, e della stessa URSS, sicuramente avrebbe determinato una revisione degli obiettivi strategici: in omaggio agli assunti sopra descritti, si provvide ad includere nell’Alleanza paesi appartenenti al Patto di Varsavia (nel 1999, Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca divennero membri a tutti gli effetti; nel 2004, Bulgaria, Lettonia, Lituania, Estonia, Slovacchia e Slovenia. Nel 2009 vi entrarono Albania e Croazia).
Molti commentatori contestavano che questo assetto avrebbe prodotto contraccolpi da parte della Russia, dando spazio al suo interno alle frange nazionaliste ed anti occidentali che, preso il potere, nel peggiore degli scenari possibili, avrebbero ridefinito una politica aggressiva verso l’Occidente tale da smorzare ogni aspettativa di una Russia più morbida e meglio disposta.
Oltre a tale affronto anche il bombardamento della Serbia nel 1999, senza alcuna autorizzazione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, ha provocato nella pubblica opinione russa una profonda avversione verso l’Occidente, divenendo l’arma migliore di cui Putin potesse disporre per rafforzare la sua leadership.
La proiezione su scala globale della mission della NATO non teneva però conto di come gli interessi strategici fra USA ed UE divenisse sempre più divergente: l’UE non aveva – e non ha – capacità di dispiegare una forza militare su scala globale, e ciò avrebbe determinato uno scollamento fra adesione- diplomatica e militare- alle iniziative americane nei teatri afghani, iracheni e libici; e la valenza dei risultati concreti ottenuti dalle operazioni militari intraprese.
Ora Putin, con la questione ucraina, ha messo le cancellerie occidentali di fronte a scelte ineludibili. Il problema di una sicurezza in Europa esiste ancora. Non solo, si tratterà di adottare una controffensiva efficace alla perfetta combinazione adoperata dalla Russia in Crimea fra operazioni “coperte” , disinformazione, mobilizzazione del fronte interno degli stati presi di mira : ciò comporterà l’adozione di nuovi modelli di training delle forze armate e di presenza che non può certo limitarsi ad esercitazioni militari di routine come avvenuto in questi anni. L’Europa peraltro pone problemi gravi in merito alle sue divisioni politiche ed alla dipendenza energetica dalla Russia, ciò che impone agli USA di rilegittimarsi presso le pubbliche opinioni europee rendendosi visibili come alternativa agli approvvigionamenti energetici dalla Russia, da isolare al contempo dai paesi europei.
Putin ha obiettivi strategici chiari: ristabilire una chiara influenza nell’Europa Orientale, affermare l’Unione Eurasiatica, ridefinire i confini stessi delle aree di suo interesse, dividere la NATO esacerbando i contrasti fra i suoi alleati per renderla inefficace e non operativa.
Costruire un’Europa unita, libera ed in pace è sempre un obiettivo nobile e raggiungibile a patto che si sia consapevoli che c’è un prezzo da pagare

articolo originale: http://www.foreignaffairs.com/articles/138432/michael-e-brown/natos-biggest-mistake

Traduzione ed adattamento a cura di Corrado Fontaneto

ALEKSANDR DUGHIN: TEORIA LUMII MULTIPOLARE (13)

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Partea 2. GEOPOLITICA LUMII MULTIPOLARE

Capitolul 4. Lumea multipolară şi Postmodernitatea

Urmare din numărul precedent.

Multipolaritatea ca Postmodernitate

Dacă e să apelăm la trecut, vom descoperi cu uşurinţă că o lume multipolară, adică o ordine internaţională bazată pe principiul multipolarităţii, n-a existat niciodată. Tocmai de aceea, multipolaritatea reprezintă anume un proiect, un plan, o strategie a viitorului, iar nu o simplă inerţie sau o opoziţie anchilozată faţă de globalizare. Multipolaritatea priveşte spre viitor, dar îl vede într-un mod radical diferit decât adepţii multipolarităţii, universalismului şi globalizării, tinzând să-şi transpună în viaţă viziunea.

Aceste consideraţii arată că, într-un anume sens, multipolaritatea este şi ea Postmodernitate (iar nu Modernitate sau Premodernitate), însă una diferită decât Postmodernitatea globalistă şi unipolară. Şi în acest sens, filozofia multipolară este de acord cu faptul că actuala ordine mondială, la fel ca şi cea de ieri (cea naţională sau bipolară), este una imperfectă şi reclamă o transformare radicală. Lumea multipolară nu constituie apărarea celui de-al doilea sau al treilea „nomos” al pământului (după Carl Schmitt), ci lupta pentru cel de-al patrulea nomos, care trebuie să vină în schimbul prezentului şi al trecutului. În aceeaşi măsură, multipolaritatea nu este respingerea Postmodernităţii, ci afirmarea unei Postmodernităţi radical diferite. De aceea, în cazul elaborării multipolarităţii ca ideologie sistematizată, este vorba anume de „A patra teorie politică”.

 

Postmodernitatea Multipolară împotriva Postmodernităţii unipolare (globaliste/antiglobaliste)

Atunci când vine vorba despre măsura lucrurilor în lumea viitorului, între teoria multipolarităţii şi postmodernism apar grave contradicţii. Postmodernismul liberal şi neomarxist operează cu noţiunile de bază „individ” şi „progres” linear, concepute din perspectiva „eliberării individului”, iar în stadiul final – din perspectiva „eliberării de individ” şi trecerii la postumanitate, cyborg, mutant, rizom, clonă. Mai mult decât atât, anume principiul individualităţii este considerat de către ei universal.

În aceste chestiuni, ideea multipolarităţii se deosebeşte în mod categoric de linia magistrală a postmodernismului şi afirmă că în miezul lucrurilor stă societatea1, personalitatea colectivă, conştiinţa colectivă (Emile Durkheim), subconştientul colectiv (Carl Jung). Societatea este matricea existenţei, ea îi creează pe indivizi, pe oameni, limbile, culturile, economiile, sistemele politice, timpul şi spaţiul. Însă nu există o singură societate, ci o multitudine de societăţi, acestea fiind incomparabile între ele. Individul a devenit „măsură a lucrurilor” într-o formă atât de absolută şi finită doar într-un singur tip de societate, şi anume în cea occidentală. În alte societăţi, el nu s-a constituit în aşa ceva şi nici nu va ajunge să fie, deoarece ele sunt organizate de o cu totul altă manieră. Şi este nevoie să recunoaştem că fiecare societate are dreptul să fie aşa cum vrea, să creeze realitatea după propria croială, atribuindu-i individului şi omului valoarea supremă sau neacordându-i nicio valoare.

Acelaşi lucru ţine şi de „progres”. Întrucât timpul este un fenomen social, în fiecare societate el este structurat în mod diferit. În unele societăţi, el întruchipează exagerarea rolului individului în istorie, iar în altele – nu. Tocmai de aceea nu există niciun fel de predeterminare, la scara tuturor societăţilor Pământului, faţă de individ şi postumanitate. Probabil, asta e soarta Occidentului, legată de logica istoriei lui. Dar faţă de alte societăţi şi popoare individualismul are o atribuţie indirectă, iar dacă este prezent cumva în culturile lor, atunci, de regulă, sub forma unor postulate impuse din exterior, străine paradigmelor societăţilor locale. Însă anume universalismul colonial-imperial al Occidentului este adversarul principal al ideii multipolare.

Recurgând la termenii geopoliticii, am putea spune că multipolaritatea este versiunea terestră, continentală, telurocratică a Postmodernităţii, în timp ce globalismul (la fel ca antiglobalismul) este versiunea ei maritimă, talasocratică.

