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VIVERE E MORIRE A DAMASCO: IL VERO VOLTO DEL DISASTRO SIRIANO

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“Congratulazioni alla Siria, il cui popolo ha resistito ad ogni forma di egemonia e di oppressione con tutti i mezzi disponibili: con la sua ragione, con l’intelletto e con la coscienza patriottica. Ci sono coloro che combattono con le armi in pugno, coloro che combattono raccontando la verità e coloro che continuano a combattere con il loro grande cuore nonostante tutte le minacce.” Queste sono le parole del Presidente Bashar al-Assad, pronunciate nel discorso alla cerimonia di insediamento per il suo terzo mandato presidenziale, conquistato con l’ 88,7% dei suffragi espressi, circa il 65% dell’elettorato.

Un vero e proprio plebiscito: mai e poi mai il timido oculista di Damasco avrebbe immaginato di ritrovarsi in una tale situazione. Certamente il Paese dovette affrontare una prima delicatissima fase – dopo l’indipendenza del 1946 – caratterizzata da una lunga serie di colpi di stato, che terminarono con l’arrivo di suo padre al potere, Ḥāfiẓ al-Asad (1970-2000) e del suo partito Ba‘th (Rinascita), grazie al quale si pervenne a una certa stabilità.

Il Ba’th fu fondato nel 1943 da Mišīl ‘Aflaq e Ṣalāḥ al-Dīn al-Bīṭār, l’uno di religione ortodossa e l’altro sunnita, i quali nel corso dei loro studi a Parigi vennero in contatto con teorie di carattere socialista che poi applicarono al loro nascente movimento, caratterizzato appunto dalla triade: Unità, Libertà, Socialismo. Tale movimento aveva come base il rilancio del patrimonio storico-culturale arabo, reputando l’Islam come elemento sicuramente importante ma non esclusivo, e presentandosi come partito che avrebbe potuto garantire una certo equilibrio in un Paese diviso e frammentato sia socialmente che culturalmente. Parliamo di una nazione multiconfessionale, nella quale il Governo e l’Assemblea Nazionale sono composti da tutte le rappresentanze etniche e religiose del popolo siriano.

Tornando ai nostri giorni, si può senza alcun dubbio affermare che il marzo 2011 ha rappresentato un punto di non ritorno per la Siria. Da quelle proteste di piazza che scossero il Paese per chiedere riforme si avviò una spirale di morte, distruzione, infiltrazione di mercenari e servizi segreti stranieri che stanno tuttora mettendo a dura prova il governo in carica. D’altronde, come diceva lo scrittore e giornalista Chuck Palahniuk: “Non sai mai quanto sei forte, finché essere forte è l’unica scelta che hai”. Probabilmente era scritto nel destino di Bashar al-Asad che doveva sbarazzarsi di quell’aria riservata ed apparentemente mite per divenire il condottiero capace di guidare l’intero popolo siriano in questa tragica tempesta scatenata da potenze straniere ostili.

Laureatosi in medicina a Damasco nel 1992, Bashar al-Asad si trasferì a Londra per continuare la sua formazione post laurea nel campo oftalmologico. Né la vita politica né tanto meno quella militare erano ritenute confacenti alla sua persona: ma il destino, com’è noto, spesso e volentieri riserva tutt’altro. Nel 1994, infatti, in un tragico incidente stradale muore il fratello maggiore Basil, l’erede designato alla successione. A questo punto il giovane Bashar viene richiamato in patria e indirizzato direttamente all’Accademia militare , in quanto destinato a essere investito di quel ruolo che sarebbe spettato al povero Basil.

Quando nel 2000 muore il padre, Ḥāfiẓ al-Asad, l’attuale premier siriano ha circa 34 anni. Nei primi difficili anni di governo dovette far fronte al pericolo di una possibile spaccatura nel Paese e cercare in qualche modo di liberarsi del vecchio sistema autoritario che aveva ancora una certo potere, imboccando una tortuosa strada verso un processo di democratizzazione cominciato con alcune riforme economiche.

La situazione in Siria ancora adesso però resta gravissima e le dichiarazioni del Nunzio apostolico a Damasco Mons. Mario Zenari costituiscono un’ulteriore conferma: ”La popolazione civile ormai non ne può più, la situazione è in progressivo deterioramento, a cominciare dalla mancanza di lavoro, dalle fabbriche distrutte, dalle case in rovina, la mancanza di scuole… Quella che un tempo era la classe media, ora è in povertà e i poveri di un tempo, oggi sono in miseria”.

Le tristi immagini di persone brutalmente crocifisse da uomini del gruppo takfirista dell’ISIS, che negli ultimi tempi sono provenute dalla provincia siriana di Raqqa, sono il simbolo della tragica guerra civile vissuta da circa tre anni da un intero popolo. Il conflitto, in cui l’ESL (Esercito Siriano Libero) e una serie indistinta di gruppi takfiristi (tra i quali spiccano il Fronte Al-Nusra, il Fronte Islamico e lo stesso ISIS) combatte l’esercito regolare siriano, ha provocato oltre 140.000 morti e circa 2 milioni e mezzo di sfollati, traducendosi in una vera e propria catastrofe umanitaria.

Traffico d’armi, “aiuti” di ogni genere provenienti da Paesi stranieri vicini e lontani, distruzione, esecuzioni sommarie: storia dell’inferno siriano. I Governi occidentali di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Germania e Israele con il sostegno della Turchia e delle monarchie wahhabite dell’Arabia Saudita e del Qatar appoggiano la fazione dei cosiddetti “ribelli” contro il governo di Assad, il quale è a sua volta sostenuto da Russia, Cina, Iran e dal gruppo libanese Hezbollah.

Per capire la complessità dell’odierno mondo arabo bisogna in realtà tornare un po’ indietro, precisamente negli anni appena successivi alla Prima Guerra Mondiale. Caduto l’Impero ottomano, alleato di Germania e Austria-Ungheria nel primo conflitto bellico, furono Francia e Inghilterra a porre le basi per la costruzione della realtà geopolitica del Vicino Oriente,anche allo scopo di controllarne le ingenti risorse di petrolio e di gas naturale. Con l’accordo Sykes-Picot, difatti, le due suddette potenze europee si suddivisero le spoglie dell’Impero Ottomano.

La Siria e l’Irak, sulla base delle concessioni accordate dalla Società delle Nazioni, furono affidati rispettivamente alla Francia e all’Inghilterra. L’accordo Sykes-Picot ha realizzato i presupposti per la futura instabilità dell’area, con la creazione di 19 Stati caratterizzati da differenze etniche, culturali e religiose che hanno comportano notevoli problemi di convivenza. A ciò si aggiunga la famigerata “Dichiarazione Balfour”.

La Siria, com’è noto, ha importanti giacimenti di gas nelle sue acque territoriali e questi, insieme alla sua collocazione geografica, la rendono uno snodo fondamentale per il trasporto di idrocarburi fino ai mercati europei. La guerra civile e le successive sanzioni che sono state accordate al Paese nel corso di questi ultimi anni hanno non solo bloccato le esportazioni siriane di greggio in Europa, ma anche le importazioni dei prodotti petroliferi, obbligando in tal modo il governo siriano a rivolgersi a Paesi come il Venezuela, l’Iran e la Russia. Indubbiamente la politica energetica è stata all’ordine del giorno del governo di Assad, in particolare una forte attenzione è stata garantita al settore del gas: non solo sfruttamento di tale risorsa, ma anche piani infrastrutturali capaci di garantire, oltre all’approvvigionamento anche un ruolo strategico di transito per i produttori dell’area e per il mercato finale del vecchio continente.

Una politica – in poche parole – quella che nel 2009 lo stesso premier siriano definì “La strategia dei quattro mari”, cioè un piano per posizionare Damasco come centro vitale per il transito e commercio di carattere energetico, più la previsione di una sostanziosa parte di investimenti nella realizzazione di gasdotti tra il Mar Caspio, Golfo Persico, Mar Nero e Mediterraneo. In una conferenza congiunta ad Ankara con il presidente turco Abdullah Gul, Assad aveva dichiarato che tale piano strategico era utile per integrare lo spazio economico tra Siria, Iran, Iraq e Turchia e consacrare il suo paese come hub regionale di transito del petrolio e del gas, grazie alla sua posizione tra l’Europa e le principali zone di produzione tra il Golfo Persico e il Mar Caspio.
Progetto davvero ambizioso, ma che certamente avrebbe creato non poche tensioni con gli altri “competitor” regionali.

Per qualcuno un tal tipo di politica voleva significare spingersi un po’ troppo oltre certe ambizioni, e il governo Assad fin da subito ha dovuto subire spiacevoli conseguenze: il bombardamento all’oleodotto Kirbuk-Banias nel 2003 ne è stato una conferma. Il premier siriano condannò pubblicamente la guerra degli americani in Iraq e come ritorsione vi fu il bombardamento di tale conduttura che aveva servito per circa 50 anni i due confinanti Paesi: l’Iraq e appunto la Siria. Altra “spiacevole” conseguenza fu il “Syria Accountability Act” che nel 2004 fu varato dal Congresso statunitense, col quale furono previste una serie di sanzioni commerciali e finanziarie con lo scopo di mettere in ginocchio il Paese. La costruzione inoltre dell’oleodotto Kirkuk-Ceyhan ha avuto come fine “punitivo” quello di escludere la Siria dai benefici derivanti dalle royalty, in quanto l’infrastruttura non passa per il Paese.
A tutt’oggi questa è l’unica conduttura che trasporta il greggio nel vecchio continente.

Le domande adesso che potremmo porci sono queste: perchè? A chi giova?
Tentando di fare una più attenta analisi della situazione, subito balza all’occhio un particolare di non poco conto. La produzione petrolifera della Siria è gestita dalle sue compagnie nazionali: la Syrian Petroleum Company e la Syrian Gas Company, con piccole quote di minoranza per gli stranieri. Tutto questo ovviamente tenendo bene in mente le importanti riserve di gas, soprattutto nelle sue acque territoriali, e la posizione di transito strategica, come detto poco prima.

Ricerche recenti hanno infatti confermato che le risorse di gas nel mediterraneo sono ingenti e alla Siria tocca una bella fetta. Rovesciare Assad quindi vuol significare poter mettere le mani su un “tesoro” che fino ad oggi è rimasto in gran parte inesplorato.
Se c’è inoltre uno stato che guarda con un occhio malevolo il tutto è il Katar, concorrente regionale per il gas con una riserva che è ritenuta la terza su scala mondiale (Qatar Morth Dome con 900 miliardi di metri cubi).

Tra l’altro, anche il trasporto del gas in Europa è una priorità per i produttori mediorientali, ed in questo vi sono progetti contrapposti in merito. Qualche anno fa la Turchia cercò di negoziare invano con i sauditi la costruzione di un gasdotto che sarebbe passato proprio sul territorio di quest’ultimi per poi agganciarsi al Nabucco (infrastruttura di marca statunitense che ha lo scopo di portare il gas centroasiatico verso il Mediterraneo e poi, da lì, in tutta Europa, col fine di sganciare il vecchio continente dall’orbita russa e dai suoi programmi energetici antagonisti e cioè il Southstream e il Northstream).

Il rifiuto dei sauditi a tale progetto ha complicato i piani, e allora si sarebbe dovuto optare per una soluzione di ripiego che avrebbe previsto il passaggio del gasdotto non solo in Giordania e Irak, ma anche in Siria, fino alla Turchia snodo finale delle forniture qatariote. Ecco che Turchia e Qatar, l’uno perchè aveva già accordi di fornitura con alcuni Stati europei, l’altro con la speranza di incrementare le proprie forniture, hanno avvertito la necessità di abbattere un “ostacolo” che sbarrava loro la strada per il compimento finale di tale progetto: la Siria di Assad. Subito pronta allora la propaganda occidentalista contro il giovane medico di Damasco, additato come sanguinario dittatore e grave pericolo per l’ordine internazionale. Campagne denigratorie, finanziamenti a ribelli anti-regime (Isis o Daesh) tutto per cercare di rovesciare il governo in carica siriano.
Certamente, la storia ce lo ricorda, il possesso di grandi quantità di risorse di gas, come nel caso della Siria, al di là di ogni valutazione indubbiamente positiva, costituisce non poche volte una vera e propria dannazione.

La zarina Caterina II affermava che proprio cominciando dalla Siria si può “possedere la chiave di casa Russia”: l’allusione è anche all’opportunità di agganciarsi alla famosa via della seta della Cina. Assad, infatti, ben comprendendo il tutto, si era affrettato a concludere accordi per il trasporto del gas iraniano verso il Mediterraneo in modo da mettere fuori gioco i competitor del progetto Nabucco.

Il mosaico è realmente complesso: interessi economici, accaparramento di fonti energetiche, questioni religiose. Ogni tassello a sua volta è dotato di un’ulteriore complessità di valutazione.
Il mondo arabo rappresenta evidentemente un fondamentale campo di battaglia per tutti i motivi poc’anzi enunciati. Poco prona al richiamo della logica mondialista e globalista, una tale realtà resiste ancora imperterrita e ben salda nelle sue radici e nella sua cultura.
Le primavere arabe tra l’altro sarebbero servite appunto a questo: cercare d’imporre regimi facilmente manovrabili dalle potenze occidentali (USA in primis) e inoltre minare la convivenza pacifica tra le diverse confessioni religiose: sciiti, sunniti e cristiani.

Paese a maggioranza sunnita, ma con un presidente alawita, la Siria è reputata il centro del nazionalismo arabo non integralista. Gli alleati regionali del regime sono: Iran, Iraq, Libano e Palestina, che possiamo anche definire probabilmente come gli ultimi ostacoli da abbattere per la creazione di un nuovo ordine mediorientale disegnato da Israele e USA che hanno finanziato e utilizzato in tutti questi anni l’universo combattente wahhabita per favorirne la realizzazione.

Non solo quindi risorse energetiche. Penetrare nel Vicino Oriente vuol significare contrastare e in qualche modo provare ad arginare l’avanzata russa e cinese nello scacchiere internazionale.

Il 2014 è stato un anno segnato da eventi che avranno probabilmente importanti ripercussioni negli equilibri geopolitici mondiali: la crisi ucraina, il fenomeno ISIS, il “santo Graal” energetico cino-russo, le sanzioni al governo di Mosca e l’attacco speculativo al rublo.

Non solo questo però. E’ di questi giorni infatti la notizia che lo scorso 4 dicembre la Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti con 410 voti a favore e 10 contrari ha approvato una risoluzione che sostanzialmente concede al Presidente, in caso di necessità, senza alcuna autorizzazione da parte dell’organo legislativo, di usare ogni mezzo possibile, dalle sanzioni agli atti di guerra: è chiaro il riferimento in questo caso alla Russia. La stessa legge prevede inoltre un’ulteriore stanziamento di circa 350 milioni di dollari nella fornitura di armamenti all’esercito ucraino con la “speranza” da parte di Obama di poter fermare l’avanzata russa nell’Est nel Paese.
Mossa quanto mai rischiosa e pericolosissima quella degli USA.

Mosca nel frattempo, colpita dall’attacco speculativo al Rublo, è sempre più spinta tra le braccia dei cinesi, i quali tra l’altro hanno annunciato da poco l’inizio della convertibilità dello Yuan, seguita da un processo di de-dollarizzazione. Da fine mese infatti gli scambi fra Cina, Malesia, Russia e Nuova Zelanda potranno effettuarsi con le valute locali, senza alcun bisogno del dollaro.
Si prevede un 2015 carico di nuove tensioni e colpi di scena. Non resta semplicemente che augurare che possa essere un anno all’insegna del buon senso e del dialogo costruttivo. Ai posteri poi l’ardua sentenza.

Giuseppe Perrotta*

*Giuseppe Perrotta è laureato in Giurisprudenza presso l’Università del Sannio

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LA PORTE D’AFRIQUE. IL MAROCCO E L’UE

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Nella visione geopolitico-economica dell’Unione europea il Marocco, Paese africano, mediterraneo e atlantico, è la Porte d’Afrique. Gli innumerevoli accordi bilaterali siglati dal Regno nordafricano retto dal monarca Muhammad VI offrono l’accesso ad un mercato che, nel complesso, si estende a più di cinquanta Stati, per un totale di oltre un miliardo di consumatori e con una produzione che copre circa il 60% dell’intero prodotto lordo mondiale. D’altro canto Rabat si muove in una dimensione multipolare e aperta a tutti quegli agenti internazionali in grado di garantire uno sviluppo economico, politico e sociale al Regno mettendo in evidenza una sempre più spiccata vocazione europea, realtà di riferimento. D’altronde, le carte geografiche ci dicono che i quattordici chilometri che separano Punta de Tarifa e Punta Cires costituiscono il punto di maggior vicinanza tra l’Europa e l’Africa. Qui, nel punto in cui le acque impetuose dell’Oceano Atlantico si mescolano con quelle tranquille e riparate del Mar Mediterraneo, il Marocco si protende verso la penisola iberica in un metaforico desiderio di incontro con il Vecchio Continente. E qui, secondo la mitologia classica, in corrispondenza della Rocca di Gibilterra e del Jebel Musa arrivò l’eroe Eracle in una delle sue dodici fatiche: giunto ai limiti estremi del mondo, separò i monti Calpe, in Spagna, e Abila, in Marocco a formare le due colonne oltre le quali era vietato il passaggio a tutti i mortali. Nell’antichità, oltre tale limite si figuravano terre ricche e fertili e se, ad esempio, Platone vi colloca Atlantide, la mitica isola ricca di argento e di metalli (Innanzi a quella foce stretta che si chiama colonne d’Ercole, c’era un’isola. E quest’isola era più grande della Libia e dell’Asia insieme, e da essa si poteva passare ad altre isole e da queste alla terraferma di fronte (1)) nei giorni economici della modernità l’Unione europea vi colloca la possibilità di aprirsi a nuovi, ricchi e prosperi mercati.

La strategia UE è chiara: fare in modo che quello che Eracle divise torni ad unirsi, che Abila e Calpe si avvicinino e con loro le due sponde del Mediterraneo in modo da creare una grande area di libero scambio commerciale. Leader regionale nell’Indice Mondiale della libertà economica stilato dalla Heritage Foundation (2), con prodotto interno che ha fatto registrare una crescita negli ultimi anni, stimata al 4% per il 20153 e grazie alla sua stabilità politica è interlocutore privilegiato nell’area del Maghreb.

Divenuto indipendente da Parigi nel 1956, il Marocco di Re Muhammad V, riconosciuto nuovamente sovrano e richiamato dall’esilio nel 1957, manifestò una vocazione europea del suo Regno che pare estesa sino ad oggi: i dati del sondaggio Baromètre du voisinage de l’UE – Sud de la Méditerranée – Automne 2014 rivelano come i cittadini del Marocco abbiano un’immagine positiva dell’UE, pensino che le istituzioni comunitarie stiano muovendo nella giusta direzione e considerino l’Europa unita quale partner fondamentale per lo sviluppo del Regno. Per i primi passi concreti nelle prime relazioni tra Rabat e i prodromi delle istituzioni europee comunitarie bisogna attendere la fine degli anni ’60: è del 1969 la firma di un primo accordo di Associazione bilaterale della durata di un quinquennio, rinnovato, poi, nel 1976 da un’intesa sulla cooperazione stipulata nell’ambito della Politica Mediterranea della CEE avviata nel 1972.

Alla morte di Muhammed V sul trono del Regno succede il figlio Hassan II che, nel 1987, incoraggiato dalle politiche di allargamento della CEE e dalle prospettive di una integrazione con l’Europa, si spinge sino ad avanzare una formale richiesta di adesione alla comunità economica continentale. Questo è stato senza dubbio ha più simbolica che altro: il Re, pur essendo a conoscenza dalle informative elaborate dai propri diplomatici che non si presentava alcuna possibilità di ammissione, perseverò con la richiesta per dare un chiaro segnale al continente africano che il futuro del Marocco era destinato a orientarsi altrove se non si fosse risolta la questione relativa alla sovranità delle province del Sahara marocchino.

Il processo di avvicinamento tra le due sponde del Mediterraneo riprende con rinnovata enfasi nel novembre del 1995 quando le relazioni tra l’UE e il Marocco si inquadrano all’interno della cornice di quello che è noto come Processo di Barcellona o Partenariato Euromediterraneo, nome che indica la strategia europea adottata in relazione alla regione mediterranea. Gli obiettivi delineati a Barcellona afferiscono alla sfera politica (creare stabilità e sicurezza nella regione), economica (favorire lo sviluppo e la crescita con l’obiettivo nel medio-lungo periodo di istituire una zona di libero scambio) e culturale. Gli accordi bilaterali firmati nell’ambito del partenariato hanno reso il Marocco il principale interlocutore dell’Europa unita sulla sponda meridionale del Mar Mediterraneo.
Firmato il 26 dicembre 1996 ed entrato in vigore il 1° marzo 2000, l’Accordo di Associazione tra Unione europea e Marocco ne regola le relazioni commerciali oltre a definire in modo dettagliato le aree specifiche all’interno delle quali le linee guida elaborate nel processo di Barcellona possano essere sviluppate bilateralmente al fine di delineare una road map avente l’obiettivo finale di istituire un’area di libero scambio modellata sull’esempio comunitario e capace di unire nel concreto le due sponde del Mediterraneo già entro il 2012. Le disposizioni dell’Accordo si applicano ai prodotti industriali importati dall’UE in Marocco, ad esclusione di una lista di prodotti che continuano ad essere sottoposti al pagamento dei dazi e delle tasse previsti dal regime di diritto comune; prodotti industriali importati dal Marocco nell’UE; alcuni prodotti agricoli trasformati importati dall’UE in Marocco e viceversa; alcuni prodotti agricoli importati dall’UE in Marocco e viceversa; alcuni prodotti agricoli e della pesca importati dal Marocco nell’UE.