 

A transforma otrava în medicament. „A încăleca tigrul” globalizării: reţeaua multipolară

Edificarea lumii multipolare reclamă elaborarea unei atitudini aparte faţă de toate aspectele de bază ale globalizării. Am văzut că, deşi multipolaritatea i se opune unipolarităţii şi globalizării, este vorba nu despre simpla respingere a tuturor transformărilor contemporane, ci despre faptul de a conferi acestor transformări o direcţie multipolară, a le influenţa şi a le orienta spre acea imagine care este văzută drept una dorită şi cea mai bună. De aceea, în anumite circumstanţe multipolaritatea este chemată nu atât să i se opună în mod frontal globalizării, cât să-i preia iniţiativa, să îndrepte procesele pe o traiectorie nouă şi să transforme „otrava în medicament” (potrivit unei vechi expresii chineze, „să încalece tigrul”2). O astfel de st

INTERVISTA DEL FONDO GORCHAKOVA A GIUSEPPE CAPPELLUTI, COLLABORATORE DI “EURASIA”

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Giuseppe, vivi in Russia ormai da alcuni mesi. Leggi la stampa russa, parli con la gente e osservi la vita con i tuoi occhi; ma, nel contempo, ti mantieni in contatto con la stampa occidentale. A tuo avviso, come vengono percepite le mosse della Russia dai giornali occidentali?

Molti media mainstream, come è noto, sono schierati dalla parte dell’Ucraina, e non pochi osservatori sono convinti che, sul lungo termine, la crisi in Crimea si rivelerà una sconfitta per la Russia. Ciò, a mio avviso, non deve stupire: molti commentatori sono ancora legati all’epoca delle Rivoluzioni di Velluto, quando la sconfitta finale del sistema comunista sembrava aver rimosso ogni limite alla diffusione del sistema occidentale, ossia di quei valori che essi stessi rappresentano. Ciò che invece colpiscono sono le loro improbabili argomentazioni. Cito un esempio: Eric Posner, docente di legge dell’Università di Chicago, alla fine del suo articolo “What to do about Crimea? Nothing”, giunge ad affermare che “sul lungo termine la Russia non avrà guadagnato niente se non un’arida penisola priva di importanza economica o militare”. Molti giornalisti, poi, dimostrano una scarsa conoscenza degli argomenti su cui scrivono: basti pensare a chi afferma che l’Unione Eurasiatica sia una riedizione dell’Unione Sovietica, quando nel progetto di integrazione eurasiatica il ruolo dell’ideologia comunista è praticamente nullo. L’opinione pubblica occidentale, tuttavia, è molto meno coesa dei suoi media mainstream. In Europa, ad esempio, esiste un certo divario tra una classe dirigente sostanzialmente schierata con Washington – sebbene su posizioni più moderate di quelle degli Obama e delle Nuland –, e un popolo sempre più orientato verso i partiti nazionalisti, euroscettici o “antisistema” – molti dei quali sono particolarmente critici verso le posizioni dei leaders occidentali sulla crisi ucraina. Ciò non è dovuto soltanto alla crisi economica che stanno attraversando alcuni Paesi dell’Europa meridionale (tra cui l’Italia), una delle cui cause è la politica di austerità delle attuali autorità comunitarie, ma anche, e forse soprattutto, alla crisi morale in cui ci troviamo. Cosa vuol dire essere Europei? Cosa ci unisce? Qual è l’obiettivo finale dell’Europa? Gli interessi degli Europei sono coincidenti con quelli degli Americani? La risposta che proviene da partiti come lo UKIP britannico, il Front National francese e il Movimento 5 Stelle italiano può essere discutibile, certamente, ma bisogna riconoscere che questi partiti sanno rispondere a queste domande meglio di quelli tradizionali)
- So che tra i tuoi interessi ci sono, accanto ai temi delle relazioni tra la Russia e i Paesi dell’ex Unione Sovietica, anche quelli dei suoi rapporti con altri Paesi. Quali? E di quali aspetti ti sei interessato?
Oltre che alle relazioni tra la Russia e molti Paesi ex-sovietici, tra cui il Kazakistan – su cui ho scritto la mia tesi di laurea – e l’Ucraina, mi sono interessato molto anche ai rapporti con l’Europa e al ruolo dell’annosa disputa delle Isole Curili nei rapporti con il Giappone. Ultimamente, poi, mi sto interessando alle relazioni tra la Russia e la Turchia, e ciò che mi ha particolarmente colpito è che, malgrado la secolare rivalità tra i due Paesi e le loro enormi divergenze su questioni quali Cipro, Siria e Nagorno-Karabach, Mosca e Ankara siano comunque riusciti ad instaurare delle relazioni fruttuose in vari ambiti, dagli scambi commerciali al turismo passando per il gas.

 

Sei d’accordo sull’opinione espressa da molti osservatori internazionali, secondo i quali siamo all’inizio di una nuova fase nella geopolitica, nella quale la Russia ha un nuovo ruolo?

La crisi in Crimea rappresenta senza dubbio il punto più basso nelle relazioni tra Russia e Occidente dalla fine della Guerra Fredda, ma le tensioni in realtà covavano già da molto tempo, come dimostrano l’affare Snowden, le tensioni sullo scudo antimissile e le polemiche su gay e allargamento ad est della NATO. Tuttavia non credo che siamo all’inizio di una nuova Guerra Fredda. Non siamo più negli anni Quaranta: Russia e Stati Uniti non sono le uniche grandi potenze, e qualora le tensioni in Ucraina dovessero continuare e i rapporti tra Russia e Occidente peggiorare in maniera significativa, chi trarrebbe i maggiori vantaggi sarebbero le nuove potenze emergenti, in primis la Cina, la cui neutralità sulla crisi ucraina le consente di non peggiorare i rapporti né con gli Stati Uniti né con la Russia. Il mondo sta diventando sempre più liquido: finita l’epoca delle grandi ideologie, le alleanze tenderanno sempre più spesso ad essere legate alle circostanze, e gli amici di oggi possono essere i nemici di domani. Persino nello stesso momento un rapporto di alleanza può coesistere con uno di rivalità. Una nuova Guerra Fredda, pertanto, non è nell’interesse di nessuna delle due parti, ed entrambe sembrano esserne consapevoli. Washington, malgrado la retorica, si è astenuta dal tagliare i ponti con il Cremlino o dall’approvare provvedimenti che possano seriamente danneggiare l’economia russa. Putin, d’altro canto, ha più volte evidenziato che rimane aperto alla cooperazione con l’Occidente, e quindi anche con gli Stati Uniti, in altri settori. A mio avviso, gli Stati Uniti, e in generale l’Occidente, e la Russia dovranno soltanto essere consci di due cose. I primi non possono sfidare la seconda sull’Ucraina, mentre la seconda non può sfidare gli Stati Uniti sulla leadership mondiale. In ogni caso, per la Russia sarebbe ora necessario chiudere al più presto la partita ucraina e focalizzarsi sui suoi problemi interni e sulle relazioni con l’Asia. E’probabile che alla fine la Russia riuscirà a riconquistare l’influenza sull’Ucraina: gli interessi occidentali in Ucraina, dopotutto, riguardano soprattutto il contenimento della Russia, e anche in Occidente non manca chi preferirebbe il ritorno della “pax russica” in Ucraina. La vittoria, però, sarà possibile soltanto sul lungo termine.

 

Parliamo ora della crisi ucraina. Qual è, a tuo avviso, la causa reale del suo inizio, e quali sono le sue possibili conseguenze?

L’Ucraina è divisa in tre parti. Gli ucraini occidentali sono cattolici, più legati all’Europa Centrale che alla Russia e hanno un atteggiamento tendenzialmente nazionalista, mentre nell’Est e nel Sud del Paese, dove a prevalere è l’Ortodossia, le differenze tra Ucraini e Russi etnici perdono di senso. In più c’è un terzo gruppo di Ucraini che, pur avendo una mentalità molto più simile a quella russa che non, ad esempio, a quella tedesca, guardano verso l’Europa, talvolta per russofobia, talvolta per i – presunti – vantaggi che l’integrazione europea produrrebbe al loro Paese. Ora, per creare un Paese stabile, sarebbe necessario che queste anime dell’Ucraina non siano in contrapposizione, ma si controbilancino a vicenda. Il problema è che nessuno dei principali contendenti vuole rinunciare alla propria influenza per il bene della pace, e accordarsi per un’Ucraina neutrale è molto più difficile di quanto si possa pensare. Il futuro, comunque, dipenderà molto dalle priorità geopolitiche dell’Occidente. L’Ucraina è un Paese grande il doppio della Germania, ha enormi problemi che vanno dalla corruzione alla povertà passando per la scarsa competitività, e, sul breve termine, l’unico vantaggio per gli Ucraini derivante dall’integrazione europea sarebbe la possibilità di emigrare in Europa con maggiore facilità. Portare Kiev sotto l’ombrello europeo sarà tutt’altro che facile, e ciò sarà possibile soltanto qualora l’Occidente fosse seriamente interessato ad attuare una politica di contenimento nei confronti della Russia. Altrimenti rimarrà nel limbo ancora per molti anni, anche se, come ho già detto in precedenza, è probabile che sul lungo termine ad avere la meglio sia la Russia. Dopotutto si tratta dell’unico Paese che può sostenere l’Ucraina per motivi non esclusivamente economici o geopolitici. Non bisogna dimenticare che l’Ucraina, per la Russia, non è solo oleodotti, le acciaierie del Donbass e un mercato di 45 milioni di persone.

 

Attualmente stai lavorando ad alcuni articoli sulla Crimea per il pubblico italiano. Qual è la tua opinione in proposito?
La crisi in Crimea si sarebbe potuta evitare se i Paesi occidentali, Stati Uniti in testa, si fossero comportati da arbitri più che da tifosi. Se Kerry, ad esempio, non si fosse dichiarato “scioccato” da una repressione che in realtà consisteva soltanto nella rimozione delle barricate da Maidan e nello sgombero del Municipio di Kiev. Negli ultimi vent’anni, nel bene e nel male, si è avuta un’alternanza tra filoccidentali e filorussi: al filorusso Kučma ha fatto seguito Juščenko, e a Juščenko è succeduto Janukovič. E il tutto per mezzo di elezioni più o meno regolari. Ora, però, l’Occidente senza volerlo ha fatto lo stesso errore compiuto dalle autorità greche a Cipro nel 1974, quando hanno sostenuto la defenestrazione dell’arcivescovo Makarios e la sua sostituzione con un fautore dell’enosis, l’unità con la Grecia. Cinque giorni dopo hanno dovuto affrontare l’invasione turca dell’isola, sostenuta da una minoranza turco-cipriota da sempre ostile all’enosis. Le reazioni della Turchia e della Russia possono essere discutibili – anche se, a differenza dell’invasione turca, l’intervento russo in Crimea è stato quasi indolore – ma le loro ragioni, a mio avviso, sono comprensibili.

 

Qual è la tua posizione nei riguardi delle sanzioni adottate contro la Russia?

Le sanzioni europee e quelle americane sono molto diverse nei metodi e nei fini. Le prime, che colpiscono le personalità direttamente coinvolte nella crisi in Crimea e nella rivolta nel Donbass, puntano soprattutto a tenere buono l’alleato americano senza incorrere in perdite significative. L’economia europea è troppo legata a quella russa per potersi permettere una guerra commerciale con la Russia, né l’Europa ha le giuste motivazioni per farlo, e l’unica misura significativa è il blocco dei visti Schengen per i cittadini della Crimea con il passaporto russo. Le seconde, invece, hanno un fine politico ben preciso, anche se non dichiarato: isolare Putin colpendo i funzionari e gli oligarchi a lui vicini per ottenere la sua defenestrazione. Obama e Putin non hanno mai avuto buoni rapporti. Quando è salito al potere, Obama parlava di superamento delle logiche della Guerra Fredda e di trasformare la Russia in un alleato. E probabilmente ci sperava realmente: il Presidente americano, dopotutto, è uno che crede alla “fine della storia”, ossia all’idea che, una volta fallito l’esperimento comunista, il futuro avrebbe visto il trionfo della democrazia liberale. Le sue dichiarazioni allo scoppio della crisi in Crimea, secondo cui “Putin si trova sul lato sbagliato della storia”, lo dimostrano chiaramente. Tuttavia, all’inizio della presidenza Obama, l’inquilino del Cremlino era Medvedev, un tecnocrate che sapeva parlare la lingua dell’Occidente. Certamente Medvedev era un uomo di Putin, ma, parafrasando Roosevelt, per i politici occidentali era “il nostro uomo di Putin”. Non deve stupire se il punto più alto delle relazioni russo-statunitensi sia stato raggiunto proprio durante l’era Medvedev. I rapporti tra Putin e Obama, invece, erano difficili già prima dello scoppio della crisi ucraina. Malgrado questi consideri la dissoluzione dell’URSS “la più grande catastrofe geopolitica del ventesimo secolo”, Putin non è un nostalgico dell’Unione Sovietica, e anzi lui stesso considera il comunismo un’ideologia fallita. Ma critica l’Occidente, ne evidenzia debolezze e doppi standard, riafferma il particolarismo russo, e inoltre è un vincente in politica estera. E questo, per Obama, è intollerabile.

 

E nei riguardi delle mosse russe in Ucraina, e in particolare in Crimea?

Da un punto di vista militare e geopolitico, l’operazione è stata un successo. Le truppe russe hanno conquistato la Crimea quasi senza incontrare opposizioni e anzi venendo accolte come liberatrici dalla popolazione locale. E l’annessione della Crimea implica la permanenza della Flotta del Mar Nero nella base di Sebastopoli anche dopo il 2042 (l’anno della scadenza degli Accordi di Char’kov, nda). Da un punto di vista economico, invece, i vantaggi, se ci saranno, saranno a lungo termine. Oltre ad avere un enorme potenziale agricolo e turistico, la Crimea dispone di riserve di gas naturale, che alcuni mesi fa erano state una delle chiavi della diversificazione degli approvvigionamenti di gas del governo ucraino. Tuttavia, visto l’attuale clima di tensione con l’Ucraina e le sanzioni applicate dall’Occidente sulla Crimea – come, ad esempio, la chiusura dei voli diretti verso Simferopoli e il divieto di rilascio dei visti Schengen per i cittadini della Crimea con il passaporto russo –, è improbabile che ciò possa avvenire in tempi brevi. Non in ultima analisi, gli investimenti che la Russia dovrà fare in Crimea saranno ingenti. Nel complesso il bilancio presenta luci e ombre. Nell’antica Roma si diceva “si vis pacem, para bellum”, e le azioni di Putin sembrano ispirate proprio a quest’adagio. E’difficile, dopotutto, che se Putin avesse accettato l’offerta di Barroso a “lavorare con noi” avrebbe ottenuto di più su federalismo e ruolo della lingua russa, o garanzie concrete su un’Ucraina neutrale. D’altro canto, però, le azioni russe hanno portato a un forte peggioramento delle relazioni tra Russia e Ucraina, sia quelle ufficiali sia a livello di semplici cittadini, e le tensioni con l’Occidente hanno prodotto una Russia più debole sul piano internazionale. E ora, per la Russia, è molto importante non perdere le posizioni guadagnate negli ultimi anni.

 

Quali sono, a tuo avviso, i successi e gli insuccessi della politica estera russa?