Dopo aver firmato nel luglio del 2005 un piano di azione condiviso nell’ambito della Politica Europea di Vicinato, nel 2008, in seguito alle riforme politiche, sociali ed economiche, il Marocco è diventato il primo Paese della regione ad ottenere lo status avanzato nelle relazioni con Bruxelles, primo passo concreto di quel processo di allargamento del soft power dell’UE che Romano Prodi nel 2002, quale Presidente della Commissione Europea, esaltò nel voler vedere un “cerchio di amici” circondare l’Unione e i suoi vicini più immediati, dal Marocco alla Russia e al Mar Nero. Il cerchio di amici sarà composto da paesi molto diversi e il tipo di relazioni dell’Unione con i rispettivi paesi dipenderà in gran parte dalle loro performance politiche e dalla loro volontà politica. Naturalmente, anche la geografia farà la sua parte. E’ compito della Commissione pensare a come migliorare i rapporti con tutti questi Paesi (4).

L’allora ministro degli Affari Esteri marocchino, adesso consigliare personale del Re, Taieb Fassi Fihri nel commentare lo storico evento riprese il concetto espresso dall’ex premier italiano: noi rispondiamo in concreto alla definizione di Prodi: “tutto tranne le istituzioni”. Noi siamo vicini a raggiungere il “tutto”. Questo impegno europeo sullo stato avanzato è, prima di tutto, una testimonianza di una fiducia nello sforzo del Marocco in termini di riforme politiche, di consolidamento dello Stato di diritto, di una giustizia migliore, di riforme economiche, di coesione sociale e di lotta contro la povertà.(5) Sua Maestà, Muhammed VI, spronò tutti gli attori nazionali a “mettere in comune i loro sforzi al fine di assicurare la messa in opera al livello previsto per aumentare le sfide inerenti questo Statuto, mettendo a profitto tutte le opportunità che offre in tutti i campo”.

L’obiettivo rimane il raggiungimento dell’accordo di libero scambio completo e approfondito (DCFTA, in inglese, ALECA in francese), un mercato di oltre 150 milioni di persone rilanciato nel 2013 e comprendente oltre a UE e Marocco anche Egitto, Giordania e Tunisia. Questo allargherebbe alla sponda europea del Mediterraneo l’Accordo di Agadir, siglato nel febbraio del 2004 e considerato a più voci come il primo e decisivo passo nella creazione di quell’Area Euro-Mediterranea di Libero Scambio prevista dal Processo di Barcellona: nella città marocchina, i rappresentanti di Rabat, Amman, Tunisi e Il Cairo hanno apposto le proprie firme su un documento che toglie le barriere non tariffarie al fine di creare una graduale zona di libero scambio con esenzione dai dazi doganali sul modello comunitario del Vecchio Continente.

Il 2013 è un anno di grande attivismo diplomatico sul fronte delle relazioni tra UE e Marocco: il 7 giugno è raggiunta un’intesa per un Partenariato per la mobilità per la gestione ed il controllo dei flussi migratori verso le sponde europee del Mar Mediterraneo (6) mentre il 16 dicembre viene stato varato un piano di azione quadriennale che mette a disposizione del Regno del Marocco aiuti economici per un ammontare di circa duecento milioni annui. assistenza economica dell’UE nei confronti del partner nordafricano si è dispiegata nel corso di quattro fasi: nell’arco temporale 1976-1995 sono stati siglati quattro successivi protocolli finanziari; nel 1996 il Marocco è stato inserito nel programma MEDA I che, nel complesso ha elargito 3.4 miliardi di euro ai Paesi terzi mediterranei; nel 2000 si è passati all’attuazione del MEDA II mentre dal 2007 Rabat usufruisce delle risorse elargite dallo strumento europeo di vicinato e partenariato che contribuirà all’attuazione dell’accordo Euromediterraneo grazie all’elaborazione e all’adozione di misure concrete, concordate tra le parti. Il piano d’azione UE-Marocco nel quadro della Politica Europea di Vicinato (PEV) persegue il duplice scopo di fissare misure concrete affinché le parti possano adempiere gli obblighi derivanti dagli accordi già stipulati e definire un quadro più ampio entro cui intensificare le relazioni UE-Marocco, al fine di raggiungere un livello di integrazione economica più elevato e di approfondire la cooperazione politica, conformemente agli intenti generali dell’intesa. Intanto, al fine di favorire la penetrazione e la competitività dei prodotti europei sul mercato africano e di arginare, così, la concorrenza delle merci asiatiche, sono stati liberalizzati gli scambi industriali oltre che agricoli e dei prodotti derivanti dalle attività legate alla pesca con un risparmio sulle imposte doganali di circa 33.000.000 di euro l’anno.

Ad inizio 2015 è stato siglato un accordo riguardante la tutela dei prodotti IG, soprattutto agricoli, denominazione che identifica un prodotto legato ad un territorio determinato ed usata come strumento di commercializzazione allo scopo di certificare la qualità di un prodotto, evidenziare l’identità di una marca e preservare le tradizioni culturali.

Di importanza strategica è il partenariato nel settore della pesca. Siglato a Rabat il 24 luglio 2013, approvato dal Parlamento Europeo il 10 dicembre 2013 con 310 sì, 204 voti contrari e 49 astenuti e ratificato nel luglio dello scorso anno dal Marocco, visto dall’ottica di Rabat il nuovo protocollo sulla pesca si può considerare come un successo diplomatico e negoziale considerato che assicura al Regno un reddito di 40 milioni di euro l’anno da destinare allo sviluppo del settore in cambio della possibilità di sfruttamento delle acque. L’accordo si applica ai territori posti sotto la sovranità o la giurisdizione di Rabat, formula che con cui l’UE risolve l’impasse relativa all’annosa controversia sulle province del Sahara marocchino reclamate dal Fronte Polisario.

Nonostante lo status di questi territori sia ancora al centro di un controversia internazionale irrisolta e che si trascina dagli anni settanta, il Governo marocchino ha varato un piano di sviluppo destinato a queste difficili zone di deserto che vada oltre le contese di sovranità (siamo tutti fratelli. Io sono saharawi, ho combattuto a Tantan contro i francesi così come la famiglia del Presidente del Fronte Polisario. Il Marocco è il nostro Paese, siamo un Regno stabile, ci interessa lo sviluppo umano e offrire lavoro ai cittadini. Le altre questioni vengono dopo (7)) volto a incrementare il settore della produzione ittica e il suo indotto, puntando fortemente sullo sviluppo delle infrastrutture portuali e marittime. Sono stati progettati lavori per ammodernamento e ampliamento dei porti El-Marsa (letteralmente “il porto”) e Tarfaya (8).

Completato a metà degli anni ottanta portando a termine i lavori iniziati dalle autorità coloniali spagnole che hanno amministravano la regione sino al 1975, e posizionato a 25 km della città di Laâyoune, il porto commerciale di El-Marsa è diventato un mezzo di sviluppo sostenibile per l’intera cittadina. La baia è stata allargata ed è stata costruita una zona in acque profonde che permette, al contempo, il traffico di merci e le attività inerenti la pesca. Questo porto ha la capacità di veicolare fino a 2 milioni di tonnellate di merce annualmente: “questo è lo scalo principale per movimentare merci e prodotti ittici. Si pensi che da qui transitano circa 300.000 tonnellate di pesce l’anno, soprattutto polpi e sardine, con un giro di affari di 900.000.000 di dirham (90.000.000 di euro). Oltre alle unità di produzione interne al porto, c’è una zona industriale legata a questa infrastruttura. La parte più esterna dello scalo è riservata alla movimentazione dei fosfati, quella più interna all’attracco dei pescherecci e delle barche dei pescatori artigianali. C’è la possibilità di far attraccare circa 450 barche di medie dimensioni e circa 12.000 piccole imbarcazioni. Un altro molo è riservato ad altre attività come la produzione di farina di pesce e i prodotti congelati da destinare al mercato estero. El – Marsa dispone di tutte le certificazioni internazionali di sicurezza e di qualità e occupa circa 12.000 persone” (9).

Il Presidente del Comune Urbano di El Marsa, Badr El Moussaoui, spiega come la cittadina che appartiene alla provincia di Laayoune e alla regione economica di Laâyoune-Boujdour-Sakia El Hamra viva di attività legate alla filiera del pesce e come le infrastrutture moderne di cui si è dotata la città permettano di rimanere a vivere nelle zone in cui siamo cresciuti, ci tengono vicini. Gli introiti derivanti dalle attività portuali consentono al Comune di sviluppare il tessuto urbano mentre le prospettive di sviluppo attraggono investimenti, locali e stranieri (10).

Il wali, rappresentante del Re, della regione, Yahdih Bouchaabi, saharawi, rappresentante del Polisario a Parigi fino agli anni ’70 per poi tornare al servizio del Regno come Ambasciatore del Marocco in Svezia e in Norvegia, spiega come2 il piano di sviluppo per le regioni del Sahara marocchino sia l’unica soluzione credibile, realistica e concreta per risolvere la questione e, al contempo, attuare uno sviluppo sostenibile della regione. Il Governo è aperto agli investimenti esteri, soprattutto europei visto che l’UE è il nostro partner commerciale privilegiato e io in prima persona, in nome del Re Muhammad VI, sono disponibile ad aiutare chiunque voglia portare ricchezza nel Sud del Marocco. La regione, così come tutto il Marocco, è accogliente per gli investitori, locali e stranieri” (11).

Centotrenta chilometri a nord del porto di Laayoune, troviamo lo scalo di Tarfaya, cittadina nota per aver ospitato Antoine de Saint-Exupery, autore de Il Piccolo Principe. Anche qui, sfruttando le risorse provenienti da Rabat, le autorità locali e regionali stanno progettando un progressivo allargamento dello scalo portuale: “i lavori stanno andando avanti secondo i tempi previsti. Tarfaya ha intenzione di mettersi al pari delle altre province marocchine. La città avrà un porto turistico internazionale e contatti con le compagnie che servono la tratta con le Canarie sono già stati avviati. Per quanto riguarda il porto commerciale, invece, sono previsti l’ampliamento delle zone di attracco delle imbarcazioni e lavori per aumentare la profondità delle acque di ingresso al porto. Tarfaya diventerà una porta aperta verso l’Europa e viceversa” (12).

Il Marocco occupa una posizione strategica, un hub capace di servire Africa, Europa e Stati Uniti, aprendo opportunità di investimento su mercati nuovi e consolidati e, in quest’ottica, di notevole rilevanza strategica sono le scelte operate da Rabat nella geopolitica dei trasporti (13). Se gli scali di El-Marsa e Tarfaya sono orientati ad uno sviluppo sempre più crescente delle provincie del Sahara marocchino, a livello internazionale, invece, si impone l’infrastruttura Tangeri Med. Dove Calpe guarda Abila, a 14 km dalle coste spagnole, collocazione strategica sulla via di passaggio tra Asia, Europa, Nord America e Sud America, si sviluppa questo scalo marittimo circondato da una zona franca di attività industriali e logistiche. Grazie a questa posizione strategica, è divenuto una piattaforma logistica di vari porti europei, basandosi sul funzionamento della produzione just in time: in meno di 24 ore, una commessa può lasciare il nord del Marocco e raggiungere il porto di Barcellona o di Marsiglia oppure in 48 raggiungere le coste francesi. Il porto è situato sulla seconda via marittima più frequentata al mondo, lo stretto di Gibilterra da dove transitano più di centomila imbarcazioni l’anno ed ha nel trasbordo di container la sua attività principale.

I rapporti tra UE e Marocco, quindi, diventano sempre più saldi: il Marocco è strategico nella visione di Bruxelles in cerca di stabilità e opportunità nel Nordafrica e, vantaggio della posizione geografica, rappresenta la migliore piattaforma di distribuzione dei prodotti destinati ai diversi mercati; dall’altra parte gli Europei rimangono uno dei partner privilegiati di un Regno che comincia a muoversi in una dimensione multipolare che guarda con interesse anche a Cina, Russia e Stati Uniti oltre che al proprio continente di appartenenza. In Marocco la spinta centripeta attrae interessi e capitali mentre le due sponde del Mediterraneo tendono ad avvicinarsi. Calpe e Abyla, le antiche colonne di Ercole si cercano mentre il Mediterraneo anela il suo mercato unico.

Andrea Turi

NOTE
1) Platone, Timeo, Capitolo III. Nel 1803, la mappa congetturale di Bory de Saint-Vincent la posiziona davanti alle coste marocchine.
2) Il Marocco si colloca all’89° posto a livello mondiale, all’8° a livello continentale. http://www.maroc.ma/fr/actualites/le-maroc-gagne-14-places-dans-lindice-de-liberte-economique
3) http://www.ehijournal.it/articoli/economiamondo/marocco-finanza-in-chiave-africana
4) http://europa.eu/rapid/press-release_SPEECH-02-619_it.htm
5) Le Maroc obtient le “statut avancè” auprès de L’UE, L’Express.
6) Fimatari UE, Marocco, Francia, Spagna, Italia, Belgio, Germania, Olanda, Portogallo, Gran Bretagna e Svezia.
7) Conversazione privata con il Governatore di Tarfaya.
8) Un terzo sorgerà a Boujdour ma è ancora in costruzione.
9) Conversazione con le autoità portuali di El-Marsa.
10) Conversazione con le autorità comunali di El-Marsa.
11) Conversazione con Yachid Bouchaab.
12) Conversazione con il pacha di Tarfaya.
13) Oltre ai porti che servono le vie marittime, per le regione sahariane di rilevante importanza è l’aeroporto internazionale Hassan I di Laayoune: inaugurato nel 1985 dal Re Hassan II, questo scalo aeroportuale è una arteria vitale, risorsa e ricchezza per la regione, oltre ai voli regionali che legano la città di Laâyoune a tutte le altre città marocchine, i viaggiatori possono prendere anche dei voli diretti verso le Isole Canarie.

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G. A. ZJUGANOV, STATO E POTENZA, A CURA DI M. MONTANARI, EDIZIONI ALL’INSEGNA DEL VELTRO, PARMA 1999

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Nella convulsa fase della storia russa compresa tra l’inizio della perestrojka gorbacioviana e l’accordo di Belaveža del 8 dicembre 1991 si verificò sul piano storico-geopolitico la dissoluzione dell’ultima metamorfosi dell’impero multietnico eurasiatico guidato dalla Russia: quello sorto dalla Rivoluzione d’Ottobre e consolidatosi nell’URSS. Cause endogene ed esogene della dissoluzione del sistema federato dell’Unione sovietica imposero una revisione ideologica, politica e storiografica sulla storia dell’esperienza socialista, sull’identità del PCUS, e sul destino di entrambe. Già dagli inizi della Rivoluzione d’Ottobre tra le file dei suoi protagonisti era iniziata una revisione storica ed ideologica sulla stessa impresa storica bolscevica. Con il trotzkismo e l’ala radicale più internazionalista in seno al partito comunista tale revisione assunse i toni antipatriottici ostili alle sfide che si imponevano alla pars construens del movimento rivoluzionario in Russia al punto che, come sostiene acutamente Domenico Losurdo: «il motivo della rivoluzione tradita accompagna come un’ombra la storia iniziata con l’ascesa al potere dei bolscevichi». (1) Negli anni 90’ la Russia conobbe in seno al suo Partito Comunista l’esigenza di una revisione della storia russa in senso opposto alla litania funebre cantata dal trotzkismo prima e dagli ambienti liberali ed occidentalisti dell’era eltsiniana poi. Tra i protagonisti di questa reazione allo smantellamento dell’eredità storica e geopolitica sovietica, Gennadij Andreevič Zjuganov rappresentò certamente una posizione eminente.

Andrea Panaccione nella sua postfazione all’edizione italiana dell’opera Stalin sconosciuto (2004) dei fratelli Medvedev, rilevava: «già nell’opera del 1994, Deržava (trad. it. G. A. Zjuganov, Stato e potenza, a cura di M. Montanari, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999) l’esperienza dell’Unione Sovietica, dopo il trauma della rivoluzione e della guerra civile, veniva letta come lo scontro tra un principio di costruzione della potenza statale e nazionale e un principio rivoluzionario-avventuristico di carattere internazionalistico e “cosmopolitico”. La piena ascrizione di Stalin alla prima tendenza può essere considerata compiuta con la pubblicazione del saggio di Zjuganov Stroitel’ deržavy [Il costruttore di potenza] Nas sovremennik, n. 6, 2005, pp. 170-187, secondo il quale la visione geopolitica di Stalin, sintesi della visione imperiale (l’autosufficienza dello stato) e di quella panslavista (il “Grande spazio slavo”) avrebbe prodotto tra il 1944 e il 1953 “un cambiamento dell’ideologia di stato” e la piena affermazione dell’”ideologia del patriottismo”». (2)

Il trapasso del marxismo dalla riflessione sul piano sociologico classista al piano geopolitico interstatale costituisce uno dei cardini della revisione ideologica zjuganoviana fondata sulla rilettura dello Stalin teorico e protagonista storico del State building sovietico. Come ha riconosciuto lo stesso Žores Medvedev, i successori di Stalin non aggiunsero nulla all’edificio statale sovietico eretto nella trentennale esperienza politica del georgiano, lungimirante nella scelta di tutelare l’URSS dai rischi di forze centrifughe con un forte potere centrale.(3) La rappresentazione dei due orientamenti delineati da Panaccione trova un preciso riferimento nella ricostruzione storica proposta da Zjuganov dei “due partiti” in lotta durante il periodo sovietico. Da un lato egli individuava un partito «del nostro Paese» che combatteva per la formazione di un unico fronte patriottico, abbandonando il frazionismo classista per la creazione di stabili condizioni economico-politiche. Dall’altro, stava un «partito di “questo Paese”» (4) che riduceva le vittorie bolsceviche ad un mero successo tattico entro una più ampia strategia internazionalista orientata a sacrificare la patria «sull’altare di Moloch della rivoluzione mondiale».(5) La valorizzazione dell’«eredità culturale presovietica» (6) da parte del PCFR (Kommunistìčeskaja Pàrtija Rossìjskoj Federàcii, 1993) guidato da Zjuganov, e saldamente configuratosi dal 1996 ad oggi come secondo partito della Federazione Russa, poggia sulla rivendicazione di un autonomo spazio storico-culturale della civiltà russa entro una prospettiva geopoliticamente fondata sul suo secolare carattere plurietnico e plurireligioso. Il recupero di una coscienza geopolitica quale condizione per lo sviluppo sociale ed economico indipendente dello spazio post-sovietico costituisce un caposaldo dell’orientamento zjuganoviano: «l’impero è la forma di sviluppo dello stato russo storicamente e geopoliticamente obbligata». (7) Ben lungi dal rappresentare un programma anacronistico, il riconoscimento di una dimensione imperiale per la configurazione giuridico-territoriale della civiltà russa costituisce da un lato un momento strategicamente decisivo per le sfide poste dall’attuale sistema internazionale nella fase di decomposizione dell’unipolarismo, dall’altro una risposta adeguata alla teoria geopolitica classica anglosassone, che già agli inizi del XX secolo elaborò la sua strategia di contenimento dello spazio eurasiatico. L’idea di una continuità geopolitica nella discontinuità ideologica di tale spazio politico era stata già polemicamente espressa da Sir Halford Mackinder: «la nostra vecchia concezione inglese di federazione di comuni e comunità, la concezione americana di federazione di stati e provincie, e il nuovo ideale della Lega delle Nazioni sono tutti loro opposti alle caste politiche nelle formazioni tiranniche dell’est Europa e dell’Heartland, siano esse dinastiche o bolsceviche. […] Contro quest’aquila a due teste del potere continentale gli occidentali e gli isolani devono lottare». (8)

La strategia del PCFR vede dunque arricchita la sua strategia ed il suo programma di sviluppo per la Federazione Russa con l’apporto di un paradigma geopolitico classico rovesciato rispetto all’orientamento mackinderiano.
L’idea di una ricostituzione dell’Unione su una «nuova base volontaria» (9) a partire dall’intimo legame storico-culturale «dei Grandi-russi, dei Piccolorussi e dei Bielorussi», (10) converge con il programma dell’Unione Economica Eurasiatica (ufficializzata dal 1 gennaio di quest’anno) e con la prassi della politica estera del partito in carica “Russia Unita”, come riconosciuto esplicitamente da Zjuganov in una recente intervista concessa all’emittente russa “LifeNews”.(11) Marcatamente geopolitico, infatti, era l’orientamento perorato dal leader del PCFR nel suo saggio Deržava, in cui propugnava di elevare la Russia a principale soggetto storico in grado di esercitare un’«opposizione alla monopolizzazione della geopolitica» (12) perseguita dal blocco BAO. (13) L’originalità della proposta zjuganoviana è attestata dalla convergenza della lettura geopolitica delle relazioni internazionali del tardo stalinismo, con la linea di pensiero della scuola eurasiatista, che avrebbe visto il filosofo Aleksandr Dugin impegnato nella collaborazione diretta alla stesura del saggio qui presentato. (14)

L’interesse mostrato per la costruzione di solide relazioni interstatali come quelle della Federazione Russa con la Repubblica Popolare Cinese, progetto oggi decollato più che mai con la creazione del gasdotto “Power of Siberia” nel quadro degli storici accordi sino-russi di approvvigionamento energetico trentennale e di incremento delle relazioni commerciali in rubli-yuan, si colloca in una visione geopolitica complessiva nota ad alcuni analisti occidentali come «dottrina Primakov». (15) Il consolidamento di un tale blocco continentale all’interno delle relazioni internazionali del XXI secolo costituirebbe l’evoluzione di quell’«erede storico e geopolitico dell’Impero Russo» (16) smantellato da Eltsin, e rifondato su nuove basi con la politica “continentalista” già impostata dal presidente kazako Nursultan Nazarbayev negli anni 90’ e perorata dal presidente russo Vladimir Putin.