Negli ultimi anni la Russia ha messo a segno una serie di mosse che, nel bene e nel male, hanno restituito al Paese un ruolo geopolitico di primo piano. La più importante di tutte è stata senza dubbio il compromesso sulla Siria, non solo perché ha evitato un attacco americano che, come già successo in Iraq e in Libia, si sarebbe potuto trasformare in un favore ai fondamentalisti islamici, ma anche perché avrebbe potuto aprire una nuova fase nelle relazioni russo-statunitensi. Non dimentichiamoci che, nel febbraio scorso, la Russia e la NATO avevano annunciato la loro prima missione militare congiunta, finalizzata al trasporto delle armi chimiche siriane, sebbene lo scoppio della crisi in Crimea abbia portato alla sua sospensione. Tra i successi, però, non vanno dimenticati l’avvio dell’Unione Doganale Eurasiatica, il rafforzamento delle relazioni con la Cina e le schiarite nei rapporti con il Giappone e la Georgia. Altre decisioni, come quella di dare rifugio alla “talpa” Edward Snowden, sono state a mio avviso più discutibili, mentre la cancellazione unilaterale degli Accordi di Kharkov del 2010 tra Russia e Ucraina è stata un grande errore strategico. Gli Accordi di Char’kov, che prevedevano forti sconti sul gas in cambio del mantenimento della concessione della base di Sebastopoli fino al 2042, non avevano più senso dopo il ritorno della Crimea alla Russia. Ma, per l’Ucraina, è stata quasi un umiliazione, e infierire su un avversario sconfitto, a mio avviso, è sbagliato in principio. Da notare, poi, che l’abolizione del trattato ha dato al Consiglio d’Europa il pretesto di richiedere la chiusura della base di Sebastopoli.

 

Giuseppe, quali sono i tuoi piani per il futuro? Quali sono i temi della politica estera russa di cui ti piacerebbe occupare?

La mia idea è quella di occuparmi, magari per mezzo di un progetto di ricerca, del ruolo che le regioni asiatiche della Russia e le sue minoranze turco-mongoliche possono svolgere per il suo futuro. Da occidentale continuo a sperare in una Russia parte di un’Europa rifondata. Ma mi rendo conto che ciò non è possibile in tempi brevi, anche a causa del crescente divario culturale con l’Europa Occidentale. La Russia non è solo San Pietroburgo o Mosca, né il progetto eurasiatico perde di senso senza l’Ucraina: il Kazakistan, ad esempio, è molto più importante dal punto di vista geostrategico, e la “periferia” russa è in realtà piena di risorse culturali e umane. Ma, in entrambi i casi, ci troviamo di fronte a un potenziale non adeguatamente valorizzato.

articolo originale: http://gorchakovfund.ru/news/11268/


“GLI ITALIANI LEGGONO POCO”: MA È DAVVERO QUESTO IL PROBLEMA?

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A Torino, come ogni anno, si tiene il Salone del libro. Una kermesse che vede la partecipazione di centinaia di editori, di autori e di “addetti ai lavori”.
I numeri la fanno da padrona, così gli organizzatori declamano, una dopo l’altra, le cifre da primato di quest’ultima rassegna, dalle case editrici presenti agli “eventi” collegati, dalle cosiddette “location” ai quattrocentomila visitatori che si punta ad attirare.
“Gli italiani leggono poco”, si lamentano tutti all’unisono. “Il 10% delle famiglie italiane non ha in casa nemmeno un libro”, chiosa sommessamente qualcun altro.
Insomma, “bisogna leggere di più!”.
Certo, si dà per sottinteso “un buon libro”, ma chi ha veramente le idee chiare su che cosa sia “un buon libro”?
I libri in vendita davvero non mancano. Anzi, per la verità, ce ne sono pure troppi.
Le librerie oggigiorno sembrano dei supermercati, e non è un caso che i libri si trovino anche nei supermercati veri e propri. Le copertine sono sempre più colorate ed appariscenti perché appunto devono attirare “il consumatore”.
Ma quello che preoccupa decisamente sono i contenuti dei libri pubblicati.
Non ricordo esattamente chi l’ha detto, ma un tale ha affermato recentemente: “D’ora in poi non leggerò mai più un libro che non sia in grado di lasciarmi un segno, di elevarmi”.
André Gide, nel 1943, dichiarò: “Che sarebbe stato di me, se avessi incontrato i libri di Guénon quand’ero giovane?”. Non lo sappiamo, ma di sicuro c’è che se Guénon vivesse oggi potrebbe constatare quanto fosse puntuale la sua ‘profezia’ al riguardo del “regno della quantità” quale “segno dei tempi”.
Sono infatti sempre più diffusi gli sconti, le promozioni, i “reminders”, i “tre per due”. Alcuni anni fa, giunsero al punto di vendere i libri “al centimetro”: alla cassa li impilavano, e se superavano un tot di centimetri avevi diritto a qualche riduzione sul prezzo.
Nelle più grandi librerie, poi, si vende ogni tipo di ammennicolo e paccottiglia. Quella editoriale moderna è perlopiù un’industria commerciale che di culturale – se proprio non vogliamo scomodare la parola “sapienziale” – ha ben poco.
Ma torniamo alla scelta del famoso “buon libro” da leggere: essa non dovrebbe essere dettata da motivi quali il “divertimento”, lo “svago”, la “curiosità” o il “gusto” per la lettura. Da quando in qua la mera attività della lettura ha un valore di per sé, indipendentemente dai contenuti? Neanche si può dire che basti il desiderio di “informarsi” (sulla storia, la politica, l’attualità eccetera), anche se è già qualcosa in tempi di “inganno universale” orwelliano.
Leggere ha a che fare con l’educazione, con la formazione di sé.
D’altra parte la parola “cultura” è collegata all’idea di “coltivare”. Farsi una cultura consiste per l’appunto nel ‘coltivare’ se stessi, affinché la propria anima possa ‘fiorire’ e ‘dare frutti’.
L’Italiano non è l’unica lingua che utilizza una metafora agricola. In Arabo, dàrasa (“studiare”) ha la stessa radice di “trebbiare”. Per inciso, l’italiano “leggere” ha molto in comune con l’equivalente arabo qàra’a, che rimanda all’idea di “raccogliere ciò che è sparso e frammentato” (da cui la stessa parola “Corano”, in Arabo, Qur’ân).
La maggior parte dei bambini impara a leggere (o a migliorare la propria lettura) a scuola. Ma va detto che nelle civiltà che hanno preceduto quella cosiddetta “moderna” non era poi così importante la “scuola dell’obbligo”. Quella, per intendersi, che è diventata la riserva di caccia nella quale far scorazzare ogni tipo di assurdità e menzogna, con gli allievi e le loro coscienze a far la parte della facile preda di “pedagoghi” da strapazzo senza nessun orientamento sano.
Per questo c’è stato un ministro che, all’inaugurazione del Salone, ha affermato che s’impegnerà a far sì che “gli autori” siano più presenti nelle scuole… Già, quali autori, e con quali argomenti? Le “famiglie omogenitoriali”? La “sessualità dei bambini”? La “cultura della memoria” a senso unico?
Un tempo, chi aveva la stoffa e la predisposizione, veniva avviato ad un percorso mirato alla ‘coltivazione’ di sé, la quale non poteva che essere di tipo religioso.
Il “libro di testo” – con le relative mene per introdurvi questo o quel contenuto – neppure si sapeva cosa fosse. C’era il Libro sacro e stop. Rivelato. Ed è così, ancora oggi, in quei contesti islamici che tuttavia vedono il parallelo emergere di scuole “laiche” da vari decenni. Eppure, in molte realtà che frettolosamente vengono definite “laiche”, la cultura che veramente conta e per la quale si viene ancora fondamentalmente rispettati più degli altri è quella religiosa.
A corredo del Libro sacro, che primariamente s’impara a memoria perché si conosce veramente solo ciò che si conserva nella mente parola per parola, vi sono inoltre le tradizioni profetiche, ovvero le raccolte che contengono l’esempio virtuoso di colui che tutti i musulmani sono tenuti ad imitare. A seguire, i commentari al Libro sacro e le opere di diritto, perché la legge è l’argine che garantisce ad una comunità di non smarrirsi e, all’individuo, di darsi un limite e non partire per la tangente con speculazioni infondate d’ordine filosofico e teologico. Oltre a ciò, i libri che tradizionalmente val la pena di leggere sono quelli dei sant’uomini, degli ispirati dal Cielo, spesso di difficile “accesso” per i non iniziati (com’è naturale che sia), così come tutta la letteratura “edificante” e anagogica, di cui un’eco, oggidì, è data da certa saggistica che prende le mosse da una sincera intenzione dell’autore. Infine, i testi per lo studio dell’Arabo, lingua sacra che perciò si è chiamati a conoscere a menadito per accedere ai segreti della Rivelazione.
Anche da noi lo studio e la lettura erano una cosa seria, quando le materie di studio erano le arti del trivio e del quadrivio. Si pensi alla fondamentale importanza della dialettica e della retorica, se solo ci si sofferma sui “selvaggi con telefonino” (per dirla con Blondet), i quali si stanno sempre più imbarbarendo sotto l’aspetto del linguaggio, per non parlare delle basi stesse della logica, azzerate a favore d’un irrazionalismo diffuso.
E non è del tutto esatto dire che oggi “si legge poco”. Il problema è che si legge di tutto, a pezzi e bocconi, saltando di palo in frasca, su internet, sul tablet, l’iPad e lo smart phone, senza selezionare ma anzi lasciandosi trasportare nella “navigazione”, per il semplice fatto che non c’è nessuna guida autorevole che indichi cosa e, soprattutto, come leggere. I classici immortali sono sempre più incompresi dagli stessi insegnanti, così, non del tutto incomprensibilmente, i ragazzi considerano molto più interessanti ed avvincenti le storielle di qualche romanziere alla moda, che fiuta l’affare, allunga il brodo, e rifila ai suoi sprovveduti in erba lettori una sequela di mattoni melensi e strappalacrime ideati per chi ancora non ha una personalità formata.
D’altra parte gli adulti – eterni bambinoni che non si pongono mai il problema che un giorno moriranno – non sono d’esempio per i giovani, perché invece di trovare rifugio in letture “senza tempo” preferiscono zavorrarsi le borse e le menti con le ultime “rivelazioni” del tal autore di grido sulla “vita segreta” di Gesù, la Chiesa cattolica (ovviamente piena di pedofili) e l’imminente apocalisse che salverà solo gli “illuminati” e gli “eletti” che stanno dietro il medesimo pompatissimo scrittore di “best sellers”.
Un’espressione, quest’ultima, che già dice tutto sulla crassa e volgare concezione che del sapere hanno Oltreoceano. Da dove arriva l’ultima terrificante moda del “libro elettronico” o “e-book”, che porta a compimento lo sfaldamento del concetto stesso di lettura con la sua piattezza ed immaterialità sfuggente.
“Leggere ad ogni costo”, dunque? Vi è chi non va oltre la lettura del quotidiano, con la sua cronaca locale, o addirittura del catalogo di qualche ipermercato, col che si capisce perché si sono tanto dati da fare per “alfabetizzare” tutti quanti. Bisognava saper leggere le pubblicità, altro che!
Eppure, sostanzialmente, non c’è differenza tra chi legge i giornaletti gratuiti distribuiti nella metro e chi si riempie il carrello nei moderni “bookstore”. Il minimo comun denominatore è la completa inutilità di ciò che leggono.
Mi correggo: si tratta di una perdita di tempo. O più precisamente di un’occasione perduta.
Siccome il tempo a disposizione non è infinito, né quello nell’arco della giornata né quello della nostra singola esistenza, si può con cognizione affermare che dedicarsi a letture vane che non si traducano in un affinamento ed un’elevazione del nostro essere è un vero e proprio “peccato”.
Sapere comporta responsabilità, ed un’autentica scienza non può che ripercuotersi sul nostro modo di pensare e di comportarci. Tradizionalmente, si dice che è meglio non sapere se non si è in grado di tradurre in pratica ciò che si sa. Il che la dice lunga su quanto un sano approccio alla lettura sia diametralmente opposto alla bulimia pseudoculturale che tanto piace agli organizzatori di “eventi” ed ai loro entusiasti frequentatori. I moderni, infine, sanno anche troppe cose, la loro mente è stracolma di nozioni ed informazioni, ma il problema è che si tratta di questioni inutili ai fini della famosa “domanda essenziale” che attende tutti prima o poi.
Possiamo quindi continuare a far finta di nulla riducendo l’approccio al libro ad una questione di “shopping” e di “happening”?