All’interno della presente raccolta di saggi degli anni 90’, il leader del PCFR individuava alcuni fattori disgreganti ed ostativi alla formazione di una coscienza patriottica in grado di consolidare l’unificazione dello spazio eurasiatico. Oggi la presenza di questi elementi di disunione strumentalizzati da forze apertamente ostili ad una simile integrazione economica, culturale e geopolitica sullo “scacchiere eurasiatico” attesta la preveggenza e la lucidità dell’analisi zjuganoviana. In primo luogo la disgregazione dello stato russo ha determinato la rottura della sua tradizionale continuità geopolitica, con i conseguenti appelli occidentalisti alla “derussificazione” e alla frammentazione nazionalistica della complessa entità plurinazionale della Russia federata. (17) In secondo luogo la propaganda piccolo-nazionalista ha ostacolato l’unificazione dei popoli fratelli (18) e creato quindi le condizioni per l’appello internazionale alla legittimazione formale di una congerie di rivendicazioni separatiste. In terzo luogo l’incitamento alla russofobia ha assunto direttrici ideologiche e mediatiche eterogenee (dal radical-liberalismo dei diritti civili al neo-banderismo ucraino) ma convergenti nella loro comune matrice occidentalista. Infine, all’«aggressione spirituale» (19) alle basi della cultura tradizionale e religiosa russa si è aggiunta una silenziosa aggressione psicologica allo stato russo concertata dai soci più aggressivi dell’alleanza atlantica, che minacciano la sua politica di sicurezza con una politica estensiva verso est.
Ben lungi dal costituire un mero revival neo-sovietico, i contributi di Zjuganov indicano, all’interno di una prospettiva complessiva di “cambio delle pietre miliari della storia” del Partito Comunista, soluzioni geopolitiche e valoriali da seguire mediante un appello alla «lezione della continuità storica»,(20) fondamentale per la palingenesi della stato e della società russa nell’attuale fase delle relazioni internazionali.

Davide Ragnolini

 

NOTE
1) D. LOSURDO, Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, Carocci, Roma 2008, p. 48.
2) A. PANACCIONE, Stalin e i suoi interpreti: un percorso di letture, postfazione a ROJ A. MEDVEDEV – ŽORES MEDVEDEV, Stalin sconosciuto. Alla luce degli archivi segreti sovietici, Feltrinelli, Milano 2006, p. 389.
3) Ivi, p. 294.
4) G.A. ZJUGANOV, Stato e potenza, a cura di M. Montanari, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1999, p. 104.
5) Ivi, p. 168.
6) A. FAIS, L’idea geopolitica dei comunisti russi, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, 7 marzo 2013, http://www.eurasia-rivista.org/lidea-geopolitica-dei-comunisti-russi/18823/.
7) Ivi, p. 51.
8) H.J. MACKINDER, Democratic ideals and reality, National Defense University Press, Washington 1996, p. 144.
9) G.A. ZJUGANOV, Stato e potenza, op. cit., p. 118.
10) Ivi, p. 106.
11) Zjuganov commenta l’anno che è appena trascorso, “Associazione Marx XXI”, 9 gennaio 2015, http://www.marx21.it/comunisti-oggi/nel-mondo/24963-zyuganov-commenta-gli-avvenimenti-dellanno-che-e-trascorso.html#.
12) G.A. ZJUGANOV, Stato e potenza, op. cit., p. 62.
13) Sulla categoria geopolitica designata dall’acronico “BAO” si confronti la voce all’interno del glossario del sito di analisi strategica belga “Dedefensa”: http://www.dedefensa.org/article-glossairedde_bloc_bao_10_12_2012.html.
14) M. MONTANARI, Il rosso e il nero: Zjuganov tra i nazisti e Huntington, “Limes” n. 4/1998, p. 163.
15) Un breve panorama della strade percorribili dalla politica estera da un punto di vista euratlantista è offerto da C. JEAN, Prospettive geopolitiche della Russia, in ID., Geopolitica del caos. Attualità e prospettive, Franco Angeli, Milano 2007, pp. 154-169.
16) G.A. ZJUGANOV, Stato e potenza, op. cit., p. 95.
17) Ivi, p. 65.
18) Ivi, p. 66.
19) Ivi, p. 68.
20) Ivi, p. 79.

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VASILE LOVINESCU, GEOGRAFIA SACRĂ ŞI IDEEA DE IMPERIU

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Singurul scriitor român citat de Jean Parvulesco printre cei treizeci şi şase care, cum ne declară el însuşi, “ont le plus compté pour [lui et] ont souterrainement nourri [son] oeuvre” (1), adică “au contat cel mai mult pentru [el şi] au nutrit subteran opera [sa]”, este Vasile Lovinescu.

Vasile Lovinescu se naşte pe 17 (30) decembrie 1905 la Fălticeni, în nordul Moldovei. “Tata, om de carte, călător impenitent, care simţea Europa ca o singură ţară” (2), se trage dintr-o familie făcută ilustră de magistraţi şi ofiţeri, ca şi de intelectuali renumiţi, precum criticul literar Eugen Lovinescu (1881-1943); iar mama îşi are originea într-o ramură aristocratică transilvană. Unul dintre cei doi fraţi ai lui Vasile, Horia Lovinescu (1917-1983), a devenit celebru ca dramaturg; o verişoară, Monica Lovinescu (1923-2008), a fost jurnalistă şi critic literar la Paris.

După războiul european, adolescentul Vasile se mută cu părinţii la Bucureşti, unde îşi continuă studiile secundare la Liceul “Sfântul Sava”. Odată terminată Facultatea de Drept (în 1929), profesează avocatura, îndeplinind funcţia de avocat al municipiului Bucureşti şi, din 1942, de consilier juridic la Uzinele Siderurgice din Reşiţa. Publică în diferite reviste (“Viaţa literară”, “Viaţa românească”, “Adevărul literar şi artistic”, “Credinţa”, “Familia”, “Azi”, “Vremea” etc.), arătând interes pentru folclorul românesc şi tradiţiile orientale.

Aflând, în 1932, de cartea lui René Guénon Le Roi du Monde (Regele lumii), începe cu autorul ei o corespondenţă epistolară care va dura din 1934 până la începutul anului 1940.

La sfatul lui Guénon, în martie 1936, Lovinescu se duce în Franţa şi în Elveţia pentru a obţine iniţierea în sufism şi este introdus de Frithjof Schuon în tariqah alawiyyah.
Întors la Bucureşti, începe să publice în revista franceză “Études Traditionnelles” seria de articole intitulată La Dacie hyperboréenne, semnată cu pseudonimul “Géticus”.

Acest lucru va avea răsunet doar cincizeci de ani mai târziu. Ediţia italiană îngrijită de mine în 1984 (apărută chiar în luna Iulie, când Vasile Lovinescu se stingea din viaţă) şi ediţia franceză din 1987 i-au dat posibilitatea lui Vintilă Horia să vorbească cu admiraţie despre Lovinescu în Spania, pe când în România academicianul Virgil Cândea a atras atenţia asupra imaginii Daciei arhaice realizate de Lovinescu şi de alţi intelectuali români.

În particular, ediţia franceză din 1987 a trezit interesul unor cercetători precum Charles Ridoux sau Paul Georges Sansonetti; acesta din urmă, elev al lui Henry Corbin şi Gilbert Durant, a ţinut la Sorbona un curs despre “Dacia hiperboreană”.

Prin studiul acesta, ce în România a văzut lumina tiparului doar în 1994, dar a apărut iniţial în limbă franceză în anii 1936-1937, Vasile Lovinescu a aplicat acele principii de simbolism istoric şi geografic pe care René Guénon le-a expus zece ani mai târziu, în 1945, în cartea Le règne de la quantité et les signes des temps (Domnia cantităţii şi semnele vremurilor).
“Or, există într-adevăr – scrie René Guénon în această carte – o ‘geografie sacră’ sau tradiţională, pe care modernii o ignoră la fel de total ca şi pe celelalte cunoştinţe de acelaşi gen; există, de asemenea, un simbolism geografic, ca şi un simbolism istoric, şi ceea ce le dă semnificaţia lor profundă este valoarea simbolică a lucrurilor, pentru că prin aceasta se stabileşte corespondenţa lor cu realităţi de ordin superior; dar, pentru a determina în mod efectiv această corespondenţă, trebuie să fii în stare, într-un fel sau altul, să percepi în lucrurile însele reflexul acestor realităţi. Astfel, există lucruri care sînt îndeosebi apte să slujească drept ‘suport’ pentru acţiunea ‘influenţelor spirituale’, şi pe acest fapt s-a întemeiat totdeauna stabilirea unor ‘centre’ tradiţionale, principale sau secundare, printre care ‘oracolele’ Antichităţii sau locurile de pelerinaj sînt exemplele exterioare cele mai evidente; există apoi alte locuri care nu sînt mai puţin favorabile manifestării unor ‘influenţe’ cu un caracter cu totul opus, aparţinînd celor mai joase regiuni ale domeniului subtil” (3).

În La Dacie hyperboréenne Vasile Lovinescu spune de la început că migraţia popoarelor hiperboreene dinspre nordul Eurasiei spre sud a fost un fel de pelerinaj, “o migraţie sacră, cu ai săi sacerdoţi-regi, purtând din etapă în etapă, fără nici o improvizaţie şi după o ştiinţă geografică precisă, ‘penaţii’ săi, altarele sale, suporturile sale spirituale” (4).

Această migraţie, declară el, nu trebuie să ne intereseze din punctul de vedere al istoriei profane, ci din cel al simbolismului.
Iar simbolismul migraţiei hiperboreene se leagă – continuă el, folosindu-se de o terminologie hindusă şi de sintagme guénoniene – de manifestarea lui Prakriti, adică a substanţei primordiale. De fapt, etapele migraţiei hiperboreene corespund cu fazele lui Prakriti: fazei iniţiale de indistincţie polară îi urmează ruptura de echilibru a celor trei gunas (adică a celor trei condiţii ale existenţei universale, condiţii la care sunt supuse toate fiinţele manifestate), ruptură impusă de necesara manifestare a posibilităţilor totale ale ciclului; urmează apoi o coborâre “tamasică” de la nord spre sud, întreruptă uneori de etape şi de proiecţii “rajasice” la est şi vest.

Cele două extreme ale acestei coborâri sunt Polul Nord şi Grecia; adică, itinerariul migraţiei hiperboreene este verticala Nord-Sud care leagă aceste două puncte.
Coborând pe această verticală, migraţia hiperboreană a întâlnit paralela 45°, la jumătatea distanţei dintre Pol şi Ecuator; aici migraţia s-a bifurcat în ramuri orizontale, pe când o altă parte din ea a urmat verticala până în Grecia. “Şi crucea – scrie Lovinescu – a fost astfel desăvârşită” (5).

El mai observă că, dacă verticala se prelungeşte, ea traversează Egiptul, Etiopia şi ţara lui Kush, încât, scrie, “dacă ar mai fi încă o geografie sacră tradiţională, acesta ar fi primul Meridian” (6).

Ubicată în centrul ideal al crucii descrise de migraţiunea hiperboreană, Dacia ocupă o poziţie eminent crucială. “Geografia Daciei – scrie Lovinescu – (…) este dominată de o realitate centrală: podişul Transilvaniei, încercuit de lanţul Carpaţilor şi de Munţii Apuseni, cei mai sălbatici şi cei mai nepătrunşi din Europa. În jurul acestei formidabile cetăţi naturale, sunt întinsele câmpii ale Nistrului, ale Tisei şi ale Dunării. (…) De la Rin şi Alpi până la marele zid chinezesc, indefinitul domneşte stăpân: pământuri nemărginite, ţinuturi care încep nu se ştie unde şi sfârşesc nu se ştie unde. În acest ocean de posibilităţi, Dacia este singura ţară caracteristică, definită, formând o unitate geografică” (7).

Dacă cineva ar obiecta că reprezentarea geografică lovinesciană este una fantezistă, Mircea Eliade i-ar răspunde că aici “nous sommes en présence d’une géographie sacrée et mythique, seule effectivement réelle, et non pas d’une géographie profane, ‘objective’, en quelque sorte abstraite et non essentielle” (8); adică: “noi suntem în prezenţa unei geografii sacre şi mitice, singura efectiv reală, nu a unei geografii profane, ‘obiective’, într-un anumit fel abstracte şi neesenţiale”.

Dar nu este vorba numai de “geografia sacră şi mitică” a lui Lovinescu. Dacă analizăm datele provenite de la ceea ce Eliade cheamă “geografie obiectivă”, putem observa uşor acei factori naturali şi culturali care, în decursul istoriei, au determinat caracterul “central” al spaţiului românesc.

Principalele elemente naturale ale geografiei române sunt Munţii Carpaţi, Dunărea şi Marea Neagră. Carpaţii, Corona montium, închid într-un inel Transilvania, care, în perspectiva geopoliticienilor români, reprezintă pentru România acel Kernland (“ţinutul sâmbure”) şi acel Mittelpunkt (“punctul central”) de care vorbesc respectiv Rudolf Kjellén şi Friedrich Ratzel.

Factorii culturali caracteristici sunt identitatea neolatină, prin care poporul român aparţine unei familii lingvistice care din Europa a ajuns până la America Centrală şi Meridională, şi confesiunea ortodoxă, prin care România face parte dintr-o arie cu dimensiuni euroasiatice, care se întinde de la Belgrad până la Vladivostok. Simultana apartenenţă la familia neolatină şi la familia ortodoxă face din România un punct de junctură între Apusul european şi Orientul creştin.

Centralitatea României iese ulterior în relief dacă considerăm că Transilvania este o regiune mediană din mai multe perspective. Această regiune, care, după bătălia de la Mohács, a jucat rolul de Stat cuzinet între imperiul habsburgic şi imperiul otoman, din perspectiva lingvistică este zona spre care s-au îndreptat sectoarele neolatin, germanic şi ugrofinic, pe când din perspectiva confesională ea a reprezintat punctul de convergenţă al ortodoxiei, al catolicismului şi al cultului protestant.

Încă o dată îl putem cita pe Mircea Eliade, care îi mărturisea lui Claude-Henri Rocquet: “Vous le savez, la culture roumaine constitue une sorte de ‚pont’ entre l’Occident et Byzance, d’une part, et, d’autre part, le monde slave, le monde oriental et le monde méditerranéen (…) Je me sentais le descendant et l’héritier d’une culture intéressante parce que située entre deux mondes: l’occidental, purement européen, et l’oriental. Occidental, par la langue, latine, et l’héritage de Rome, par les moeurs. Mais je participais aussi à une culture influencée par l’Orient et enracinée dans le néolithique” [Mă simţeam descendentul şi moştenitorul unei culturi interesante, deoarece e situată între două lumi: lumea occidentală, pur europeană, şi lumea orientală. Eu mă trăgeam deopotrivă din aceste două universuri. Cel occidental, prin limba latină şi prin moştenirea romană în obiceiuri. Dar mă trăgeam şi dintr-o cultură influenţată de Orient şi înrădăcinată în neolitic”] (8bis).

Într-adevăr, “sunt evidenţe geografice care se impun şi ca evidenţe spirituale” (9), notează Lovinescu în 1934, comentând o întâlnire între ziariştii români şi confraţii lor sârbi şi cehi. “Aruncaţi-vă ochii pe hartă – scrie cu această ocazie în paginile din “Vremea” – şi vi se va părea evident, limpede, fără discuţie, că în jurul acestei bătrâne Dunăre popoarele formează un bloc, un complex divers dar unitar lăuntric, o unitate care există latent, providenţial, şi pe care e de datoria noastră s-o scoatem din domeniul latenţelor, din blocul său de marmură, şi să o perfectăm, să-i înfiripăm viaţă” (10).

Când scrie aceste rânduri, Lovinescu nu regretă imperiul dunărean al Habsburgilor, căci el judecă Austro-Ungaria “o eroare psihologică”, cu toate că a fost, scrie, “o mare realizare economică” (11).

Ani mai târziu, în scrierea O icoană creştină pe Columna Traiană Lovinescu îşi exprimă despre imperiul Habsburgilor o opinie mai netă şi categorică, considerând Hofburgul din Viena ca “centrul ultimei rămăşiţe a Imperiului roman, distrus în 1918, spre nenorocirea lumii” (12).

Dar ideea imperială reprezentată de dinastia catolică a Habsburgilor, observă Lovinescu, “nu izvorăşte din creştinism (…) Este precreştină şi a fost instituită pentru Europa de doi eroi solari, Julius Caesar şi Octavian August, amândoi a sole missi, trimişi de soare, Monarhi şi Pontifici [sic] Maximi” (13).

Citind un pasaj din Virgiliu (Georgice, I, 24-42), Lovinescu deduce că August “se identifică cu semnul zodiacal al Balanţei, în realitate devenind astfel un rege de Justiţie, ca Melchisedec, Traian şi l’alto Arrigo, cu toţii emanaţi din Tula” (14) şi că instituirea Imperiului echivalează cu “o înfrîngere a forţelor infernale” (15).

De fapt, însuşi Lovinescu ne aminteşte că vechii Părinţi ai Bisericii, când încercau să interpreteze enigmaticul pasaj din Epistola a doua către Tesaloniceni a Sfântului Apostol Pavel, unde este vorba de katéchon-ul (adică “acela care reţine”), ei “gîndeau în mod obişnuit că obstacolul la venirea Anticristului era Imperiul roman” (16). Cu alte cuvinte, Anticristul se va manifesta atunci când Imperiul roman se va prăbuşi.

În Occident, Imperiul roman s-a prăbuşit în 476, pe când în Orient a dispărut o mie de ani mai târziu, în 1453.

Totuşi, în Occident, Imperiul roman a înviat în anul 800, ca Sfântul Imperiu, şi, scrie Lovinescu, el “a avut clipe frumoase” (17), cu toate că nu poate fi comparat “cu ce fusese Imperiul roman ca putere, măreţie, organizaţie, continuitate, pace înăuntru şi în afară, forţă militară” (18).

Dar şi în Orient Imperiul roman a continuat să existe într-o formă diferită după prăbuşire. Cum scrie Nicolae Iorga, “Après plus de mille ans le Sultan turc refaisait l’oeuvre de Constantin le Grand” (19), adică: “După mai mult decât o mie de ani, Sultanul turc refăcea opera lui Constantin cel Mare”, aşa încât “la domination ottomane ne signifiait qu’une nouvelle Byzance, d’un caractère religieux pour la dynastie et l’armée” (20), adică: “stăpânirea otomană nu însemna decât un nou Bizanţ, cu un caracter religios pentru dinastie şi armată”. Deci, în viziunea lui Iorga (21), Imperiul otoman a fost – citez încă o dată cuvintele lui – “ultima ipostază a Romei, (…) Roma musulmană a turcilor” (22).

Când Lovinescu scrie că în 1918 a fost distrusă “ultima rămăşiţă a Imperiului roman”, prin această definiţie el înţelege, cum am văzut, Austro-Ungaria, fără să ţină seama de faptul că moştenirea Imperiului roman a fost revendicată de sultanii otomani, în mod special de Mehmed al II-lea şi de Soliman Magnificul.

Dar moştenirea romană nu a fost revendicată numai de Otomani. Si Rusia a fost identificată cu Roma, după ce călugărul Filofei din Pskov a scris, în scrisoarea-panegiric adresată în 1510 marelui cneaz Vasili al III-lea: “Două Rome au căzut. A treia rezistă. Şi nu va mai exista a patra”.

Dacă ar fi avut în vedere revendicările otomană şi rusească, Lovinescu ar fi avut o altă confirmare despre natura crucială a României, constatând că această ţară ocupă un spaţiu central între teritoriile celor trei Rome.

Pe de altă parte, geopoliticienii români din perioada interbelică au insistat asupra acestei poziţii centrale, arătând cum “geografia obiectivă” nu contrazice deloc “geografia sacră şi mitică”, cel puţin în cazul României.