NUOVE TENSIONI TRA USA E IRAN

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“Abbiamo informato le Nazioni Unite e l’Iran che non concederemo il visto al signor Abutalebi”, queste le parole del portavoce della Casa Bianca, Jay Carney: la decisione degli Stati Uniti di non concedere il visto all’ambasciatore iraniano all’ONU Hamid Aboutalebi sorprende, e non poco, la comunità internazionale. Il motivo del diniego si basa sul fatto che egli ha avuto un coinvolgimento nella famosa crisi degli ostaggi del 1979 all’ambasciata americana di Teheran e nella quale furono sequestrati 52 cittadini statunitensi per 444 giorni. A tal proposito sono significative le dichiarazioni della portavoce del Dipartimento di Stato USA Jen Psaki: “dato il suo ruolo negli eventi del 1979, che hanno avuto ripercussioni profonde sul popolo americano, sarebbe inaccettabile emettere il visto.”

Il ricordo di tale accadimento è ancora vivo nella mente dell’opinione pubblica americana: invero, la Camera e il Senato americano il 7 e il 10 aprile scorsi hanno approvato la mozione – presentata dal senatore repubblicano Ted Cruz – che vieta l’ingresso negli Stati Uniti a chi è stato coinvolto in atti terroristici contro la nazione. Si tratta in questo caso di un emendamento a completamento del “Foreign Relations Authorization Act”, col quale il presidente ha la possibilità di non concedere il visto d’ingresso negli USA ai rappresentanti dell’ONU che potrebbero costituire un pericolo per la sicurezza della nazione o siano stati coinvolti in attività di spionaggio contro lo stessa. La reazione del governo iraniano non s’è fatta attendere: non solo non ha ritirato la nomina di Aboutalemi, ma si è riservato di citare in giudizio i nordamericani poiché la decisione di non concedere il visto è stata ritenuta dal governo Rohani una violazione dei trattati internazionali che va contro l’accordo tra l’ONU e gli Stati Uniti.