Dacă Gheorghe Brătianu a afirmat “Noi trăim aici la o răspântie de drumuri, la o intersecţie de culturi şi, din păcate, la o intersecţie de invazii şi de imperialisme” (23), geopoliticianul Vintilă Mihăilescu (1890-1978), punând în evidenţă poziţia de răscruce geografică şi geopolitică a României, a considerat că această ţară se află în punctul în care converg liniile de tendinţă provenite din Europa centrală, din Balcani şi Turcia şi din Rusia (24). Simion Mehedinţi (1869-1962), în ce-l priveşte, a scris că România, aflându-se de-a lungul diagonalei dunărene, este predestinată prin însăşi poziţia sa geografică să stabilească relaţii între ţările Europei apusene şi ţările din Orientul Apropiat (25).

Dacă Europa, mai devreme sau mai târziu, îşi va recâştiga suveranitatea, atunci România va putea împlini rolul care îi este destinat de însăşi poziţia ei geografică: adică, nu un rol de avangardă al Occidentului atlantic, ci o funcţiune de pod în continentul euroasiatic.

Claudio Mutti

NOTE

1. Jean Parvulesco: “Une conscience d’au-delà de l’histoire”. Propos recueillis par Michel d’Urance, “Éléments”, 126, Automne 2007, pp. 54-57.
2. Vasile Lovinescu, Folticenii de vis, “Pagini bucovinene”, a. II, nr. 15, Martie 1983.
3. René Guénon, Domnia cantităţii şi semnele vremurilor, Humanitas, Bucureşti 1995, pp. 139.
4. Vasile Lovinescu, Dacia hiperboreană, Editura Rosmarin, Bucureşti 1994, p. 15.
5. Vasile Lovinescu, Dacia hiperboreană, cit., pp. 43-44.
6. Vasile Lovinescu, Dacia hiperboreană, cit., p. 44, nota 17. Cu aceste preocupări are legătură o întrebare adresată de Lovinescu lui René Guénon, o întrebare ce acesta din urmă a găsit-o fără de rost: “vous dites – i-a răspuns Guénon – qu’il vous est très utile de savoir le méridien du Caire; moi qui y habite, je ne le sais pas et je m’en passe très bien…” (“Dumneavoastră spuneţi că v-ar fi de mare folos să ştiţi care este meridianul din Cairo; eu, care trăiesc la Cairo, nu ştiu şi nu mă interesează deloc…”) (René Guénon, Scrisoare către Vasile Lovinescu din 16 Decembrie 1934).
7. Vasile Lovinescu, Dacia hiperboreană, cit., p. 23.
8. Mircea Eliade, Images et symboles, I, 3, Gallimard, Paris 1988, p. 50.
8bis. Mircea Eliade, L’épreuve du Labyrinthe, Entrétiens avec Claude-Henri Rocquet, Pierre Belfond, Paris, 1978, pp. 26, 116.
9. Vasile Lovinescu, Sensul unei conferinţe, “Vremea”, nr. 344, 24 Iunie 1934.
10. Vasile Lovinescu, Sensul unei conferinţe, cit.
11. Vasile Lovinescu, Sensul unei conferinţe, cit.
12. Vasile Lovinescu, O icoană creştină pe Columna Traiană (Glose asupra melancoliei), Cartea Românească, Bucureşti 1996, p. 172.
13. Vasile Lovinescu, Note de lectură. La romanul lui Gustav Meyrink, Der Engel von westlichen Fenster, în Incantaţia sîngelui, Institutul European, Iaşi 1993, p. 190.
14. Vasile Lovinescu, O icoană creştină pe Columna Traiană (Glose asupra melancoliei), Cartea Românească, Bucureşti 1996, p. 172.
15. Vasile Lovinescu, O icoană creştină pe Columna Traiană (Glose asupra melancoliei), cit., ibidem.
16. Vasile Lovinescu, O icoană creştină pe Columna Traiană (Glose asupra melancoliei), cit., p. 188.
17. Vasile Lovinescu, O icoană creştină pe Columna Traiană (Glose asupra melancoliei), cit., p. 154.
18. Vasile Lovinescu, O icoană creştină pe Columna Traiană (Glose asupra melancoliei), cit., p. 154.
19. Nicolas Iorga, Byzance après Byzance, Paris 1992, p. 48.
20. Nicolas Iorga, Formes byzantines et réalités balkaniques, Paris-Bucarest 1922, p. 189.
21. Care este aceeaşi cu viziunea lui Arnold Toynbee: “The Greek Christian Roman Empire fell to rise again in the shape of a Turkish Muslim Roman Empire” (Arnold Toynbee, A Study of History, ed. a doua, London – New York – Toronto 1948, vol. XII, p. 158).
22. Nicolae Iorga, The Background of Romanian History, Cleveland, 17 Febr. 1930, cit. de Ioan Buga, Calea Regelui, Bucureşti 1998, p. 138.
23. Gheorghe I. Brătianu, Chestiunea Mării Negre, Curs 1941-1942, Universitatea Bucureşti, Facultatea de Filozofie şi Litere, ed. Ioan Vernescu, p. 11.
24. Vintilă Mihăilescu, Unitatea şi funcţiunile pământului şi poporului românesc, Bucureşti 1943, p. 73. Pasajul din care am citat a apărut în “Geopolitica” (Bucureşti), a. VII, nr. 31 (3/2009), p. 35.
25. Simion Mehedinţi, Le pays et le people roumain: considérations de géographie physique et de géographie humaine, Bucureşti 1937, pp. 99-100.

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L’ISIS IN BOSNIA? NIENTE DI NUOVO…

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La Bosnia è il più grande centro di reclutamento in Europa dei combattenti del cosiddetto “Stato islamico”; non si tratta solo di bosniaci, ma anche di individui di cittadinanza tedesca, austriaca o serba.

Lo ha scritto alcuni giorni fa il Jutarnji List di Zagabria, riprendendo il reportage di un gruppo di giornalisti tedeschi che di recente hanno visitato il villaggio di Gornja Maoca, nel nord-est della Bosnia, che ha una forte concentrazione di settari wahhabiti e viene considerato un campo di addestramento per i futuri guerriglieri diretti in Siria e in Iraq.

“Appena ci hanno visti si sono messi in tutta fretta a nascondere bandiere nere dell’Isis”, raccontano i giornalisti tedeschi. A loro si è poi rivolto Edis Bosnic, secondo la stampa leader del movimento wahhabita locale. “Se cercate terroristi, qui non li troverete di sicuro, noi conduciamo una vita tranquilla, secondo le regole dell’islam e non vogliamo giornalisti in giro”, ha detto Bosnic, affermando di essere contrario alla violenza. Ma, prosegue il giornale, questo non si direbbe a giudicare dal suo profilo Twitter, dal quale è evidente il suo appoggio per l’Isis.

Non ci sarebbe da sorprendersi se il radicalismo dell’autoproclamato “Stato Islamico” si fosse diffuso anche in Bosnia-Erzegovina, dove hanno trovato rifugio molti miliziani – reclutati in funzione antiserba negli anni Novanta dagli stessi paesi che oggi finanziano l’Isis.

Sorprende piuttosto che i media croati debbano attendere un “servizio” di giornalisti tedeschi per apprendere la notizia, vista l’eccellente tradizione dei loro servizi di sicurezza e il forte interesse del Governo di Zagabria per quanto avviene nella vicina Bosnia e visto che la Croazia è da anni un affidabile alleato degli Stati Uniti d’America nella “lotta al terrorismo”, come dimostrano le coperture fornite negli anni all’attività spionistica della NSA nei Balcani. “Questa Agenzia ha fornito le attrezzature migliori che esistano, questa Agenzia croata ha fornito i mezzi, hanno addestrato dei croati, delle persone in America e attraverso la N.S.E.I. croata gli americani controllano tutto il territorio: dalle quattro posizioni dove hanno l’attrezzattura hanno una serie di postazioni, quattro posizioni da dove intercettano, collocate nei pressi dei confini della Serbia e del Montenegro e attraverso questa cosa viene controllato tutto il traffico telefonico nella ex Jugoslavia, ha la capacità di intercettare 40mila conversazioni contemporaneamente! …” (1).

Strano che con un apparato simile a disposizione, gli alfieri della “guerra al terrorismo” si siano lasciati sfuggire la crescita esponenziale di un movimento come l’Isis … ma si sa che gli “americani sono un po’ ingenui”.

Stefano Vernole

NOTE
1) La dichiarazione resa dal giornalista croato Ivo Pukanic agli investigatori della Direzione Investigativa Antimafia di Bari nel 2002 è citata nel mio Ex Jugoslavia: gioco sporco nei Balcani, Anteo, Cavriago, 2013, pp. 188-189.

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DANTE E IL SUFISMO

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Dante e il Sufismo è un evento che si terrà venerdì 20 marzo alle ore 15 presso la Sala Leopoldine, Piazza Tasso, 7 a Firenze.

Dante e il Sufismo è un progetto culturale e di pace a cura della Dottoressa Amal Oursana, in collaborazione con la Fondazione Camelot e con il contributo della Regione Toscana che ha l’obiettivo di diffondere la conoscenza sufica in Italia, in particolare in Toscana e nella città di Firenze.

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KOSOVO, PUNTO DI NON RITORNO

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I pericoli delle profondità della miniera di Trepça, luogo simbolo di uno degli scioperi più duri nella Jugoslavia del 1989, rappresentano più che l’importante complesso industriale di Mitrovica la metafora dell’attuale crisi politica in cui versa il Kosovo. Divisa dalla parte sud del fiume Ibar in cui lavorano anche minatori albanesi e quella a nord nella zona di Zvečan a maggioranza serba, le cavità minerarie hanno in ogni loro ingresso la scritta “Me Fat”, ossia “buona fortuna”. Fortuna, che da molti mesi sembra aver abbandonato le istituzioni di Priština.
Proprio durante le commemorazioni per il settimo anniversario della Dichiarazione di Indipendenza da Belgrado, l’inizio dello sciopero dei minatori di Mitrovica, sede del principale pozzo della Trepça, ha coinciso con l’acuirsi dell’ennesimo stallo politico.

Alla base dello stato di allarme vi è l’alto numero di cittadini kosovari che stanno spopolando interi quartieri della stessa città di Mitrovica, come di Drenica, Shala, Drenas, Skenderaj e Vushtrri, per iniziare il loro cammino verso altri Paesi europei. Diretti prima a Belgrado e subito dopo verso la città di Subotica in terra ungherese, vero trampolino di lancio per l’arrivo in Germania, Francia o Svizzera, migliaia di famiglie stanno abbandonando il Kosovo poiché esasperate dalle tragiche condizioni di povertà dettate dalla crisi economica e dall’alto livello di disoccupazione. Ad emigrare verso i Paesi dell’Unione Europea non sono soltanto giovani e disoccupati, ma anche tutti coloro i quali hanno lasciato un lavoro retribuito con un media di un paio di euro al giorno.
Quello che appare evidente oramai da tempo è come gli obiettivi prefissati da Priština nel 2008 stiano lentamente diventando quasi irraggiungibili. La comunità internazionale inoltre, insieme all’Unione Europea, dopo aver legittimato e riconosciuto la Dichiarazione d’Indipendenza dalla Serbia, rimane inerte dinnanzi i drammatici scenari che stanno destabilizzando l’intero Kosovo.

Dopo il blocco delle attività parlamentari durato oltre cinque mesi dovuto all’incapacità politica del neo-governo di eleggere il proprio Presidente dell’Assemblea, le critiche dichiarazioni nei confronti della comunità albanese rilasciate dal Ministro delle Comunità e dei Ritorni, Aleksander Jablanovic, hanno scatenato a Priština una vera e propria guerriglia urbana.
L’arresto di Shpend Ahmeti, sindaco della capitale kosovara e leader del partito Vetëvendosje, insieme ad un centinaio di manifestanti albanesi, dimostra come le più elementari regole di sicurezza siano completamente inosservate anche da figure istituzionali e politiche. Realtà che ha già caratterizzato il Kosovo nello scandalo di traffici illeciti e crimini contro la comunità serba che videro coinvolti gli ex primi ministri Ramush Haradinaj e Hashim Thaçi.

Più paradossale appare l’atteggiamento della comunità kosovara di etnia non albanese che negli ultimi giorni ha chiesto un intervento risolutore da parte di Belgrado; i kosovari-albanesi, invece, continuano a vedere qualsiasi forma di dialogo proprio con la Serbia come una reale minaccia alla sovranità statale del Kosovo.
Momentaneamente la Serbia coopera come sempre fatto nell’attuazione delle basilari misure di sicurezza al confine con la regione Nord del Kosovo, dialogando con le autorità di polizia ungherese per raggiungere una migliore unità d’intenti nel controllo del flusso di migranti e criticando Priština quando ritenuto opportuno.
L’accusa incassata dalla autorità albanofone direttamente dall’Ufficio Governativo serbo per il Kosovo, a causa della profanazione di diversi luoghi di culto ortodossi a Obilic e Gnjilane, palesa la rilevante posizione di Belgrado nei rapporti bilaterali.
Dinnanzi all’attuale scenario, l’ultimo accordo raggiunto tra il Premier serbo Aleksander Vučić e il suo alter ego kosovaro Isa Mustafa sul tema giustizia e immigrazione illegale, pone proprio la Serbia come possibile partner strategico per un ritorno alla normalità. Infatti, come evidenza la Risoluzione n.1244 dell’Onu, ufficialmente il Kosovo rimane ancora legato alla sovranità di Belgrado che ne riconosce solo l’autonomia della regione. I poteri di veto al Consiglio di Sicurezza Onu di Russia e Cina, contrari da sempre all’indipendenza kosovara, potrebbero giocare un ruolo fondamentale in futuro se lo scenario di crisi dovesse richiedere un nuovo intervento delle autorità internazionali.

La situazione in Kosovo è stata infatti sottolineata in una delle ultime assemblee generali delle Nazioni Unite direttamente dal Segretario Ban Ki-moon. Quest’ultimo ha espresso le sue più serie preoccupazioni non solo per il fenomeno migratorio in fieri, ma per gli illeciti che tale scenario potrebbe nascondere e sviluppare in futuro.
Da un paio di mesi molti mass media, sia serbi che kosovari, hanno sottolineato possibili illeciti derivanti dall’esodo di massa nato in Kosovo.
Le prime accuse sembrano ricadere su un presunto racket di etnia albanese in grado di trovare spazi incontrollati presso la frontiera serbo-ungherese e aiutare soprattutto cittadini albanesi residenti in Kosovo a raggiungere altre parti d’Europa.
Le statistiche redatte dall’Ufficio Immigrazione di Belgrado confermano che circa ventiseimila albanesi hanno ricevuto il passaporto serbo ma, visti i report pubblicati da giornali sulla quantità di persone che giornalmente abbandona il Kosovo, potrebbe essere facilmente confermata l’idea che vi sia un illecito giro d’affari nel rilascio di documenti biometrici a cittadini kosovari capaci così di lasciare il Paese.

Al di là delle forti manifestazioni dei partiti filo-albanesi Vetëvendosje e Aleanca për Ardhmërinë e Kosovës, è proprio la cooperazione tra Priština e Tirana che è stata criticata dalle stesse autorità serbe e ungheresi.
La recente inaugurazione del “Corridoio di Transito Comune” voluto dalla Direzione Generale delle Dogane di Albania e Kosovo, se da una parte consentirà ai cittadini di entrambi i Paesi un rapido attraversamento della frontiera, per Serbia e Ungheria rappresenta il rischio di creare un passaggio legalizzato, difficile dunque da controllare, che dai “Balcani occidentali” conduce facilmente verso l’Unione Europea. Inoltre, l’atteggiamento passivo di Priština al confine con la Serbia, spaventa ancor di più Vučić per un possibile incremento dello stato di insicurezza ed il conseguente rallentamento del percorso di avvicinamento e integrazione nell’Unione Europea.
Il pericolo di realizzare una “zona franca” non spaventa solo Belgrado. Quasi tutti i Paesi membri dell’Unione Europea, specialmente Germania, Austria, Francia e Svezia, hanno constatato con preoccupazione che la partecipazione di molti albanesi all’interno del fenomeno dell’Islamic State rappresenta un possibile pericolo dopo i fatti di Parigi.

Mentre la rappresentanza Ue a Priština ha garantito che tutte le prossime domande di asilo presentate verranno regolarmente respinte per mancanza delle condizioni giuridiche di rilascio (persecuzioni, guerre, calamità di vario genere), Berlino ha dichiarato di aiutare nell’umano rimpatrio i migranti arrivati negli ultimi giorni dal Kosovo.
La mossa tedesca, simile a quella ungherese che ha rispedito indietro i rifugiati, arriva dopo l’accordo bilaterale siglato nel 2004 che favoriva l’occupazione stagionale di cittadini proveniente dal Kosovo in Germania. Dal Ministero degli Affari Esteri per i Balcani, Turchia e Paesi dell’European Free Trade Association, è stato emanato un comunicato ufficiale dove Berlino garantisce il suo impegno nella cooperazione con il Kosovo nel ripristino della vicenda riguardante l’immigrazione illegale.
Il rappresentante ufficiale del Ministero degli Esteri tedesco, incontrando la presidente della Repubblica di Kosovo, Atifete Jahjaga, ha visitato la parte meridionale di Mitrovica. Entrambi hanno chiaramente detto alla cittadinanza di non tentare di lasciare il Paese perché non sarà più possibile farlo.

Dopo i traffici illegali di organi, armi e droga, il Kosovo si candidata a divenire il nuovo “buco nero d’Europa” detenuto in passato dall’Albania. Tutto ciò continua ad evolversi intorno ad una continua erosione della legittima autorità politica messa a dura prova dall’etnia albanese, da un insufficiente controllo del territorio nella parte Nord, dalle palesi incapacità di fornire servizi pubblici come il lavoro ed una sempre maggiore difficoltà di interagire con l’estero.
Che sia il Kosovo il prossimo “Stato fallito” generato dalla comunità internazionale?

Francesco Trupia

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LA “NUOVA OSTPOLITIK” TEDESCA NEL CONTESTO MULTIPOLARE

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Un recente articolo su “Foreign Affairs” paventa l’avvento di una “politica estera della Germania post-occidentale”. L’autore, Hans Kundnani, membro dell’European Council on Foreign Relations, presenta uno scenario futuribile in cui la Germania, sempre più legata alle esportazioni asiatiche, complice anche la situazione storica segnata dalle sanzioni contro Mosca, che la indurrebbe a riconsiderare il suo legame con l’occidente, possa scegliere di volgere ad Est e abbandonare i propri storici legami con l’Ovest. (1)

Kundnani ricorda prima di tutto che tale messa a repentaglio della politica occidentale della Germania (Westbindung), non è nuova. Sebbene la Germania sia diventata centrale all’interno del contesto europeo e sia stata anche una delle patrie dell’illuminismo, essa ha vissuto, a seguito dell’impatto col mondo anglosassone dopo la prima guerra mondiale (e in generale durante la “guerra dei trent’anni europea”, per dirla con Arno J. Mayer), un’emergente nazionalismo e il sorgere di una identità in opposizione ai valori dell’occidente anglosassone liberale, da cui si distinguerebbe per propria stessa natura secondo Thomas Mann, come si legge in “Considerazioni di un impolitico”. Rifiuto dei valori occidentali che sarebbe culminato nel nazismo e che troverebbe solo in parte le proprie premesse in quella “rivoluzione conservatrice” maturata tra le due guerre mondiali. Ernst Nolte sottolinea infatti che “non pochi rappresentanti della rivoluzione conservatrice dopo il 1933, e anche prima, furono trai più decisi oppositori del nazionalsocialismo”. (2) Secondo Heinrich August Winkler, il nazismo sarebbe stato invece “il climax del rifiuto tedesco del mondo occidentale“.

Il recente avvicinamento alla Cina della Germania e il rinnovato clima di Ostpolitik tedesca, risale secondo Kundnani già alle guerre di Bush. Sebbene nel 2001 Gerhard Schroder garantì appoggio incondizionato agli USA per l’invasione dell’Afghanistan, lo stesso non avvenne per l’Iraq, quando il cancelliere tedesco scelse una “via tedesca” in contrasto con i progetti americani di rovesciamento di Saddam Hussein. A partire da questi eventi la Germania avrebbe assunto sempre più una “politica di pace” come proprio faro nelle relazioni internazionali, definendo se stessa come una Friedensmacht, “forza di pace”. E ciò si sarebbe manifestato nella politica di spesa militare inferiore al 2% del PIL, che è il livello di accordo sancito trai membri della NATO. Si ricordano di recente la riluttanza tedesca a sostenere l’intervento francese in Mali e nella Repubblica Centrafricana, l’astensione sulla mozione sull’intervento in Libia nel 2011 contro la Francia, la Gran Bretagna e gli USA e accanto a Russia e Cina. Se si aggiunge il clima di “sentimenti anti-americani” suscitato dallo scandalo dello spionaggio della National Security Agency a danno della stessa cancelliera Merkel e di alti funzionari tedeschi, fatto che suscitò una netta reazione della Germania, il quadro di divisione dagli indirizzi occidentali apparirebbe ancora più chiaro.

Contestualmente a questo profilo “morbido” e poco incisivo militarmente sul piano internazionale, a livello europeo la Germania ha visto crescere la quota di esportazioni sul PIL, secondo stime della Banca Mondiale citate da Kundnani, dal 33% del 2000 al 48% del 2010, principalmente a causa del ruolo esercitato dal cambio fisso dell’euro. Il fattore del transito di importazioni tedesche da paesi extra-Ue attraverso i porti olandesi e belgi dovrebbe indurre cautele però sull’effettivo surplus extra-UE della Germania verso i BRIC, in quanto molto dell’import di materie prime dall’Olanda sarebbe in realtà import da paesi extra UE. (3) La Germania ha comunque operato la scelta, a fronte della posizione di preminenza in Europa, “di fondare la propria politica estera sui propri interessi economici e, in particolare, sulla necessità delle esportazioni”, che si rivolgono in particolare all’Europa. Tale politica ha incontrato la contrarietà degli americani e del FMI ed è stata attuata peraltro in violazione delle stesse regole europee (Macroeconomic imbalance procedure), che prevedono che il surplus delle partite correnti di un Paese europeo non possa superare il 6% del PIL. (4) La precisa responsabilità della Germania nella crisi europea, ormai riconosciuta anche negli USA, con l’imposizione dell’austerity ai danni dei paesi meridionali del continente come metodo di aggiustamento degli squilibri commerciali (il surplus tedesco nel 2007, pari a 195 miliardi di euro, trovava sblocco per 3/5 nella stessa Eurozona ricorda Kundnani), ha fatto proporre a Patrick Chovanec, della Columbia University, che una buona risposta alla situazione di stallo dell’Europa sarebbe l’uscita (anzi l’espulsione) della Germania dall’euro.(5) Prosegue Chovanec rilevando che, in un regime di cambi flessibili, gli aggiustamenti di cambio avrebbero consentito di spostare la localizzazione della domanda dai paesi in deficit a quelli in surplus di domanda, mentre nella situazione attuale dell’eurozona i debitori europei sono stati costretti a ridurre drasticamente la domanda, “attraverso una combinazione di austerità fiscale e rientro dal debito”. Ciò, se ha consentito di ridurre i disavanzi commerciali verso la Germania, ha però provocato uno squilibrio non solo nel surplus verso l’Europa, ma anche verso i paesi emergenti, complice anche l’euro debole (i deficit verso Cina e Giappone si sono rapidamente erosi). La crescita export led della Germania a danno dei paesi periferici e verso il resto del mondo ha però avuto un’altra conseguenza drammatica, cioè quella di rendere l’Europa il buco nero della domanda globale, determinando un impatto deflativo sull’economia mondiale, come su quella europea.(6)

Il crescente peso delle esportazioni asiatiche, in conseguenza dell’esaurimento del serbatoio di domanda europeo, fa pensare a Kundnani che la Germania stia volgendo ad est e stia elaborando una propria nuova Ostpolitik.(7) Ciò sembrerebbe confermato dalla difficoltà della posizione tedesca rispetto alle sanzioni attuate contro la Federazione Russa e dal ruolo di mediatore assunto da Berlino a Minsk giorni addietro. La volontà di non rompere il cordone con Mosca servirebbe anche a tutelare le grandi imprese tedesche con affari in Russia e a garantire gli approvvigionamenti di gas russo di cui la Germania abbisogna grandemente. Sembrerebbe inoltre che la Merkel si sia espressa criticamente durante il summit della NATO a Wales nel settembre scorso, rispetto ai progetti di allargamento dell’alleanza atlantica verso i paesi dell’ex blocco comunista, cosa che violerebbe il Founding Act del 1997 stipulato tra la NATO e la Russia. (8)

Ma ciò che teme più Kundnani è una strategia di “pivot to Asia” (verso la Cina in particolar modo) da parte della Germania. Le esportazioni tedesche verso la Cina sono il doppio del valore di quelle verso la Russia e la Cina è il principale mercato per Volkswagen. L’intesa sarebbe anche di principio trai due paesi, soprattutto sugli squilibri di un capitalismo anglosassone finanziarizzato, che ha prodotto la crisi innescata nel 2008, e sul tema del quantitative easing, criticato per i suoi effetti inflazionistici. I due paesi hanno avviato poi nel 2011 consultazioni annuali bilaterali che ne rafforzano ulteriormente i legami diplomatici. Il rischio per la supremazia dell’Occidente, secondo Kundnani, è che qualora la Germania trovasse inaccettabili ulteriori sanzioni contro la Russia, ciò potrebbe creare crepe ancora maggiori dentro l’Europa e tra questa e gli USA. Tale paura di una più stretta intesa con l’Oriente della Germania come sineddoche dell’Europa, ricorda l’autore, era già stata espressa da Henry Kissinger, quando vedeva nell’Ostpolitik di Willy Brandt un pericolo per l’unità transatlantica. Conclude infine – con una nota di timore – riflettendo sul fatto che nell’ipotesi di una uscita della Gran Bretagna dall’UE, l’Europa potrebbe seguire la Germania nella sua spinta verso l’est, acuendo i contrasti con gli USA e producendo uno “scisma da cui l’Occidente potrebbe non risollevarsi”. I disegni quindi una unione UE-NAFTA, già auspicati da Huntington, a quel punto naufragherebbero definitivamente. (9)

Con maggiore prosaicità, la politica estera della Germania appare più di piccolo cabotaggio di quanto non si affanni a pontificare Kundnani. Intrappolata nella sindrome del “piccolo paese” essa non riesce a darsi un proprio disegno in vista di una collocazione matura sullo scenario globale, puntando a riscuotere il dividendo di una crescita guidata dalle esportazioni nel breve periodo (tipica di un paese mercantilista richiuso su se stesso), ma non fondando un modello duraturo in un’ottica di lungo periodo.(10) La revisione della politica economica neoclassica solo concepita sul lato dell’offerta e ostile a sostenere la domanda, sebbene possa consentire all’Europa unita di conseguire benefici, non eliminerebbe tuttavia il problema di un continente dominato da un solo paese (la Germania) e per di più legato in maniera sostanzialmente supina alle direttive di Washington. Gli USA concepiscono il Vecchio continente ancora come propria “testa di ponte” in tutti sensi, con finalità strumentali e funzionali alle proprie logiche unipolari, mentre la Germania non è chiaro se possa assolvere al ruolo di potenza che riesca a controbilanciare l’ipoteca statunitense. Tale quadro non lascia spazio a ottimismi sul futuro di un’Europa che, quandanche dovesse raggiungere la completa unificazione politica, lascerebbe in secondo piano i paesi “cicala”, per quanto cari al modello export led tedesco, senza toccare il predominio strategico degli USA.

Domenico Caldaralo

 

Note

(1) “Leaving the West Behind. Germany looks east”, in Foreign Affairs, January/February 2015 Issue http://www.foreignaffairs.com/articles/142492/hans-kundnani/leaving-the-west-behind
(2) Ernst Nolte, La rivoluzione conservatrice nella Germania della Repubblica di Weimar, Rubbettino, Soveria Mannelli 2009, p. 4.
(3) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-04-18/senza-ue-surplus-si-sgonfia-063854.shtml?uuid=ABRes8BB
(4) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2015-01-19/la-germania-esporta-go-go-e-viola-8-anni-trattati-europei-se-non-cambia-rotta-sara-l-eutanasia-dell-euro-102152.shtml?uuid=ABRJb8fC&fromSearch
(5) http://foreignpolicy.com/2015/02/20/its-time-to-kick-germany-out-of-the-eurozone/
(6) http://www.eunews.it/2014/12/10/leuropa-germanizzata/26945
(7) http://www.ilfoglio.it/articoli/v/125161/rubriche/merkel-torna-all-ostpolitik.htm
(8) http://www.nato.int/cps/en/natohq/official_texts_25468.htm
(9) S. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 1997, p. 459
(10) http://www.ft.com/intl/cms/s/0/faf48600-7e43-11e4-87d9-00144feabdc0.html#axzz3T9JG2b73

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L’ATTENTATO DI TUNISI E UNA MAGRA CONSOLAZIONE

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I fatti li conosciamo. Più di venti morti al museo del Bardo, tra cui alcuni turisti italiani. Un paese, la Tunisia, che fino alla cosiddetta “Primavera araba” era un capolavoro di “sicurezza” per tutti.

Lo posso dire per diretta esperienza, avendovi soggiornato per due volte, un mese intero, per studiare Arabo. Non fiatava una mosca e nessuno rischiava nulla. Come dovrebbe essere dappertutto.

Poi ci son tornato a Capodanno, visitando tra le altre cose anche il museo del Bardo, ma l’aria era cambiata. Era arrivata la “primavera”, appunto. E con quella, la prospettiva di veder trasformata la Tunisia in una nuova Algeria, o in una Libia, se preferite.

Italiani che avevano aperto delle attività hanno chiuso baracca e burattini, vedendosi saccheggiare tutto nei giorni del sacro fuoco “rivoluzionario”. Altri, che c’erano tornati prima di me, facendosi una passeggiata nell’oasi di Tozeur, invece dei treni cantati da Battiato avevano trovato una banda di scugnizzi che ti mette le mani addosso. Certo “canagliume” capisce subito quando può allargarsi senza temere più il bastone del potere.

Intanto, non potendo operare alla luce del giorno coi bulldozer come in Libia, una manina fanatica appiccava il fuoco, nottetempo, al mausoleo di Sidi Bou Said, che sarebbe come dar fuoco a Sant’Antonio a Padova eccetera.

I tunisini non stanno affatto meglio di prima. Il turismo – una voce molto importante per l’economia del paese – è sempre più in sofferenza e, per quanto riguarda questa stagione, il discorso è chiuso. Ma che importa: i tunisini mangeranno “la democrazia”.

Gruppuscoli disseminati qua e là provano a giocare alla guerra (“jihadista”), trovando riparo nelle regioni orientali, adiacenti all’Algeria, e nell’estremo sud. Ma questi “ratti” (mai definizione fu più azzeccata) si annidano anche nei sobborghi delle città. Quelli della famosa miseria e disperazione che giustificherebbero, secondo i soliti sociologi, anche i furti e le rapine.

Quando sul finire del 2010 il mitico Bou Azizi si dette fuoco, fui tra i pochi, assieme agli amici di “Eurasia” e pochi altri, a mettere sul chi va là dai facili ed ingenui entusiasmi. La malafede, poi, non la prendo nemmeno in considerazione, anche se so benissimo che molti degli “esperti” che fanno “opinione” in merito avevano il compito di cantare le magnifiche sorti e progressive del mondo arabo-musulmano che finalmente avrebbe trovato “libertà” e “democrazia”: i due feticci dell’uomo moderno.

In quei primi mesi di rivoluzioni colorate eterodirette, provammo, coi nostri risicati mezzi, a far ragionare un po’. A mettere insieme i classici “pezzi del discorso” (perché l’abitudine dei più è quella di tenere separate tutte le “questioni”). Niente da fare: giornali e tv, all’unisono, andavano in brodo di giuggiole per i “ribelli siriani”, con piazza Tahrir elevata al rango di una Woodstock mediorientale.

Le università, poi, erano gli ambienti più blindati in tal senso. Tutti in preda a un delirium tremens, e basta andare a rivedersi le locandine dei “dibattiti” (?) di quei giorni, che ritraggono “giovani” arabi di belle speranze e folle in delirio sventolanti i vessilli nuovi di zecca delle loro nazioni direttamente forniti dalle sartorie di Sua Maestà britannica.

Noi, intanto, pochi pazzi “visionari” sospettati o tacciati di ogni sorta d’infamia perché non ne volevamo saperne d’accodarci all’unanime esaltazione, continuavamo a scrivere e a parlare.

Scrivevamo (e le date fanno fede) che dopo il ‘capolavoro’ della distruzione della Jamahiriyya, in Africa (non solo del Nord) ne avremmo viste di tutti i colori, e che nulla sarebbe stato più come prima, specialmente per l’Italia, contro la quale l’attacco alla Libia era stato condotto in maniera indiretta.

Scrivevamo – noi che ci beccavamo le accuse di connivenza coi “sanguinari dittatori”, quando invece c’interessava far capire qualcosa che andasse oltre la solita pappardella ottimistica – che in Siria, se mai c’era stata una protesta, non era in corso alcuna “ribellione”, bensì trattavasi di macchinazione bella e buona. Macché, non ci ascoltava nessuno, se per “nessuno” intendiamo i famosi quanto ignavi “decisori”, che trovano senz’altro più consono con la loro missione dare ascolto ad altri “analisti” ben pagati per stendere spesse coltri di disinformazione.

Ora, al punto in cui siamo arrivati, sembrerà indelicato, ma possiamo non solo affermare, bensì gridare a squarciagola, che non ci eravamo sbagliati.

Anzi, che avevamo ragione noi.

Ergo: vergogna su chi, nei giorni della “rivolta libica”, metteva in galera un rappresentante degli studenti libici in Italia con assurdi pretesti mentre altri, poi rivelatisi tagliagole professionisti, assaltavano impunemente l’ambasciata siriana.

Vergogna su tutti quelli che, fin dall’inizio, dalle università alle pagine culturali dei quotidiani, passando per gli “approfondimenti” televisivi, l’hanno messa solo e sempre sul piano della “libertà” contro la “dittatura”, della “pace” contro la “violenza”, della “tolleranza” contro il “fanatismo” e altre mammolette arcobaleniste.

Il sangue delle vittime di Tunisi è ancora caldo e c’è chi vaneggia di “nazismo islamico” e “totalitarismo”, invocando una necessaria “riforma” dell’Islam. O sono o ci fanno: appena c’è un problema lo inquadrano nei rassicuranti parametri dell’eterno “Nazifascismo” e del “medio evo” alle porte.

Attacco all’Eurasia? Geopolitica del caos? Fabbricazione del “nemico islamico”? Retroscena della genesi del cosiddetto “fondamentalismo islamico”? Venivi guardato come un eretico che si rifiuta di tributare rispetto alle sacre narrazioni provenienti dal Cairo, Tunisi, Damasco…

Vergogna anche su certi ipocriti e falsisissimi “rappresentanti dell’Islam” in Italia e in Europa, che all’inizio soffiavano sul fuoco vedendo arrivato il loro momento agognato, ed ora fanno gli “scandalizzati”. Non erano credibili allora, per chi conosce un minimo cosa sia la tradizione con la “T” maiuscola, né lo sono oggi, quando – ormai screditatissimi – propongono ancora le loro facce ad un pubblico di boccaloni per il quale “Islam” equivale a qualsiasi individuo riesca ad accreditarsi (tramite le “istituzioni” nazionali compiacenti) come suo “rappresentante”.

Vergogna anche su quei pagliaccetti caricati a molla che non hanno mai smesso di insultare l’Islam nel suo complesso, parando malamente la loro ostilità a Dio e alla religione col “laicismo”. Erano estremamente “laici” anche certi regimi crollati con le “primavere”, ma i risultati si sono visti, perché quando fai tabula rasa della religione quella al momento buono ritorna, ma fondamentalmente incompresa. Mica è un caso che la Tunisia fornisca uno dei più alti contingenti di mercenari in Siria.

Parliamo volutamente di mercenari, perché tra chi si deve vergognare, e chissà mai se lo farà, si annoverano anche gli scendiletto dell’America e dei loro vassalli “occidentali”, che utilizzano i cosiddetti “jihadisti” per tutta una serie di operazioni sia militari sia “di intelligence”, come quelle eseguite in territorio europeo ed attribuite a fantomatiche “cellule” di un ‘terrorismo in franchising’.

Ma anche queste cose le avevamo abbondantemente scritte e dette. Che dopo la fase di “Enduring Freedom” la “democrazia” sarebbe stata esportata anche con sistemi meno grossolani, mentre all’interno delle nazioni inserite nell’alveo filo-americano sarebbe stato sviluppato, a livelli parossistici, il terrore delle “quinte colonne di al-Qa’ida”, complice l’insensata politica adottata in materia di immigrazione.

E avevamo anche aggiunto, sempre prima dei fatti giunti puntualmente a confermare la bontà dell’analisi, che questa nuova maschera del “fondamentalismo islamico” fabbricato a Londra, cioè l’ISIS, avrebbe cominciato a “minacciare” l’Italia.

Ma se “nessuno” ci vuole ascoltare, che colpa ne abbiamo? Noi, quello che la nostra coscienza ci dettava l’abbiamo fatto. Si pentano, quindi, e si vergognino pure, tutti quelli che finora o non avevano capito un accidente o, molto più probabilmente, facevano finta di non capire perché gli faceva comodo fare così.

Sia chiaro: non c’illudiamo che adesso “capiranno”. No, andranno avanti diritti per la loro strada, che deve portare alla “guerra finale contro l’Islam” (per colpire l’Eurasia, ovvero il “vecchio mondo” e quindi la naturale integrazione dell’Europa occidentale col resto, in primis la Russia) e, nello specifico di questa povera Patria che non merita simili felloni al comando, la fine pura e semplice dell’Italia, sommersa da “rifugiati” delle “rivolte” che essi stessi alimentano e ridotta ad un ruolo inesistente nella politica che conta.

Enrico Galoppini

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IDEOLOGIA “GENDER” E GLOBALIZZAZIONE

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font size=”2″>L’ideologia del “genere” è funzionale alla globalizzazione. I diritti degli omosessuali sono un’arma di “distrazione di massa”.

Quest’articolo è nato dall’incontro con Pro Vita, un associazione che promuove iniziative in difesa della famiglia naturale e della vita. Relatori dell’incontro: l’ambasciatore russo Aleksej Komov, del Congresso Mondiale delle Famiglie presso l’ONU e Antonio Brandi, Presidente di Pro Vita. (1)
Per famiglia naturale s’intende l’unione stabile di un uomo e di una donna, destinata alla procreazione e alla cura della prole. L’essenza demoniaca e socialmente distruttiva dell’ideologia gender si manifesta nella negazione della famiglia. Aristotele insegna che la famiglia è la base della società umana, perché è la prima forma di comunità che l’uomo ha costituito per poter sopravvivere; seguono poi comunità più grandi, come la città e lo Stato. L’uomo è quindi un animale politico (zoon politikon) un essere “sociale” destinato a vivere in comunità.
Nella nostra società liberista e libertaria, la famiglia naturale è minacciata da condizioni socio – economiche e da modelli culturali ostili, che ne impediscono la formazione e la sopravvivenza: ideologia di genere, femminismo, consumismo, precarizzazione del lavoro, bassi salari, ritmi di vita incompatibili con le esigenze famigliari, taglio dei servizi pubblici (asili, assegni familiari, alloggi per le giovani coppie, ecc).
Una concezione anarcoide e iconoclasta della libertà è il male dell’Occidente, il cancro che lentamente consuma la nostra decadente civiltà. Satana non è omosessuale ma libertario e liberista, induce l’uomo a ribellarsi a ogni legge e limite, al fine di soddisfare i propri desideri e deliri di onnipotenza. Il demonio ci sussurra con tono mellifluo: «Dio non esiste, tu sei il vero Dio, tutto ti è permesso». «Vietato vietare» era lo slogan sessantottino che ha minato la base morale e politica della nostra società: aborto, eutanasia, manipolazioni del corredo genetico e mercificazione della gravidanza, liberalizzazione delle droghe, contestazione globale. Nulla è assoluto tutto è relativo (famiglia, sesso, nazione). Il neoliberismo, farà propria questa concezione anarcoide e iconoclasta di libertà applicandola all’economia. Non esistono comunità e doveri sociali, ma solo individui che agiscono in funzione dei propri interessi e desideri, mossi da una mano invisibile che alla fine realizza il bene comune (la somma degli interessi e desideri individuali), il mercato è la divinità alla quale immolare le nostre esistenze.

La bestia dell’Apocalisse mostra il suo vero volto, creare il caos: sovvertendo le leggi di natura, espressione della volontà divina e le basi della civiltà umana.

L’ideologia di genere (in inglese gender) ideata dallo psichiatra americano John Money, sostiene che la famiglia naturale e l’identità sessuale non sono immutabili ma relative, possono essere modificate o ignorate, in base ai desideri del singolo o ai progetti di “ingegneria” sociale. Padre e madre sono parole prive di senso, esistono solo genitori A e B. Tutto questo è funzionale al progetto di omologazione imposto dalla globalizzazione che mira a cancellare ogni forma d’identità e di comunità. Un mutamento antropologico che trasformerà il genere umano in un gregge anonimo, i neoschiavi del mondo globalizzato, diafane creature: consumiste, asessuate, individualiste, competitive, apolitiche, atee, nomadi, drammaticamente sole. (2)

Per globalizzazione o mondializzazione, s’intende l’eliminazione di ogni barriera alla circolazione delle merci, dei capitali e delle persone al fine di creare un unico mercato mondiale di modello neoliberista. Per fare questo è necessario avviare un processo di omologazione diretto a cancellare ogni forma di appartenenza e identità (nazione, comunità locali, religione, ideologia politica, etnia, famiglia e sesso).