Hamid Aboutalemi è sicuramente un diplomatico esperto: 56 anni, laureato alla Sorbona di Parigi, è stato in passato ambasciatore in Italia, Belgio e Australia. La sua nomina, voluta dal nuovo premier Rouhani, avrebbe dovuto sostituire quella del suo precedessore, l’economista Mohammed Khazaee. “Simpatizzante” dell’ala moderata del suo Paese, in passato vicino anche a Khatami col quale avrebbe voluto creare una nuova “democrazia tollerante”, la sua esperienza sarebbe dovuta servire nel portare avanti il faticoso dialogo sull’annosa questione nucleare (in questi giorni infatti si è svolto un terzo round di colloqui) in vista dei negoziati che riprenderanno il 13 maggio a Vienna, con la speranza di trovare un accordo definitivo che sostituisca a luglio quello provvisorio. L’interrogativo che ci si pone riguarda quelle che potrebbero essere ripercussioni proprio su tale ultima situazione: dopo tanto “lavoro” nel cercare di trovare un punto in comune, la mossa di ritirare il visto ad Aboutalemi (il quale ha già ribadito più volte che il suo ruolo nella crisi del 1979 sarebbe stato semplicemente quello di interprete, in un secondo momento, dell’assalto all’ambasciata) potrebbe sembrare rischiosa, se non quantomeno “inopportuna”. Entrambi i governi, sia quello a stelle e strisce che quello persiano, hanno assicurato che comunque tutto ciò non dovrebbe influenzare il cammino verso un nuovo accordo. Teheran comunque non sembra disposta a cedere – secondo anche quelle che sono le affermazioni del suo Vice Ministro degli Esteri Abbas Araghci – negando “un’alternativa per rimpiazzare Abutalebi” e ribadendo che “porterà avanti la questione attraverso i meccanismi legali”.

A tutto questo, inoltre, si aggiunge un altro episodio che ha generato una nuova tensione diplomatica internazionale e che ha coinvolto ad inizio aprile l’Ue: il Parlamento europeo ha difatti adottato una risoluzione sullo sviluppo delle relazioni tra Unione europea e Iran, il cui contenuto indica chiaramente il governo iraniano come autore di sistematiche violazioni di diritti fondamentali nel paese. Il Ministro degli Esteri persiano, Mohammad Javad Zarif, ha liquidato come false e pretestuose le accuse lanciate, aggiungendo poi che non consentirà la visita di alcuna delegazione del parlamento europeo in Iran. Dall’aumento delle esecuzioni capitali, al persistere delle discriminazioni sessuali, religiose ed etniche più un mancato rispetto, nelle scorse elezioni di Rouhani, degli standard democratici valutati dall’Unione Europea: tutto ciò è contenuto in tale risoluzione. Questo complica ulteriormente quel clima di dialogo che si era creato nei mesi scorsi: vedremo come reagiranno in merito anche Russia e Cina. Sicuramente le scintille col vecchio continente, così come la spinosa questione del visto ritirato dagli USA, potrebbero bloccare un cammino che sembrava potersi avviare verso un epilogo ragionevole: c’è realmente bisogno in questo momento di trovare un clima distensivo a livello globale. La posta in palio è alta così come il rischio che il banco possa saltare. Nel corso di questo mese attenderemo delle risposte che ci auspichiamo positive. In tutto questo, purtroppo, non ci resta che constatare sempre di più con amarezza il declino e la perdita di peso del vecchio continente, una volta fulcro fondamentale della diplomazia internazionale: adesso invece solo una mesta e triste realtà senza più spina dorsale.

G7 di Roma: VERTICE ministeriale sull’energia

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Il 5 e 6 maggio, a Roma, si sono incontrati i ministri competenti in materia energetica di Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Gran Bretagna e Stati Uniti, nonché il Commissario dell’ Unione Europea per l’Energia. Gli esponenti dei governi nazionali ed il Commissario si sono riuniti secondo quanto previsto dalla dichiarazione dell’ Aja del 24 marzo scorso, firmata dai Capi di Stato e di Governo dei paesi del G7. Il tema centrale del dibattito è stato la definizione di nuove misure per garantire il rafforzamento della sicurezza energetica collettiva. Il documento redatto nel vertice verrà sottoposto al prossimo G7 in programma il 4 e 5 giugno a Bruxelles.

Considerando il quadro attuale sulla crisi ucraina, si è trattato di un vertice di primaria importanza; quello che è sembrato strano è stato lo scarso impatto mediatico che questo evento ha avuto. Al centro del dibattito ovviamente c’è stata la questione del gas russo e dello shale gas: il gas metano estratto da particolari giacimenti in argille; si è anche espressa la possibilità di “diversificare ulteriormente le fonti di approvvigionamento dei paesi europei attraverso il gas naturale liquefatto (GNL)”, che è presente in grandi quantità, guarda caso, in Nord America (e non sarebbe così a buon mercato).

Nel documento finale dell’incontro c’è un chiaro e preciso riferimento alla questione ucraina: “I recenti eventi hanno messo in evidenza la necessità di affrontare le sfide della sicurezza energetica. L’energia non dovrebbe essere usata come mezzo di coercizione politica o come una minaccia alla sicurezza. Le dispute energetiche dovrebbero essere risolte attraverso il dialogo basato sulla reciprocità, sulla trasparenza e sulla cooperazione costante. Siamo estremamente preoccupati per le implicazioni sulla sicurezza energetica degli sviluppi in Ucraina, a causa della violazione da parte della Russia della sovranità e dell’integrità territoriale dell’Ucraina”.
Commentando la questione energetica tra UE e Russia, Davide Tabarelli, presidente della Nomisma Energia (una importante società di ricerca in campo energetico e ambientale) ha detto che “certamente le criticità diplomatiche attuali vanno sottolineate, ma non credo che alla Russia convenga privarsi di un mercato come quello europeo, non ne ha nessun interesse. Così come non è utile per l’ UE comminare sanzioni che possano mettere davvero a repentaglio i rapporti con Mosca. Vorrei che lo si dicesse chiaramente a livello europeo. L’economia russa e quella di Bruxelles devono rimanere intrecciate, perché sono due mercati complementari”.

Il ministro dello Sviluppo Economico italiano, Federica Guidi, ha, infatti, dichiarato che “ci auguriamo che la diplomazia prosegua in modo da favorire un dialogo tra le parti coinvolte. La riunione di oggi (martedì 6 maggio, ndr) non era focalizzata sulla crisi ucraina ma abbiamo tutti condiviso che si tratta di un tema che va affrontato dal punto di vista politico e diplomatico. L’auspicio è che il negoziato prosegua”. Facendo un bilancio del vertice, il Ministro ha reso noto che “è stata raggiunta una dichiarazione comune, una posizione unitaria che mette al centro la sicurezza energetica. Una questione che non può essere intesa come un tema dei singoli stati, ma che va vista come un argomento di responsabilità collettiva”. Per questo, secondo il Ministro, bisogna puntare sulla “diversificazione delle fonti di approvvigionamento, delle rotte e sullo sviluppo delle infrastrutture e delle tecnologie”.

Provando a riassumere il contenuto generale del vertice possiamo dire che la discussione si è sviluppata attraverso vari passaggi. All’ inizio del dibattito si è parlato di quali strategie adottare per ridurre la dipendenza energetica e i rischi a essa collegati: vi è stato l’accordo dei sette ministri sulla necessità di sostenere la diversificazione delle fonti primarie e delle tecnologie di produzione e distribuzione dell’energia, ma anche di un maggiore impegno per l’efficienza energetica e per un uso più diffuso delle fonti alternative agli idrocarburi (rinnovabili, nucleare, combustibili alternativi). Lo sviluppo e la modernizzazione delle infrastrutture  è stato, invece, il tema della seconda parte dei lavori. Nell’ultima parte del vertice si è discusso su come armonizzare le politiche e il quadro regolamentare riguardo ai mercati delle materie prime. Si sono trattati temi come i meccanismi di formazione del prezzo dell’energia, la difesa della concorrenza, il libero accesso ai mercati e alle infrastrutture ed infine sistemi coerenti di incentivazione delle fonti rinnovabili e dell’efficienza energetica.

Il ministro per l’Ambiente francese Ségolène Royal, a lato dell’incontro ha dichiarato che “ci stiamo evolvendo verso una strategia energetica comune che garantirà la sicurezza e l’ indipendenza energetica di ciascun paese o gruppi di paesi, che proteggerà e aiuterà gli Stati a diversificare il proprio mix energetico, affinché nessuno dipenda in maniera eccessiva da una sola fonte energetica”. L’accordo di questo G7, secondo l’esponente del governo francese “è stato raggiunto perché abbiamo tutti coscienza dell’urgenza. Un’urgenza che sottolinea anche il rapporto del Gruppo Intergovernativo di Esperti sul Cambiamento Climatico (IPCC) sul riscaldamento climatico. Se non riusciremo a limitare il riscaldamento climatico avremo un danno grave per la sicurezza globale, dal momento che delle guerre si profilano anche sulla questione dell’accesso all’acqua potabile”.

In questo incontro, però, si è parlato molto di sicurezza e poco di sostenibilità ambientale e di energie rinnovabili e le prospettive per un futuro immediato non sembrano positive. Esemplificativo è il punto 9 del documento, in cui si esprime la necessità di “proteggere le infrastrutture energetiche critiche, comprese le rotte delle petroliere e delle navi gasiere.” Questa parte del documento manifesta come gli esponenti del G7 prendano quindi in considerazione una instabilità politica nelle aree di transito energetico. A dimostrare come in questo incontro non si sia fatto molto sotto il profilo delle energie rinnovabili c’è anche la parte del documento in cui si intende “rafforzare la sicurezza energetica e la crescita economica attraverso lo sviluppo sicuro e sostenibile delle risorse di petrolio e di gas naturale, sia dalle fonti convenzionali, sia da quelle non convenzionali”. Più sicurezza quindi, ma ancora con i fossili.

La lista dei partecipanti al G7 Energia di Roma:

Guenter Oettinger, Unione Europea, Commissario dell’Energia;
Matteo Renzi, Italia, Presidente del Consiglio;
Federica Guidi, Italia, Ministro dello Sviluppo Economico;
Ségolène Royal, Francia, Ministro dell’Ecologia, Sviluppo Sostenibile ed Energia;
Sigmar Gabriel, Germania, Ministro degli Affari Economici ed Energia (e vicecancelliere);
Edward Davey, Gran Bretagna, Segretario di Stato all’Energia e ai Cambiamenti Climatici;
Ernest J. Moniz, Usa, Segretario di Stato all’Energia;
Toshimitsu Motegi, Giappone, Ministro dell’Economia, Commercio e Industria;
Greg Rickford, Canada, Ministro delle Risorse Naturali;
Maria van der Hoeven, Direttore Esecutivo, IEA.

DEBILITAMIENTO DEL ESTADO-NACIÓN Y NUEVOS MOVIMIENTOS SOCIALES

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Introducción

Este articulo intenta analizar cómo los nuevos movimientos sociales, muchas veces a traves de Internet y de las redes sociales, afectan el ejercicio de la democracia y las relaciones políticas.
Concretamente investiga cómo Internet y las nuevas tecnologías contribuyen a la acción política, promoviendo la reapropiación de los espacios públicos y el restablecimiento de la vida pública. Así se distancian de la tendencia al alza de la esfera privada observada durante el siglo XX. Por otra parte, en tanto que las redes sociales amplían las posibilidades de interacciones humanas, hemos tratado de demostrar como afectan el ejercicio de los derechos de expresión y de reunión, provocando reflexiones sobre los tradicionales conceptos e instituciones jurídicas –por ejemplo, en el voto y en la democracia representativa.
Finalmente tratamos de imaginar formas de organización política en las que los ciudadanos vivan juntos, minimizando la distinción entre gobernantes y gobernados. También se buscan la construcción de un espacio donde la libertad se convierta en una realidad visible y tangible (Arendt). Pues en la actualidad, ese espacio público no se limita a la plaza, el lugar de la urbe tradicionalmente abierto a las personas, sino que también inncluye Internet como “aldea global” virtual.
Podemos formular el problema político por antonomasia en la actualidad en función de en que forma, las conexiones entre las personas, pueden constituir un foro para la discusión pública entre iguales. Pues se trata de un foro capaz de estimular el ejercicio público de las libertades fundamentales, como el derecho de reunión y de manifestación. En otras palabras, las nuevas herramientas de comunicación pueden jugar un papel importante contra la arbitrariedad y el abuso del poder gubernamental a través de la creación de esferas virtuales y fomentado la reocupación de espacios reales en los que los ciudadanos puedan participar de manera más directa en las decisiones sobre los asuntos públicos.

Crisis economica y surgimiento de los nuevos movimientos sociales

El Mayo del ’68 fue una revuelta planetaria, aunque su momento más radical fue cuando la huelga general impulsada por estudiantes, intelectuales y obreros hizo tambalear al gobierno de Francia. Pero a pesar de esa significativa difetencia, no se puede reflexionar sobre el significado de esta revuelta simplemente reduciéndola a un solo país. Existe pues una especificidad francesa del ’68, pero que se inserta en el marco de un movimiento más general (Cohn-Bendit) y –como hemos dicho- planetaria. Además hay, sorprendentemente, ningún partido o sindicato pudo convertirse en cabeza visible del movimiento, ni ningún programa se impuso totalmente sobre los otros. Más que una tentativa de toma de poder, lo que se dio fue un rechazo a la sociedad de consumo y a la forma de vida imperante. En los años ’70 y ’80 se desarrollan –sobre todo en Occidente, pero no en exclusiva- varios movimientos que destacan revolucionariamente aspectos concretos –antes menospreciados- de la vida social: derechos étnicos, feminismos, ecologismos, movimiento hippie etc. Aparecen pues nuevas politizaciones que no siempre se ligan a los movimientos políticos tradicionales y, además, superan los bloques a un lado y otro del muro de Berlín. Significativamente, cuando cae dicho muro y la URSS, Fukuyama proclama el Fin de la Historia y Lyotard la caída de los “metadiscursos”.
Por otra parte, desde mediados de los años Ochenta, en gran parte de los países “avanzados”, una serie de servicios básicos hasta entonces considerados necesarios y universales, caen bajo la lógica del capitalismo. Entonces los gobiernos fueron cediendo a las presiones de las empresas globales, privatizaron progresivament muchos servicios esenciales y olvidaron sus responsabilidades –adquiridas democráticamente- con vistas al mantenimiento del Estado del bienestar. El abandono de tales funciones por parte del Estado conlleva el declive de su autoridad en la actualidad. Gran parte del papel del Estado ha sido sustituido por las grandes multinacionales que, con sistemas a menudo ilegales, mantienen firmemente en sus manos el poder, independientemente de la posición de los partidos políticos.
En consecuencia, la creciente brecha entre la globalidad del poder económico y las limitaciones de los instrumentos de acción política, provocan la desagradable sensación de “falta de poder público”. Además alimenta la desconfianza para con la política nacional, pues se muestra incapaz, a fecha de hoy, de gobernar el complejo fenómeno de la globalización.
Por otra parte, se ha creado una sociedad muy estratificada en la que las mejores oportunidades están reservadas para élites cada vez más reducidas, marginando grandes masas de población a papeles subordinados. Los jóvenes están condenados a vivir en su propia la piel la paradoja de una sociedad liberal y progresista que, al mismo tiempo, es feudal, está estructurada en castas y se muestra inextricablemente ligada a la inseguridad.
Es en este contexto de crisis político-económica que se han constituido nuevas subjetividades e identidades políticas, más o menos sustanciadas que cabe asociar a los llamados “Nuevos Movimientos Sociales”. Pero –como hemos apuntado- para comprenderlos también resulta imprescindible atender a la nueva protagonista: la Red. A partir de los años ’90. Internet ha permitido que las nuevas tecnologías establezcan una acelerada interconexión que tiene grandes efectos en la reconstrucción de la intersubjetividad. La ruptura de los Nuevos Movimientos Sociales con los movimientos clásicos se relaciona con las nuevas formas de comunicación y las nuevas tecnologías que permiten a una gran difusión de los nuevos movimientos.
Por ello, el nuevo sujeto social y político está ahora inevitablemente vinculado con la distancia, y con los jóvenes (que suelen hacer un uso masivo de las nuevas tecnologías). Las Primaveras Árabes, mostraron cómo las redes sociales permiten hacer política de forma diferente y cómo el anonimato y la difusión cambian los equilibrios de poder. Dilucidaremos cómo estos movimientos reticulares se relacionan con los poderes fácticos y, en qué medida, unos y otros se copertenecen e interaccionan.
La crisis económica post2008 conlleva también una crisis de los valores democráticos dentro de la democracia. Ello ya se anunció en aquél mayo del 1968 y representa uno de los puntos centrales que comparten los NMS. Los miembros de esos movimientos coinciden en su aspiración a una nueva forma de hacer mucho más horizontal y asamblearia. Se presta especial atención a la inclusión como sujetos políticos de personas habitualmente dejadas al margen y se comprende la revisión constante de la forma, de la mecánica de la participación como sello del avance democrático, dado que sólo desde el cambio en las estructuras se consiguen cambios en los resultados. Se busca combatir la crisis democrática de las instituciones a través de movimientos locales que fortalecen la implicación del individuo en la esfera política. Se constituyen nuevas entidades más abiertas, comunicadas y participativas que permiten dar voz a todas las particularidades existentes en la actualidad.
Movimientos como el 15-M en España, los Piratas en Alemania, los 5 Estrellas en Italia, los ecologistas y los cooperativistas en muchos países… generan formas de participación alternativas y nuevas relaciones. Ante lo que algunos consideran el derrumbe de las formas de Estado y de políticas tradicionales, se abren todo un abanico de opciones ligadas a las tecnologías y a las subjetividades actuales. Habrá que pensar cómo son, cómo se constituyen y cómo se relacionan estas nuevas entidades sociales llamadas NMS y cómo conciben el poder, la política, la sociedad…
Ahora bien, estos movimientos podrían encontrar importantes obstáculos en su heterogeneidad organizativa y de objetivos (ecologistas, de género, culturales, políticos, de protesta etc.), e incluso en sus relaciones con los partidos y sindicatos tradicionales. Al fin y al cabo, hasta el momento siempre se han impuesto las élites. Los individuos en nuestras democracias representativas han sido considerados más como votantes que como tomadores de decisiones. Por otra parte, la democracia directa es difícil y -aunque cuando fuera posible- quizás no es del todo deseable, ya qué el procedimiento de consulta no ha permitido, por lo menos hasta ahora, el debate y su resultado ha sido a menudo muy decepcionante.
Las acciones iniciadas en Internet están permitiendo la expresión pública de los derechos políticos fuera del entorno virtual, sorprendiendo y causando dificultades a las instituciones políticas tradicionales. Tal sorpresa nace de que los acontecimientos desafían la idea, hasta ahora dominante, que las nuevas tecnologías de comunicación provocarían la fragmentación de las relaciones humanas. Pero no olvidemos que los actuales conflictos políticos con las autoridades establecidas resulta de movilizaciones que contrarrestan la lógica intrínseca de las democracias representativas organizadas bajo los paradigmas dominantes hasta el siglo XX.