Nel nuovo ordine mondiale creato dalla globalizzazione: gli Stati nazionali e i poteri locali sono sostituiti da organismi sovranazionali legati agli Stati Uniti (la superpotenza vincitrice della guerra fredda) gli unici soggetti idonei a governare un mondo globalizzato; i popoli sono formati da masse anonime di produttori-consumatori, atomi manipolabili nel comportamento e nei valori. (3) L’incubo orwelliano diventa realtà.

Pierpaolo Pasolini, omosessuale e intellettuale di sinistra, già negli anni 70, denunciava in Scritti Corsari (1975), il processo di omologazione-degradazione indotto dalla società dei consumi: «Non siamo più di fronte, come tutti ormai sanno, a “tempi nuovi”, ma a una nuova epoca della storia umana, di quella storia umana le cui scadenze sono millenaristiche. Era impossibile che gli italiani reagissero peggio di così a tale trauma storico. Essi sono divenuti in pochi anni (specie nel centro – sud) un popolo degenerato, ridicolo, mostruoso, criminale. Basta solo uscire per strada per capirlo». E continua: «Ho visto dunque con i miei sensi il comportamento coatto del potere dei consumi ricreare e deformare la coscienza del popolo italiano, fino a un’irreversibile degradazione. Cosa che non era accaduta durante il fascismo, periodo in cui il comportamento era completamente dissociato dalla coscienza». (4) Chissà cosa direbbe il poeta friulano, oggi che la globalizzazione ha esteso all’intero Pianeta, il processo di omologazione-degradazione da lui denunciato.

Il legame tra ideologia di genere e globalizzazione, si manifesta non solo a livello ideologico, ma anche a livello istituzionale. L’ideologia di genere è sostenuta dalle stesse lobby e istituzioni che appoggiano la globalizzazione: politici della sinistra progressista e della destra liberista (Cameron, Obama, Hollande, Renzi, Boldrini, Scalfarotto, Vendola, Garfagna, Hillary Clinton, ecc.) giornalisti, intellettuali e artisti di fama internazionale (da Madonna a Elton John) imprese multinazionali (Ikea, le imprese legate al cambiamento del sesso, alla procreazione artificiale e all’aborto farmaceutico – pillola del giorno dopo), gli esponenti dell’alta finanza (Gates, Soros, Rockfeller), il governo degli Stati Uniti attraverso le proprie ambasciate, la Corte Europea dei diritti dell’Uomo, la maggioranza dei parlamenti e dei governi dell’Unione Europea, il parlamento europeo e perfino l’Unicef. (5) Quest’ultima sostiene: «la messa in atto di leggi che certifichino il riconoscimento legale dei legami familiari dei genitori LGBT e dei loro figli». (6) A benedire le unioni omosessuali sono anche le chiese cristiane: valdese, metodista, battista, luterana e parte di quella anglicana. Contrarie a dette unioni sono la chiesa cattolica e quella ortodossa, la parte tradizionalista delle chiese protestanti, l’Islam, i movimenti e i partiti tradizionalisti e identitari.

Le organizzazioni LGBT e le istituzioni che sostengono l’ideologia di genere cercano di imporla attraverso una campagna d’indottrinamento e di censura.

L’indottrinamento, prevede il controllo dei mass-media e un programma educativo rivolto a promuovere l’omosessualità nelle scuole. Al Liceo Giulio Cesare di Roma è stato dato da leggere ad adolescenti di seconda superiore il libro di Melania Mazzucco: Sei come sei che descrive nei particolari (odori, sapori, sensazioni) un rapporto orale tra due ragazzi in uno spogliatoio. Oppure i libri distribuiti negli asili del Veneto, e poi tolti per la rivolta dei genitori, i titoli si commentano da soli, “E con Tango siamo in tre”, “Perché hai due mamme” e via dicendo. (7) Oggi, come nel 68, la scuola abiura alla funzione pedagogica per assumere quella ideologica.

La censura prevede l’introduzione del reato di omofobia e il boicottaggio delle opinioni contrarie al pensiero dominante.
Il reato di omofobia punisce ogni atto di violenza e di discriminazione verso gli omosessuali e i transessuali, con pene che vanno dai sei mesi ai sei anni. Una norma che non è stata creata per tutelare gli omosessuali dalla violenza e dalle discriminazioni (a tale scopo basterebbe applicare il codice penale e l’articolo 3 della costituzione italiana che garantisce la parità dei cittadini); ma per soffocare ogni voce contraria all’ideologia di genere. Il reato di omofobia appartiene alla categoria dei reati di opinione. In Germania Eugene Martens ha scontato un giorno di prigione per essersi rifiutato di portare la figlia alle lezioni di genere. Oggi la pena è di un giorno, ma in futuro potrebbe essere di un anno, tutto dipenderà dalla forza delle lobby omosessuali. (8) Discorso analogo per le unioni di fatto, lo scopo di detto istituto è quello di introdurre il matrimonio tra persone dello stesso sesso e non è quello di tutelare una relazione tra persone non sposate e non legate da vincolo parentale. Per quest’ultime basterebbe l’istituto giuridico della procura adattandolo alle loro esigenze affettive.

La censura non si manifesta solo la repressione, ma anche con l’esclusione. Ogni opinione contraria all’ideologia gender è tacciata di “omofobia” e come tale va bandita dai mass media, dalle istituzioni scolastiche, dai circoli culturali, o boicottata sul mercato se si tratta di un’azienda (Barilla e Dolce e Gabbana).

Si fonda sull’indottrinamento e sulla censura il DDL Scalfarotto (vicepresidente del partito democratico) che prevede l’introduzione del reato di omofobia e dell’ideologia di genere nel nostro ordinamento. Considerazioni analoghe valgono per le direttive contenuta nella Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni sul sesso (2013-2015), voluta dall’ex ministro del Welfare (con delega alle Pari opportunità) Elsa Fornero.

Le politiche a favore dell’ideologia di genere sono promosse e coordinate dall’UNAR (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) che fa capo alla Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimenti Integrazione e Pari Opportunità. L’UNAR si avvale della sola consulenza delle associazioni LGBT (Lesbiche, Gay, Bisessuali, Transessuali). Questa scelta esclude le famiglie degli alunni dai programmi scolastici e dimostra lo spirito totalitario della politica gender.
Si deve all’UNAR, la diffusione di una trilogia di manuali, dal titolo: Educare alla diversità a scuola. Questi testi destinati alla scuola elementare, media inferiore e superiore, col pretesto di combattere le discriminazioni e promuovere l’educazione sessuale, indottrinano bambini e adolescenti: all’ideologia di genere, all’aborto, all’attività sessuale in età precoce.

La campagna d’indottrinamento e censura è preceduta dal vittimismo, la “cultura del piagnisteo” (Robert Hughes 1994). Le organizzazioni LGBT denunciano l’esistenza di un’emergenza omofobia, segnata da frequenti violenze e discriminazioni a danno di omosessuali e transessuali. Poco importa se i dati forniti dall’organismo interforze della Polizia di Stato e dei Carabinieri, l’OSCAD (Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori) smentisca detta emergenza, o la confinano al mondo della prostituzione, che spesso frequentano i transessuali autori delle denunciano. La relazione trasmessa al Parlamento dall’OSCAD, certifica che in più di tre anni di attività dell’osservatorio (settembre 2010 – dicembre 2013) sono pervenute all’OSCAD 83 segnalazioni (una media di 28 all’anno), relative complessivamente ad offese, aggressioni, lesioni, istigazione alla violenza, danneggiamenti, casi di suicidio e minacce relativi all’orientamento sessuale (un caso all’anno in media ogni 2 milioni di italiani). (9)

Solo creando una presunta emergenza “omofobia” è possibile giustificare politiche e norme degne di un regime totalitario, come lo sono le nostre sedicenti “democrazie”. Governi, che per tutelare i propri interessi conducono guerre imperialiste camuffate da crociate umanitarie (Libia, Afghanistan, Iraq, Serbia, Siria e Ucraina); che per coprire il disavanzo dei bilanci pubblici e di quelli delle banche private (frutto di politiche clientelari, irresponsabili e criminali) condannano i propri popoli a un futuro di miseria e di precariato.
Non dobbiamo odiare e discriminare gli omosessuali, hanno il diritto di vivere la loro vita come credono, chi siamo noi per giudicarli? Il nemico da combattere e da odiare è l’ideologia di genere e la canaglia giacobina che la sostiene, il loro distruttivo totalitarismo. Rendiamo onore agli omosessuali che rinnegano la follia gender. Gli stilisti Dolce e Gabbana, sono omosessuali ma hanno condannato le adozioni gay, mentre molti eterosessuali le sostengono (10).

Negli incontri tenuti da Pro Vita, la presenza dell’ambasciatore Alexey Komov non è stata casuale. La Russia di Putin ha sfidato il nuovo ordine mondiale, imposto dagli Stati Uniti e dai loro vassalli europei. Una sfida che è geopolitica e ideologica: geopolitica, il rifiuto dell’egemonia atlantica (Kosovo, Ossezia del sud, Siria e Ucraina); ideologica, la difesa dei valori tradizionali (famiglia, patria e religione). Valori che il Presidente Putin ha espresso nel discorso tenuto a Valdai (Russia) il 24 ottobre 2014. (11)

Putin difende l’identità cristiana: «In molti Paesi europei la gente ha ritegno o ha paura di manifestare la sua religione. Le festività sono abolite o chiamate con altri nomi; la loro essenza (religiosa) è nascosta, così come il loro fondamento morale. Sono convinto che questo apra una strada diretta verso il degrado e il regresso, che sbocca in una profondissima crisi demografica e morale».

Putin, difende la famiglia naturale: «Possiamo vedere come i Paesi euro-atlantici stanno ripudiando le loro radici, persino le radici cristiane che costituiscono la base della civiltà occidentale. Essi rinnegano i principi morali e tutte le identità tradizionali: nazionali, culturali, religiose e anche sessuali. Stanno applicando direttive che parificano le famiglie a convivenze di persone dello stesso sesso, la fede in Dio con la credenza in Satana.»

Putin difende il valore dell’identità nazionale minacciato dalla globalizzazione: «Simultaneamente, vediamo sforzi di far rivivere in qualche modo un modello standardizzato di mondo unipolare e offuscare le istituzioni di diritto internazionale e di sovranità nazionale. Questo mondo unipolare e standardizzato non richiede Stati sovrani; richiede vassalli.». E continua: «La sovranità, indipendenza e integrità territoriale della Russia sono incondizionate. Qui ci sono “linee rosse” che a nessuno è permesso scavalcare.».

L’attuale governo russo sostiene i valori tradizionali in politica interna ed estera. In politica interna, vieta la propaganda omosessualista e l’aborto dopo le 12 settimane di gravidanza, da sostegno materiale e psicologico alle donne che hanno difficoltà ad accettare la propria gravidanza, assegna un sussidio di circa 10.000 dollari per il secondo figlio, concede terreni alle famiglie con più di tre figli, stanzia fondi per la costruzione di 30.000 chiese e seicento monasteri, combatte gli oligarchi mafiosi e filoccidentali. (12) In politica estera difende la sicurezza nazionale, minacciata dall’allargamento ad est della Nato (Ossezia del Sud ed Ucraina) e dall’islamizzazione del Caucaso.

Putin non è un santo, ma uno statista razionale e consapevole del proprio ruolo. Ha ereditato una nazione prostrata da una profonda crisi politica, sociale ed economica; conseguenza del fallimento dell’ideologia comunista e della sciagurata presidenza di Boris Eltsin (1991 – 1998) un ubriacone che vendette il Paese agli oligarchi e agli interessi stranieri. Putin, ha capito che una nazione non si fonda sul mercato, o su un concetto ipocrita di democrazia; ma sui valori tradizionali. Detti valori assicurano la rinascita nazionale e un futuro di pace e di prosperità.

L’accusa di omofobia mossa alla Russia da Stati Uniti ed Europa, è ipocrita e falsa: Falsa, perché in Russia esistono centinaia di locali per omosessuali è nessuno è condannato per tale orientamento; ad essere vietata è la propaganda omosessuale tra i minori, dai gay pride, alle lezioni gender negli asili e nelle scuole. Ipocrita, perché diretta a colpire un Paese “nemico” e non a difendere i diritti degli omosessuali; non a caso tale “accusa” risparmia i Paesi mussulmani alleati dell’Occidente (Arabia Saudita, Pakistan e Qatar) che infliggono agli omosessuali pene detentive e corporali, compresa la quella capitale. (13) Discorso analogo vale per il rispetto dei diritti umani e della libertà religiosa che le citate nazioni quotidianamente calpestano. Se la Russia non è democratica, che cosa sono l’Arabia Saudita e il Qatar, dispotiche teocrazie e Stati “canaglia”, sostenitori del terrorismo islamico?

La Tv russa ha dedicato un documentario all’ideologia di genere. Una serie d’interviste e di riflessioni (anche a carattere religioso) sul tale fenomeno e sugli interessi che lo sostengono (il ruolo degli Stati Uniti e delle oligarchie politico – finanziarie). Il servizio è stato tradotto in italiano e diffuso tramite un DVD dal titolo: Sodom: La rivoluzione antropologica in atto. (14)

I diritti degli omosessuali sono un’arma di “distrazione di massa”, utile a distogliere l’attenzione della gente dai reali problemi del Paese: pressione fiscale, corruzione, crisi economica, inefficienza della pubblica amministrazione, taglio dei servizi pubblici, disoccupazione giovanile, precariato, criminalità e terrorismo islamista. Questi sono i veri problemi, non le pruderie genitoriali delle lesbiche o dei sodomiti; con i quali i politici sfilano durante il gay pride; nella speranza che questo gli aiuti a mantenere la loro sudicia poltrona.

Giorgio Da Gai

Note

1) Antonio Brandi e Alexey Komov, Hotel Maggior Consiglio – Treviso 31 gennaio 2015.
2) sulla relazione tra ideologia gender e globalizzazione:
– Enrica Perucchetti e Gianluca Marletta: Unisex. La creazione dell’uomo “senza identità”, Arianna editrice, Bologna 2014.
– Diego Fusaro: Ideologia gender e capitalismo. In http://www.lintellettualedissidente.it/corsivi/ideologia-gender-e-manipolazione-dellessere-umano/
3) Franco Cardini: La globalizzazione tra nuovo ordine e caos. Edizioni Il Cerchio 2005.
4) Pier Paolo Pasolini: L’articolo delle lucciole, in Scritti Corsari. Garzanti Editore 1990, p. 131.
5) Spiega Domenico Airoma, magistrato: «L’opera di demolizione della famiglia naturale è stata possibile: «con la lenta ma inesorabile erosione praticata attraverso l’interpretazione dei giudici, soprattutto quelli della Corte europea dei diritti dell’uomo, i quali hanno statuito che quell’articolo potrebbe voler dire che l’uomo e la donna hanno diritto di sposarsi non necessariamente fra loro bensì con chiunque. Poi si sono susseguite varie risoluzioni del Parlamento Europeo nella quali si è incominciato a stabilire che la priorità, l’emergenza comunitaria è l’intronizzazione del “genere” che è chiamato a sostituire il sesso in tutti i testi normativi; il “genere” come sesso desiderato, nulla di statico, quindi: ognuno è ciò che si sente. E il diritto ora deve rincorrere il sentimento, anche se la realtà continua a dire l’opposto». Leggi di Più: “Omofobia. Ideologia gender è legge del desiderio del più forte”. In: http://www.tempi.it/
6) Unicef Position Paper, 9 november 2014 : “Eliminating discrimination against children and parents based on sexual orientation and/or gender identity ”.
7) Sull’indottrinamento nelle scuole da parte delle Lobby LGBT e delle istituzioni:
– Roberta Barone Gender la “colonizzazione ideologica” nelle scuole
– Gianfranco Amato: Gender (D)istruzione: le nuove forme di indottrinamento nelle scuole. Edizioni Fede & Cultura.
8) Leone Grotti:“Io, finito in carcere perché mia figlia ha saltato due ore di ideologia gender. E ora tocca a mia moglie”. In: http://www.tempi.it/germania-io-finito-in-carcere-perche-mia-figlia-ha-saltato-due-ore-di-ideologia-gender-e-ora-tocca-a-mia-moglie#.VPSgh890weg
9) Fonte: http://www.uccronline.it/2014/04/09/i-dati-smentiscono-lomofobia/
10) Terry Marocco: Figli e famiglia la verità di Dolce e Gabbana. Panorama 16.3.2015. In: http://www.panorama.it/
11) Il Valdai International Discussion Club è un convegno internazionale (come l’atlantista Gruppo Bilderberg) dove si approntano temi di carattere geopolitico, economico e culturale. Detto convegno è promosso dalla RIIA Novosti e dal think tank governativo russo Council on Foreign and Defense Policy. Detto convegno si tiene a Valdai sul lago Valdaiskoe, nella zona di Novgorod, ricca di monasteri e memorie storiche dell’ortodossia.
Maurizio Blondet: “Che cosa ha detto Putin a Valdai”. In: http://www.comedonchisciotte.org/site/index.php
12) Antonio Brandi: “La rinascita del popolo russo”. Intervista ad Alexey Komov, Ambasciatore del Congresso Mondiale delle Famiglie presso l’ONU. Notizie Pro Vita, giugno 2014.
13) I rapporti omosessuali sono puniti con pene detentive, corporali, o con la pena di morte: Arabia Saudita, Iran, Nigeria, Mauritania, Pakistan, Sudan, Somalia, Somaliland e Yemen. In altre nazioni molte nazioni musulmane, la pena di morte è esclusa, ma sono previste pene pecuniarie, detentive e corporali: Bahrain, Qatar, Algeria e Maldive.
14) Il DVD non è commerciabile ma può essere richiesto all’associazione Pro Vita redazione@notizieprovita.it

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UNA NUOVA PERICOLOSA AVVENTURA: L’ADDESTRAMENTO DEI “RIBELLI MODERATI”

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Mentre diventa sempre più l’epicentro di molteplici tensioni (il caso più recente è costituito dal drammatico sequestro del giudice Mehmet Selim Kiraz, conclusosi con la sua morte) la Turchia si appresta a innescare un’altra situazione esplosiva: la predisposizione di una forza armata di 15.000 combattenti “anti ISIS” progettata dagli Stati Uniti in collaborazione con Arabia Saudita, Qatar, Giordania e la Turchia stessa.

In particolare lo scorso febbraio è stato firmato ad Ankara l’accordo – che diverrà operativo dal prossimo mese di maggio – fra Stati Uniti e Turchia per l’addestramento e l’equipaggiamento di non meglio precisati “ribelli moderati” in funzione anti ISIS. In territorio turco l’addestramento avverrà in una base militare ubicata nella centrale provincia di Kırşehir, e si avvarrà della presenza anche di istruttori britannici.

Quanto dichiarato in un’audizione al Senato USA dal Capo di Stato Maggiore dell’esercito statunitense, generale Martin Dempsey – quello favorevole alla consegna di “armi letali” all’Ucraina – dal Segretario alla Difesa Ashton Carter e dal Segretario di Stato, John Kerry, non lascia dubbi sulle finalità del progetto: i “ribelli moderati” dovranno essere sostenuti e militarmente protetti dagli Stati Uniti anche nei confronti del “regime di Assad”, ossia dal governo siriano.

Si sarebbe pertanto finalmente trovata “carne da macello” da impiegare nei prevedibilmente sempre più duri combattimenti in Siria e in Iraq, inserendo una forza di terra che potrà essere utilizzata in funzione di ulteriore destabilizzazione dell’area vicinoorientale, in primo luogo contro il legittimo governo siriano che si sta battendo con coraggio e determinazione contro le “brigate internazionali” per anni sostenute dall’Occidente.

La caduta di Idlib – importante città siriana situata nel nordovest del Paese – in mano ai terroristi di Al Nusra e di altri gruppi è stata salutata da esponenti governativi turchi, a quanto afferma il quotidiano Hurriyet, come “una vittoria dell’opposizione siriana”, e questo testimonia l’ambiguità e la strumentalità della considerazione delle forze in campo.

Il 7 aprile il Capo di Stato Erdogan si recherà in visita ufficiale a Teheran, e questo potrebbe essere un momento importante nella definizione degli scenari futuri; le recenti (26 marzo) dichiarazioni di Erdogan hanno ulteriormente alimentato le tensioni: “L’Iran cerca di dominare la regione – ha affermato – se forze iraniane sono dispiegate nello Yemen, in Siria e in Iraq, esse devono essere ritirate”.
Gli ha risposto con franchezza il ministro degli Esteri di Teheran, Mohammad Javad Zarif: “Coloro che hanno causato danni irreparabili con i loro errori strategici farebbero bene a mostrarsi più responsabili, per favorire la stabilità della regione”.

Aldo Braccio

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L’AUT-AUT DELLA MOLDAVIA E IL FATTORE TRANSNISTRIA

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Se l’Unione Europea chiama la Moldavia all’interno della sua comunità politico-economica, gli scenari lungo il confine russo-ucraino potrebbero spingere definitivamente la Repubblica Moldava di Pridnestrov’e verso Mosca.
La vicenda sembra non più essere sottovalutata neanche dal Governo centrale di Chişinău che, soprattutto in politica estera, ha varato scelte di un’ importanza geopolitica e strategica non indifferente rispetto ai “due blocchi” oggi contrapposti.

A poco più di anno dalla decisione presa attraverso lo strumento referendario dalla popolazione di Crimea, nonostante il controllo amministrativo della regione rimanga giuridicamente conteso tra la Federazione Russa e l’Ucraina, il pericolo di un totale contagio proveniente soprattutto dalle autoproclamate repubbliche di Lugansk e Doneck è palese al neoeletto governo del Primo Ministro Iurie Leancă.

Dopo aver scongiurato un nuovo ricongiungimento alla Romania, argomento in realtà ancora vivo negli ambienti diplomatici più conservatori di Bucarest, e dopo aver perso nel corso del Novecento l’attuale parte ucraina della Bessarabia e quella della Bucovina del Nord, la nuova sfida per la Moldavia rimane quella di non vedere ridotta ulteriormente la propria sovranità territoriale alla luce delle scelte sostenute in campo europeo.
L’avvicinamento a Bruxelles, sancito dall’ingresso nell’area Schengen e dalla firma dell’Accordo di Associazione in ambito commerciale, ha conseguentemente condotto la Russia ad intraprendere pesanti restrizioni varando un embargo di tutti i prodotti agricoli moldavi.
Inoltre, il continuo ostracismo moldavo nei confronti dei mezzi di informazione russi presenti nel Paese, palese nei recenti casi dei giornalisti Dmitry Kiselev e Andrei Kondrashov, hanno spinto il Cremlino a definire le decisioni di Chişinău lesive dei diritti umani e negativamente in linea con le posizioni ucraine e filo-occidentali di Poroshenko.
Come affermato dal politologo, nonché abitante della Transnistria, Andrey Safonov, i rapporti tra le varie entità statali riconosciute de iure e de facto all’interno dei “Balcani orientali” potrebbero divenire pericolose per la Moldavia.
Se il conflitto russo-ucraino condurrà Kiev ad accettare una qualsiasi intesa politica con Bucarest, nel vicendevole tentativo di ripristinare nuovi rapporti con le rispettive comunità minoritarie nel territorio moldavo, Chişinău paleserebbe tutta la sua fragilità politica non riuscendo ad autorappresentarsi come terza forza all’interno della micro-regione.
Quindi, nonostante l’impegno di integrazione voluto da Bruxelles e l’apertura delle porte del mercato unico europeo, non è solo il risentimento russo l’unico fattore descrittivo dell’attuale aut-aut geopolitico a cui la Moldavia è chiamata a rispondere.

A differenza delle rosee aspettative mostrate dai burocrati dell’Unione Europea, le ultime elezioni hanno ulteriormente confermato quel fardello storico-culturale che la Moldavia sembra non riuscire ad abbandonare.
Con una società profondamente spaccata fra quella popolazione contadina che guarda ad oriente spinta dalla lunga tradizione sovietica, e chi invece vorrebbe virare verso più salde relazioni con l’Occidente poiché spaventato proprio dalla scomoda potenza russa, la nuova compagine di governo è il risultato della paura di un popolo intimorito molto più dal conflitto in Ucraina e dal riacuirsi dell’escalation di violenza in Transnistria che dalla decennale crisi istituzionale.
La presenza dell’esercito russo a Tiraspol, capitale e centro nevralgico della de facto Repubblica Moldava di Pridnestrov’e, continua a spaventare quei cittadini andati alle urne proprio perché intimoriti dai separatisti presenti nel Paese.

Ciò che accade a pochi chilometri dalla capitale moldava, appena al di là del fiume Nistro, potrebbe giocare un ruolo fondamentale all’interno della politica nazionale.
Se la nuova maggioranza pro-Ue sembra non rischiare nessuna crisi politica al suo interno, poiché composta dai maggiori partiti del Paese e dal Partito Comunista moldavo, è l’ala socialista che spaventa non poco le istituzioni di Chişinău.
Il Partito dei Socialisti rimane infatti l’unica forza dichiaratamente filo-russa e anti-europeista, conscio di aver perso l’occasione di ribaltare l’esito delle urne a causa dell’astensionismo degli abitanti della Transnistria. Nonostante il rapporto comunisti-socialisti rimanga “dialettico”, sono proprio le posizioni prese in politica estera che dividono i due maggiori partiti della sinistra moldava.
Se il Partito Comunista ha sempre mantenuto una politica volta alla crescita nazionale, la tradizione sovietica presente nel Paese ha spinto già da un paio di anni il Partito dei Socialisti ad inaugurare una linea economica libera dai vincoli occidentali.
Oltre all’astensionismo della regione della Transinistria, la Moldavia è interessata dal nuovo fenomeno del patriottismo filo-russo capace di superare gli storici steccati ideologici all’interno dell’ormai ex territorio sovietico. Uno dei fenomeni più interessanti riguarda la crescita della formazione “Patria”, esclusa dai giochi elettorali per presunti finanziamenti esteri che in Moldavia sono giuridicamente riconosciuti illeciti. Leader nella nuova formazione è l’uomo d’affari Renato Usatîi, moldavo ma cittadino russo, fermo sostenitore dell’Unione Doganale Euroasiatica sancita da Vladimir Putin con Bielorussia, Kazakistan e Armenia. Contraria all’ideologia liberal-unionista romena, ma anche contro l’avvicinamento seppur economico-commerciale all’Unione Europea, “Patria” sembra posizionarsi sulla scia del Partito dei Socialisti.

In realtà, ancora una volta nella regione balcanica sono proprio le vecchie scelte della comunità internazionale e dell’Unione Europea che sembrano ritorcersi contro l’ordine costituito dalla diplomazia occidentale.
La Transnistria oggi potrebbe essere spinta versa la definitiva indipendenza proprio dalla decisioni prese nel 2011 a Vienna sotto la guida dell’Osce e del gruppo dei 5+2. Le istituzioni di Chișinău insieme ai separatisti di Tiraspol, ai diplomatici russi, ucraini, statunitensi ed europei, vararono il miglioramento di infrastrutture come la linea ferroviaria che collega la capitale moldava ad Odessa, nonché il ripristino delle linee di comunicazione tra la Transnistria e le due parti del fiume Dnestr. Inoltre, nessuna sanzione fu intrapresa né contro la presenza dell’esercito russo in Transnistria né per la fabbrica di munizioni nella municipalità di Tighina.
La regione che aveva rappresentato la zona cuscinetto come argine alla stessa guerra interna, oggi con la presenza di quasi ottomila soldati russi e delle brigate di fanteria di Tiraspol, Bender, Rîbniţa e Dubăsari si è trasformata nella prima preoccupazione per la Moldavia e non solo per essa.

Francesco Trupia

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LE APPLICAZIONI DELLA TECNICA BIOMETRICA NELL’INTELLIGENCE

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L’identificazione di John il jihadista è il prodotto ottenuto dal connubio fra tecnologia ed intelligence. Un successo raggiunto dalle indagini criminologiche classiche dell’FBI, ed il Criminal Justice Information Service, in particolare del Centro Divisione Biometrica. È una banca dati dove vengono immagazzinate le immagini di volti, voci, impronte digitali ed altro, registrate dal Next Generation Identification dell’FBI. È un servizio interoperabile sia con l’Automated Biometric Identification System militare, quanto con quello della Sicurezza Nazionale. La minaccia asimmetrica dell’eversione, ha indotto gli analisti strategici e di intelligence dei maggiori “attori” occidentali, a preconizzare una età del terrorismo, adeguata al mondo globalizzato ed iperconnesso. Questo perché si sta verificando un affinamento delle tecniche eversive, dei nuovi strumenti per attuarle ed infine dell’imprevedibilità degli obiettivi da colpire. Quello che rimane invariato è lo scopo manifesto dei terroristi: creare il timore collettivo abbattendo i confini della sicurezza individuale, porre in discussione le capacità dello Stato Sovrano di garantire l’incolumità dei propri cittadini e sminuire l’efficacia delle Forze dell’Ordine. Dunque il fallimento delle Istituzioni a cui si contrappone l’efficienza e l’organizzazione eversiva. Questo ha ingenerato una contestuale revisione delle tecniche di tutela sociale. Una metodologia di contrasto alla strategia del terrore è nell’utilizzare i dati biometrici, ossia pensare alle immagini come una risorsa per catturare la realtà ed ingenerare un deterrente all’eversione. Per ottenere la maggiore accuratezza possibile è necessario fondere alla biometria le ricerche scientifiche, la raccolta informazioni (Humint) e l’intelligenza artificiale. Un sistema che genera dal necessario ripensamento delle azioni repressive e contestualmente delle metodologie per la tutela dei cittadini a fronte dell’evoluzione globale del crimine. La biometria amalgama scienza e tecnologia applicata ed è destinata a stabilire come le caratteristiche fisiche, uniche per ciascun individuo, possano trasformarsi in uno strumento identificativo. La struttura del corpo umano solo apparentemente è uguale, ma in realtà la voce, il viso, gli atteggiamenti, la grafia, l’iride e le impronte digitali sono una uniche per ogni essere umano. Con la biometria queste peculiarità possono essere rilevate e classificate per poi essere il mezzo per l’identificazione. Dunque, la biometria si tramuta in biologia quantitativa, consentendo di stabilire la relazione fra le osservazioni e le descrizioni per l’assunzione dei principi teorici atte ad interpretarle. Le caratteristiche di un singolo essere umano, rilevate ed immagazzinate, non possono prescindere da precisi parametri: devono essere costanti nel tempo; osservate in condizioni normali; distintive per ognuno degli investigati; il grado di affidabilità deve essere elevato; non devono violare la privacy della persona. Di fatto, il peso, la struttura fisica, il colore degli occhi e dei capelli, non soddisfano i criteri di ricerca biometrici. L’impronta digitale è uno dei sistemi più datati in uso alle Forze dell’Ordine, ma alcune variabili come le escoriazioni, l’errato posizionamento delle dita sul sensore di rilevamento, variazioni di illuminazione e temperatura costringono gli investigatori ad adottare la regola di: “due caratteristiche biometriche coincidono”, dunque due o più criteri di ricerca devono giungere ad un unico risultato. Il riconoscimento facciale soddisfa tale processo, in quanto vi sono rilevabili le caratteristiche olistiche, dove ogni tratto è peculiarità dell’intero volto. Le immagini dell’individuo oggetto di indagine, sono tratte da scatti fotografici o video. Laddove quest’ultimo sia stato ripreso in luoghi affollati, il database riconosce uno o più volti immagazzinati, segmenta la scena in disordine per focalizzarli meglio ed infine estrapola le caratteristiche della regione facciale. L’Analisi in componenti principali (PCA) interpreta il viso come un punto in uno spazio n-dimensionato, lo spazio delle immagini, e la proietta in un nuovo spazio con l’ausilio di una trasformazione lineare che tende a massimizzare la cosiddetta variazione delle facce. In pratica il sistema individua e memorizza i tratti discriminanti del volto, li memorizza e li confronta con altri fino ad esprimere un giudizio di somiglianza. Il Local Component Analysys è un altro ausilio per gli investigatori ed è in grado di effettuare un riconoscimento automatico indipendentemente dalle condizioni della scena ripresa e della faccia. Gli investigatori biometrici, si concentrano principalmente sulla topografia dell’iride: l’iride è una fonte di informazioni che si diramano all’intero organismo, compresi gli aspetti psichici, patologici ed ereditari. Pertanto, disporre dei dati di un consanguineo dell’investigato, vuol significare possedere anche quelli dell’inquisito. Tale indagine consente di delineare un quadro completo del soggetto esaminato: caratteristiche e condizioni generali quali personalità, difese immunitarie, livello di stress, patologie in atto e pregresse. L’iride è lo specchio dell’individuo con tutte le sue differenze e singolarità, per questo è il metodo di analisi più accreditato fra gli investigatori. La biometria, dunque, consente l’identificazione di un quadro ben definito che poi viene commutato in un codice; in tal modo i confronti fra i dati immagazzinati e quelli rilevati successivamente avverranno tra numeri piuttosto che tra immagini, con il risultato di velocizzare l’indagine. Il codice è in un iperspazio probabilistico a dimensioni non intere, e metriche non euclidee dall’elevata complessità, così come la possibilità di rilevare velocemente le identificazioni su database molto grandi. Questo descrive l’impronta biometrica di un singolo individuo come un punto in uno spazio di probabilità. I sistemi biometrici hanno la peculiarità di poter riconoscere un essere umano, attraverso la connotazione facciale, l’analisi della gestualità e le azioni, anche in ambienti ad alta densità di popolazione. Per ottenere il record biometrico di un sospetto, è necessario, però, ricorrere ai vecchi metodi investigativi: è fondamentale la raccolta di informazioni relative ad impronte vocali, abitudini, parentele, amicizie, luoghi frequentati ed altro ancora del sospettato, per poi confrontarle con le immagini del soggetto indagato, sino a trovarne le corrispondenze. Esattamente come è acceduto per John il jihadista.

L’intelligence è comunemente riferita a quella branca delle scienze strategiche che analizza le interazioni dei soggetti con cui si è costretti a relazionarsi. Le metodologie atte a reperire informazioni sugli avversari sono molteplici, da quelle tecnologiche come la Sigint, Imint e Masint, alle Osint, che utilizza le fonti aperte, ossia gli organi di stampa, sino alla Humint, Human Intelligence. Quest’ultima è la riutilizzazione di un processo di acquisizione dati in uso quando la tecnologia non era molto avanzata, ma paradossalmente le evoluzioni degli scenari, con la loro multipolarità ed asimmetria, ha costretto gli investigatori a tornare sulla componente umana dell’intelligence. Ogni stratega ha la necessità di carpire la mentalità del suo avversario, così può tentare di ragionare come lui in modo da poterne anticipare le mosse e le decisioni. Pertanto dovrà conoscerlo e, se possibile, interagire con lui; più semplicemente ottenere un contatto diretto, visibile e colloquiale. Per tali motivi, l’operatore humint dovrà incontrare l’avversario, porgli dei quesiti, siano essi generici o specifici, ed osservare i suoi comportamenti fino a delinearne un profilo psicologico, umano, professionale e personale. Solo con l’acquisizione di questi dati, l’operatore humint sarà in grado di presagire le reazioni e decisioni del soggetto bersaglio. La Human Intelligence è la sezione dei servizi che fonda le proprie analisi ed interpretazioni sulle acquisizioni reperite sul campo, sul contatto con il nemico attraverso l’interazione con le risorse umane dell’avversario stesso. Una tecnica che prevede la capacità relazionale, l’arte di carpire informazioni, ma anche l’esperienza di estrapolare dai quesiti posti al soggetto bersaglio i significati di interesse per la sicurezza nazionale. Gli agenti humint agiscono sotto copertura infiltrandosi negli ambienti di interesse strategico ed operativo della loro nazione, ma non tutti sono in grado di svolgere il compito con la necessaria efficacia. Per ottenere risultati avranno bisogno non solo dell’addestramento, ma di una specifica attitudine alle relazioni umane, ad interagire con spontaneità e gestire la conversazione per indurre il bersaglio ad esprimersi con naturalezza e sincerità. Un bagaglio culturale che aiuterà l’agente operativo a penetrare nella forma mentis dell’avversario, calandosi nei modi, linguaggi e mentalità del soggetto bersaglio, sostenendo una parte teatrale senza logorarsi psicologicamente e sopportando alti livelli di stress. Altra condizione per ottenere le informazioni è quello di conoscere perfettamente la zona delle operazioni, nella quale l’agente dovrà muoversi senza esitazioni. Ciò gli consentirà di essere parte del territorio e questo lo agevolerà ad avvicinare più soggetti per poi mutarli nel ruolo di fonti, ossia informatori occasionali reclutati tra la popolazione. Le fonti assoldate sul campo, in base al loro status ed alla continuità della collaborazione, potranno essere anche pagate per i servizi resi, in particolare quelli consapevoli del proprio ruolo, ma questi dovranno essere poi indottrinati sulle regole di sicurezza sino a farle proprie, per la loro stessa sicurezza ed anche per quella dell’agente reclutatore. Lo humint militare può adottare anche l’interrogatorio, oppure persuasioni coatte sul soggetto bersaglio, soprattutto se il prigioniero non è un militare e quindi non vincolato alla Convenzione di Ginevra. Il riferimento a tale attività di persuasione è per i terroristi o comunque per i componenti di cellule insorgenti.

Negli interrogatori si applicano le tecniche di manipolazione, suggestione, persuasione e pressione psicologiche od anche i cosiddetti fastidi fisici. Questi ultimi sono limitati a creare bisogni fisiologici che l’interrogante utilizza per indurre alla collaborazione il prigioniero. La biometria potrebbe essere usata anche per dissimulare un agente infiltrato, pertanto le principali agenzie di sicurezza hanno sviluppato alcune contromisure a protezione del personale impiegato sul campo. I documenti della CIA svelati da WikiLeaks, raccontano parte dell’addestramento ricevuto dall’agente sotto copertura, e sono intitolati “Surviving Secondary” e “Schengen Overwiev”. Il contenuto era “NOFORN”, dunque non condivisibile, e messo a punto dalla divisione “Checkpoint” che si occupa della protezione degli humint. Principalmente si consiglia di preparare in anticipo dei profili sui social con l’identità di cui si serviranno, di non dotarsi di personal computer con dati discordanti dal personaggio che interpreteranno, di non acquistare biglietti per il trasporto in contanti, in quanto potrebbero essere rilevate le impronte digitali, conoscere quali paesi effettuano controlli biometrici alle frontiere, in modo da tenere un comportamento coerente e tranquillo per non essere bloccati e sottoposti al riconoscimento tecnico. In questo caso in particolare, è necessario che mantengano il controllo del proprio corpo, in quanto le Forze di Polizia sono addestrate ad individuare persone sospette sull’atteggiamento che palesano. Altri consigli presenti nei documenti della CIA sono definibili come ovvi, ad esempio l’abbigliamento che dovrà essere consono al personaggio che si dovrà interpretare.

Al fine di ottenere il miglior risultato possibile da una indagine biometrica, è necessario valutare il contesto ambientale dove le attrezzature verranno impiegate ed applicate. Se quest’ultime sono all’aperto potrebbero essere scoperte e danneggiate, pertanto si pone la necessità di proteggerle dissimulandole opportunamente od anche facendole sorvegliare da personale qualificato. Inoltre è necessaria la protezione da attacchi informatici, anche con l’ausilio di tecniche crittografiche e di controllo della rete. Attualmente i sistemi in uso sono: la cifratura dei dati di ogni singolo soggetto; i metodi di biohashing; trasformazioni irreversibili; tecniche di cifratura omomorfiche e di intelligenza computazionale. Il processo di riconoscimento biometrico è diviso in due fasi: la prima di “arruolamento” (enrollment) crea e memorizza le caratteristiche del soggetto; la seconda è quella del riconoscimento, ossia la verifica dell’identità dell’indagato ottenuta dal confronto con i dati memorizzati. Ma in questo processo emerge la necessità di proteggere la privacy dei soggetti sotto esame. I tratti biometrici che non subiscono mutazioni nel lungo periodo e consentono l’elevata accuratezza nel riconoscimento di un singolo essere umano, quelli su cui si basa l’indagine, devono essere usati solo per le applicazioni che richiedono elevati standard di sicurezza. Laddove questa condizione non sia soddisfatta, l’investigatore potrà disporre dei tratti maggiormente mutevoli o comunque di minore accuratezza. Tale accorgimento può garantire la necessaria riservatezza ai soggetti non direttamente coinvolti nell’indagine.

Giovanni Caprara

Bibliografia
Gianfilippo Magro, Gerardo Iovane,” La biometria e i nuovi sistemi di identificazione”. www.carabinieri.it
Patrick Tucker, “The future of biometrics”. Defense One, 2015
R. Donida, A. Genovese, F. Scotti, “Biometria: tecnologie, applicazioni e aspetty di privacy. La rivista di FormareNetwork.
Redazione, “I consigli della CIA per le sue spie”. Diritti Globali, 2015

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GUERRA PSICOLOGICA E TERRORISMO CONTEMPORANEO

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ATTUALITA’ DELLA GUERRA PSICOLOGICA

Nell’era dell’informazione è semplicemente suicida trascurare la comunicazione sul piano militare – sia essa inserita in un piano strutturato di guerra psicologica o costituita semplicemente dalla classica propaganda – così come stanno facendo gli stati occidentali che si suppongono impegnati nella guerra al califfato. La rivoluzione 2.0 della comunicazione diffusa e della trasformazione del fruitore/consumatore di informazioni in produttore di informazioni permessa dai nuovi strumenti di comunicazione internet e dalla diffusione dei dispositivi portatili non deve illudere sulla perdita di importanza della “comunicazione istituzionale”: quella classica, monodirezionale e propagandistica che ben lungi dall’essere svanita può invece divenire più sottile, più raffinata ed efficace. Un esempio di come si reagisca ad un attacco propagandistico e mediatico in una situazione bellica ci è stata data dalla Russia nel teatro Ucraino: alla narrazione presentata dai grandi media occidentali che sono riusciti – uniti come un sol uomo – a presentare i manifestanti di Majdan come idealisti pacifici animati da spinte europeiste, il nuovo governo di Kiev come convinto assertore di quei valori e politici nazionalisti ucraini di provenienza oligarchica e dal passato opaco come Julija Timoschenko come eroi della lotta per la democrazia, la tattica russa è stata sin da subito tesa a mostrare la partecipazione tanto ai tumulti che portarono alla deposizione di Janukovich quanto alla successiva guerra nell’est del paese, di estremisti di destra violenti e ideologicamente connotati in senso neonazista (1). Lo sforzo propagandistico profuso dai media occidentali allineati su posizioni atlantiste sarebbe stato degno di miglior causa: infatti gli stessi governi occidentali e – sospettano gli esperti (2) – anche i loro servizi informativi e di sicurezza mancano di un serio piano di guerra psicologica, guerra mediatica e guerra culturale al fondamentalismo islamico. Non è questa la sede per darci ad un’analisi minuziosa di come il califfo stia – con grande successo – comunicando. L’ISPI ha già prodotto una sintesi magistrale cui rimandiamo in nota (3). Ci è sufficiente sottolineare come un qualsiasi gruppo terrorista viva, lapalissianamente, della quantità di terrore che riesce a produrre e trasmettere. Scopo di questo brevissimo studio non è descrivere la comunicazione dello Stato Islamico, quanto costatarne il successo e non l’insuccesso ma l’assenza di reazione dell’occidente.