*Cristiano Procentese (Napoli 1970) è docente di Filosofia e scienze sociali nelle Scuole secondarie di secondo grado della Provincia di Udine, membro del GIRCHE (Grup Internacional de Recerca “Cultura, Història i Estat”), nonché Dottorando di ricerca in Filosofia in cotutela con l’Università Ca’ Foscari di Venezia e l’Università di Barcellona.

IL LEVIATANO – RASSEGNA STAMPA ATLANTICA (12-18 maggio 2014)

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L’ultima invasione della Russia. Come Putin ha vinto in Crimea e perso in Ucraina
(Analisi e commento all’articolo di Jeffrey Mankoff Russia’s Latest Land Grab su “Foreign Affairs” maggio/giugno 2014)

La situazione delineatasi in Ucraina rappresenta, a detta dell’autore, un significativo passo avanti della strategia di confronto duro della Russia nei confronti dell’Occidente: non ci si è limitati a fomentare disordini per delegittimare le istituzioni interne di una regione (come pure fatto nella Transnistria, in Ossezia e nel Nagorno Karabakh) ma sono state inviate, in modo camuffato, truppe russe che sostenessero un’iniziativa referendaria popolare grazie alla quale legittimare l’annessione di un intero territorio alla stessa Federazione Russa. Non solo, ma capovolgendo l’impostazione sovietica di ritagliare spazi statali a singole etnie separate e controllate attraverso un pesante apparato burocratico e militare, si è addotto qui il pretesto di tutelare i cittadini di etnia russa – e i russofoni – da possibili ritorsioni provenienti da un governo, quale quello governo ucraino, non legittimato. Alla base di questa impostazione, vi sarebbe quella mentalità imperiale tipicamente russa che considera i territori limitrofi al suo come “giardino di casa” in cui non ammettere intrusioni, ricorrendo ad ogni mezzo (ricatti energetici, fomentazione di rivolte) pur di veder riconosciuta la propria influenza. Tuttavia, secondo l’autore, tale impostazione arrecherà danni considerevoli alla Russia non solo in termini economici ma anche di immagine, spingendo gli stessi paesi definiti quali strategici dalla Russia per realizzare il proprio disegno eurasista, a richiedere l’aiuto dell’Occidente per uscire dalla morsa.
** Questa l’idea dell’articolo che mi dà modo di chiarire la mia posizione e le finalità della rubrica. E’ ovvio e scontato che qui non si vogliono sostenere le tesi statunitensi. Si vogliono invece portare a conoscenza dei lettori gli argomenti adoperati dalle più prestigiose riviste di geopolitica nordamericane in merito ad un determinato problema, nella fattispecie i rapporti con la Russia. L’uso eventuale di terminologia inglese è giustificato per evidenziare il concetto che l’autore ha voluto esprimere, oltreché per dimostrare che l’articolo è stato letto sul serio.
Riguardo all’articolo, siamo di fronte a pura propaganda. Si omette di dire che la Russia si è trovata di fronte ad un allargamento dell’Unione Europea dietro il quale interi paesi sono stati subito occupati da basi NATO: davvero è arroganza poter pensare che un leader come Putin, a capo di un immenso paese come la Russia, possa salutare una simile iniziativa come una manifestazione distensiva di amicizia. In secondo luogo, la tesi per cui la Russia uscirà perdente dal confronto, assomiglia ad un mantra più che ad una teoria sostenuta da solide basi: è sotto gli occhi di tutti chi, ad oggi, abbia guadagnato prestigio e credibilità ad esempio in Medio Oriente; così come la proposta di Lavrov di trasformare l’Ucraina in uno stato federale, tesi fino a qualche mese fa derisa ed oggi presentata alla pubblica opinione occidentale come “genialità” dell’OCSE per uscire dalla crisi. Infine, è vero che l’Unione Europea di fronte alla Russia non sa come porsi, ma qui, accanto alla presunzione di avere a che fare con un paese ormai ridotto allo stremo delle forze, gioca pesantemente il fatto che l’Unione Europea è profondamente divisa, incapace di avere una propria autonoma politica estera e di difesa: se a questo si aggiunge la politica miope di austerità fino ad oggi attuata – e molto probabilmente destinata a durare se dovesse prevalere alle elezioni del 25 maggio la Grande Coalizione popolare socialdemocratica- saranno sicuramente più forti i motivi di ripensamento circa la permanenza in un’Europa siffatta che gli interessi capaci di spingere ad un’adesione piena alla politica delle sanzioni contro la Russia intrapresa, con risultati ad oggi ridicoli, dall’Amministrazione statunitense.

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