 

IL SUCCESSO MEDIATICO DEL COSIDDETTO “STATO ISLAMICO”

Il sedicente “Stato Islamico” sta perfettamente centrando l’obiettivo di dettarci l’agenda mediatica e quindi di manipolare la nostra emotività colpendo l’immaginario occidentale con due strumenti:

1. Ostentando una violenza estrema, paradossale, sproporzionata (i filmati delle decapitazioni, il prigioniero giordano bruciato vivo)

2. Colpendo la nostra opinione pubblica su temi nella quale è sensibile: la distruzione del patrimonio archeologico dell’Iraq, la fanatica iconoclastia, l’assalto alle comunità cristiane (quelle alle quali ci sentiamo giocoforza più vicini e inconsciamente solidali) (4)

Non si limita però a farsi forte delle nostre paure, ma usa la forza e la costruzione di un’immagine di invincibilità per un’efficace propaganda di reclutamento. L’immagine di entità politica militarmente invincibile, sicura di sé e della propria visione del mondo è un messaggio quanto mai potente se rivolto alle masse sunnite medio orientali deluse dal fallimento delle “primavere” e alle masse di immigrati presenti in Europa, sia quelle che si trovano in oggettivo stato di emarginazione (si pensi ai giovani disoccupati delle periferie) sia quelle ormai agiate che si sono semplicemente aggiunte all’amorfa borghesia occidentale priva ormai di qualsiasi valore e di qualsiasi base di “pensiero forte”, assenza morale alla quale lo SI si propone appunto di supplire.

 

INCAPACITA’ DI RISPOSTA EUROPEA SUL PIANO DELLA COMUNICAZIONE

Di fronte ad una strategia di comunicazione brutale ed efficace che ne mette in crisi le certezze e parla direttamente alle sue paure, l’occidente (da qui in poi, l’Europa: il concetto di “Occidente” come unità monolitica è destituito di fondamento) non è stato in grado di elaborare alcuna risposta.

1. Nessuna campagna mediatica per cercare di mettersi in contatto con il mondo musulmano sunnita inteso come “comunità”, bensì qualche tentativo abbozzato di “recupero e riabilitazione” di ex-gihadisti, strategia che denuncia la nostra incapacità di pensare se non in termini di “individui” e di fare quindi analisi culturale e sociale: siamo vittime del nostro stesso individualismo elevato a ideologia e a prassi. Lo “Stato Islamico” attiva una comunicazione di massa. L’Europa risponde con una “comunicazione al soggetto”.

2. Per di più, essa è prigioniera dello schema americano “buoni contro cattivi”. Non trova dei “buoni” da giocarsi contro i “cattivi”, realtà facilmente costruita in Ucraina, e quindi subisce la crisi del semplicistico schema.

3. In definitiva, l’assenza di una strategia comunicativa e di una narrazione da proporre al nemico e alle popolazioni che possono essere affascinate dal suo messaggio si riflette nell’assenza di tattica e di operatività. I nostri servizi di sicurezza ritengono intelligente chiudere i siti e le pagine Facebook di propaganda gihadista? Non pensano sia meglio sfruttarle come vetrina e finestra su quel mondo, sui suoi linguaggi e sugli stessi operatori dietro a quei canali? (5)

 

LA GUERRA PSICOLOGICA NON MEDIATICA

Per quanto concerne le tattiche non mediatico/comunicative/culturali di guerra psicologica, vale a dire lo studio della cultura del nemico, l’infiltrazione e gli strumenti derivati dall’HUMINT (human intelligence) i paesi europei sono ancora deficitari. Sullo studio del nemico islamista, della sua storia, cultura e psicologia, dei suoi codici e linguaggi, sconta un ritardo imbarazzante. Il califfo nero sa esattamente cosa suggestiona l’immaginario europeo (decapitazioni, atti di iconoclastia…). Le nazioni europee brancolano nel buio anche solo quando si tratta di distinguere cultura sciita (sensibile come la nostra all’iconoclastia e caratterizzata da una forte devozione a figure spirituali simile per certi aspetti al nostro culto dei santi) e cultura sunnita (più o meno rigidamente aniconica). Sull’analisi psicologica del nemico siamo tanto arretrati da immaginare ancora il fenomeno dell’estremismo religioso come riguardante principalmente i poveri e gli emarginati – e siamo pertanto vittime della mentalità laicista che vuole la religione, qualsiasi religione, come fenomeno del passato, riservato ai minus habentes ed incapace di produrre cultura nel senso positivo – ed ignoriamo il ritorno alla religione della borghesia (6) (come quella degli europei convertiti), avvenga questo ritorno per (anti?)conformismo, per ricerca di valori forti nell’era del pensiero debole o per sincera ricerca spirituale. Sull’infiltrazione e sul livello di attività HUMINT il livello di complessità si alza ulteriormente e merita un discorso a parte.

 

NIENTE STRATEGIA, NIENTE TATTICA – AL MASSIMO COMPLICITA’

Ogni guerra si combatte con una strategia, ogni guerra psicologica si predica anche di comunicazione e di narrazione, e l’Europa una strategia, una tattica e una narrazione di sé non le ha. Come potrebbe averne un continente diviso e litigioso rappresentato, tra l’altro, da quella sovrastruttura burocratica, da quel Moloch che va sotto il nome di Unione Europea? Vale la pena ripeterlo: l’Europa non possiede una narrazione di sé, ecco perché non è in grado di proporne alcuna all’esterno. Eppure si fa largo il sospetto che l’inazione europea sottenda cattiva coscienza. Senza citare l’eterno caso del sostegno ai mugiahedin afghani ed affini, è inquietante notare come le potenze europee e di area NATO abbiano, quando non appoggiato attivamente, chiuso uno o entrambi gli occhi sull’attività del fondamentalismo settario anche alle porte dell’Europa (Bosnia, Cossovo) o dentro i paesi UE, che forniscono tutt’oggi asilo e garantiscono libertà di parola e propaganda a esponenti del separatismo ceceno (7) o di inquietanti apologeti del gihadismo (8). Quanto zone d’ombra dell’attentato di Parigi già molto si è detto, scadendo anche nel banale complottismo. E’ proprio in queste zone d’ombra e nelle organizzazioni gihadiste basate in Europa che c’è da augurarsi agiscano i nostri servizi informativi e di sicurezza, pur colpiti dai tagli di bilancio e dal “rompete le righe” seguito alla fine della Guerra Fredda. C’è da augurarselo perché per la sicurezza il fattore HUMINT e l’infiltrazione si conferma imprescindibile, non fosse altro perché l’estrema fiducia riposta negli strumenti tecnologici fin ora è stata tradita. Di certo è proprio in quelle zone d’ombra che si è mosso in modo ambiguo l’indirizzo politico: gli obiettivi dei governi. Il proficuo ruolo il grand-guignol dello “Stato Islamico” svolge nell’impedire che sorga una potenza medio orientale che possa coalizzare a sé i popoli arabi in senso modernizzatore (il sogno di Nasser, l’incubo degli USA, di Israele e dei Sauditi) è ormai noto anche ad analisti non certo ostili alle logiche atlantiste (9). E’ quantomeno legittimo sospettare che, quando obiettivo primario delle potenze atlantiste era la rimozione del governo baathista siriano, i servizi di controspionaggio europei abbiano ricevuto mandato di chiudere un occhio (i servizi turchi entrambi) sul flusso di combattenti che si recava in Siria per unirsi ai libelli. E’ questa la cattiva coscienza di cui si parlava all’inizio del paragrafo, è questa la schizofrenia strategica che ci affligge – i ribelli siriani passati da “eroi in lotta contro un regime sanguinario” a “terroristi fondamentalisti” nel giro di tre-quattro anni – e che ci impedisce di impostare qualsiasi tattica.

 

CONCLUSIONI: UN CAMBIO DI PROSPETTIVA

Lo stato di cose sin qui esposto ed analizzato è figlio della miopia delle nostre classi dirigenti, alle quali dovremmo chiedere coerenza e visione, non una marcia dei buoni propositi nel centro di Parigi, per di più invitando il presidente turco. Il terrorismo politico degli anni ’70 fu vinto dal benessere degli anni ’80 e ’90, non da strategie vincenti dei governi – strategie che non si videro. La violenza dei terroristi rossi, anarchici e neri li isolò da una società che aveva la pancia troppo piena per sognare superuomini nietzschiani o soli dell’avvenire. Il terrorismo religioso non ci lascerà questo aggio perché si radica tanto nelle pance piene che in quelle vuote. Sarebbe bene cominciare a darne una lettura geopolitica e strategica, non solo “sentimentale”, alla “je suis” – per quanto, proprio nella logica sin qui indicata trasmettere ed enfatizzare l’immagine di una società unita contro la violenza e non divisa su basi settarie sia quantomeno un inizio.

Amedeo Maddaluno

 

NOTE
1. http://www.geopolitica-rivista.org/26031/che-cose-la-guerra-culturale/
2. http://www.aldogiannuli.it/fallimento-lotta-al-terrorismo/
3. http://www.ispionline.it/it/articoli/articolo/sicurezza-mediterraneo-medio-oriente-italia/twitter-e-jihad-la-comunicazione-dellisis-12852
4. È da notare che nessuna delle atrocità messe in campo dal sedicente “Stato Islamico”, dal rogo alla decapitazione alla pratica iconoclasta, sia in realtà estranea alla storia occidentale: si tratta piuttosto di traumi antichi che l’Occidente ha preteso rimuovere dal proprio immaginario per meglio illudersi di poter vivere in un mondo irenico.
5. http://www.aldogiannuli.it/fallimento-lotta-al-terrorismo/
6. Si veda l’interessantissimo studio di M. Graziano, “Guerra Santa e Santa Alleanza” appena uscito per Il Mulino: un testo imprescindibile per chi voglia mettere in relazione la sociologia delle religioni con la geopolitica delle religioni.
7. http://www.balcanicaucaso.org/aree/Cecenia/I-ceceni-e-la-guerra-ucraina-159892 – “Durante la seconda guerra cecena, tra il 1999 e il 2000, Isa Munaev dopo aver subito una grave ferita lasciò il paese e ottenne asilo in Danimarca. Dalla Danimarca organizzò nel 2009 il movimento Svobodnyj Kavkaz (Caucaso Libero) e nel marzo 2014 costituì il battaglione di volontari “Dzhokhar Dudaev” di cui egli subito assunse il comando schierandosi nella guerra in Ucraina orientale a fianco delle forze governative (anti-russe)”
8. http://www.ilcaffegeopolitico.org/23416/dalleuropa-medio-oriente-gruppo-jihadista-sharia4
9. http://www.ilsole24ore.com/art/mondo/2015-02-26/verita-e-bufale-isis-che-punto-e-veramente-avanzata-califfato-111310.shtml?uuid=ABJDaz0C – “C’è però una strategia più generale in atto da tempo, cui non sono certo estranei gli Stati Uniti e Israele: indebolire il mondo arabo, frammentarlo, impedire che nascano stati forti sulla base di ideologie nazionaliste e panarabe. La distruzione di Iraq e Siria, due regimi baathisti laici, corrispondeva e corrisponde esattamente a questo obiettivo. L’altro caposaldo è quello di impedire all’Iran sciita e ai suoi alleati di estendere la loro influenza. Per questo tutto serve: anche l’orrore barbaro del Califfato.”

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LUOGHI SANTI E “STATO ISLAMICO”

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Secondo una definizione complessiva che intende sintetizzare quelle fornite dai vari studiosi, la geopolitica può essere considerata come “lo studio delle relazioni internazionali in una prospettiva spaziale e geografica, ove si considerino l’influenza dei fattori geografici sulla politica estera degli Stati e le rivalità di potere su territori contesi tra due o più Stati, oppure tra diversi gruppi politici o movimenti armati”(1).
Per quanto grande sia il peso attribuito ai fattori geografici, permane tuttavia il rapporto della geopolitica con la dottrina dello Stato, sicché viene spontaneo porsi una questione che finora non ci risulta aver impegnato la riflessione degli studiosi. La questione è la seguente: sarebbe possibile applicare anche alla geopolitica la celebre affermazione di Carl Schmitt, secondo cui “tutti i concetti più pregnanti della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati”(2)? In altre parole, è ipotizzabile che la stessa geopolitica rappresenti la derivazione secolarizzata di un complesso di concetti teologici connessi alla “geografia sacra”?
Se così fosse, la geopolitica si troverebbe in una situazione per certi versi analoga non soltanto alla “moderna dottrina dello Stato”, ma alla generalità delle scienze moderne. Per essere più espliciti, ricorriamo ad una citazione di René Guénon: “Separando radicalmente le scienze da ogni principio superiore col pretesto di assicurar loro l’indipendenza, la concezione moderna le ha private di ogni significato profondo e perfino di ogni interesse vero dal punto di vista della conoscenza: ed esse son condannate a finire in un vicolo cieco, poiché questa concezione le chiude in un dominio irrimediabilmente limitato”(3).
Per quanto riguarda in particolare la “geografia sacra”, alla quale secondo la nostra ipotesi si ricollegherebbe in qualche modo la geopolitica, è ancora Guénon a fornirci una sintetica indicazione al riguardo. “Esiste realmente – egli scrive – una ‘geografia sacra’ o tradizionale che i moderni ignorano completamente così come tutte le altre conoscenze dello stesso genere: c’è un simbolismo geografico come c’è un simbolismo storico, ed è il valore simbolico che dà alle cose il loro significato profondo, perché esso è il mezzo che stabilisce la loro corrispondenza con realtà d’ordine superiore; ma, per determinare effettivamente questa corrispondenza, bisogna esser capaci, in una maniera o nell’altra, di percepire nelle cose stesse il riflesso di quelle realtà. È per questo che vi sono luoghi particolarmente adatti a servire da ‘supporto’ all’azione delle ‘influenze spirituali’, ed è su ciò che si è sempre basata l’installazione di certi ‘centri’ tradizionali principali o secondari, di cui gli ‘oracoli’ dell’antichità ed i luoghi di pellegrinaggio forniscono gli esempi esteriormente più appariscenti; per contro vi sono altri luoghi che sono non meno particolarmente favorevoli al manifestarsi di ‘influenze’ di carattere del tutto opposto, appartenenti alle più basse regioni del dominio sottile”(4).
Non è dunque detto che una traccia della “geografia sacra” non sia individuabile in alcune caratteristiche nozioni geopolitiche, che potrebbero essere perciò schmittianamente considerate “concetti teologici secolarizzati”. Si pensi, ad esempio, ai termini Heartland (“territorio cuore”) e pivot area (“area perno”), i quali, riprendendo alcune rappresentazioni d’origine asiatica che circolavano nei circoli fabiani frequentati da Mackinder, richiamano in maniera esplicita il simbolismo del cuore ed il simbolismo assiale e ripropongono in qualche modo quell’idea di “Centro del Mondo” che gli antichi rappresentarono attraverso una varietà di simboli, geografici e non geografici. Più volte ci si è offerta l’occasione per osservare che, se la scienza delle religioni ha mostrato che l’homo religiosus “aspira a vivere il più possibile vicino al Centro del Mondo e sa che il suo paese si trova effettivamente nel centro della superficie terrestre”(5), questa idea non è scomparsa con la visione “arcaica” del mondo, ma è sopravvissuta in modo più o meno consapevole in contesti storico-culturali più recenti(6).
D’altra parte, fra i termini geografici ve ne sono alcuni che le culture tradizionali hanno utilizzato per designare realtà appartenenti alla sfera spirituale. È il caso del termine polo, che nel lessico dell’esoterismo islamico indica il vertice della gerarchia iniziatica (al-qutb); è il caso di istmo, che nella versione araba (al-barzakh) indica quel mondo intermedio cui si riferisce anche l’espressione d’origine coranica “confluenza dei due mari” (majma’ al-bahrayn), “confluenza, cioè, del mondo delle Idee pure col mondo degli oggetti sensibili”(7).
Ma è lo stesso concetto di Eurasia che può essere assegnato alla categoria dei “concetti teologici secolarizzati”. Da una parte, infatti, la cosmologia indù e buddhista rappresenta l’Asia e l’Europa come un unico continente che ruota intorno all’asse della montagna cosmica; dall’altra, il più antico testo teologico dei Greci, la Teogonia esiodea, considera “Europa (…) ed Asia”(8) come due sorelle, entrambe figlie di Oceano e di Teti, sicché esse appartengono alla “sacra stirpe di figlie (thygatéron hieròn génos) che sulla terra – allevano gli uomini fino alla giovinezza, insieme col Signore Apollo – e coi Fiumi: questa sorte esse hanno da Zeus”(9).
In relazione a quanto esposto dalla teologia greca, vale la pena di notare che tra le sorelle di Europa e di Asia figura anche Perseide, il nome della quale è significativamente connesso non solo a quello del greco Perseo, ma anche a quello di Perse, figlio di lui e progenitore dei Persiani. Ascoltiamo ora il teologo della storia: “Ma dopo che Perseo, figlio di Danae e di Zeus, giunse presso Cefeo figlio di Belo e sposò la figlia di lui Andromeda, gli nacque un figlio, al quale mise nome Perse; e lo lasciò lì, perché Cefeo si trovava ad esser privo di figliolanza maschile. Da lui dunque [i Persiani] ebbero nome”(10).
La stretta parentela dell’Asia con l’Europa è proclamata infine anche dal teologo della tragedia, il quale nella parodo dei Persiani ci presenta la Persia e la Grecia come due “sorelle di sangue, di una medesima stirpe (kasignéta génous tautoû)”(11), mostrandoci “gli assolutamente distinti (i Due che, in Erodoto, non possono non muoversi guerra) come alla radice inseparabili”(12). Tale è il commento di Massimo Cacciari, al quale l’immagine eschilea, rappresentativa della radicale connessione di Europa e di Asia, ha fornito lo spunto per concepire il progetto di una “geofilosofia dell’Europa”.
Altri hanno cercato di andare oltre, tracciando le linee di una “geofilosofia dell’Eurasia”. Ad esempio Fabio Falchi, accogliendo la prospettiva corbiniana dell’Eurasia quale luogo ontologico della teofania (13), ambisce a fare della posizione geofilosofica il grado di passaggio a quella “geosofica, la quale è compiutamente intellegibile se, e solo se, sia posta in relazione con la prospettiva metafisica”(14).

* * *

Se è vero che a volte nella geopolitica si possono cogliere alcune remote risonanze di motivi e nozioni appartenenti al simbolismo geografico delle culture religiose, è anche vero che il fattore religioso riveste una notevole importanza tra gli oggetti dell’analisi geopolitica. Il recente numero di “Eurasia” dedicato alla “geopolitica delle religioni” (n. 3 del 2014) ha appunto inteso mostrare come in diverse zone della terra il suddetto fattore costituisca, tra le altre cose, un parametro imprescindibile della geopolitica, specialmente nel caso di alcune odierne aree di crisi e di conflitto quali l’Ucraina, l’Iraq, la Palestina.
Il caso particolare del cosiddetto “Stato Islamico”, che insieme col caso ucraino è oggetto di più approfondita analisi in questo numero di “Eurasia”, impone all’attenzione dell’osservatore geopolitico un altro tema di rilievo: quello dei luoghi sacri, delle città sante, dei centri religiosi, delle mete di pellegrinaggio.
I luoghi di culto e i monumenti religiosi sono infatti un obiettivo privilegiato della furia distruttrice dei miliziani del sedicente “Califfo” Abu Bakr al-Baghdâdî, i quali li considerano centri di apostasia e di politeismo. Nei territori da loro controllati, infatti, sono state devastate o demolite moschee (sia sunnite sia sciite), chiese cristiane, tombe di profeti, di maestri spirituali e di uomini pii. Per limitarci a pochissimi casi emblematici, ricordiamo che a Mossul sono stati abbattuti il mausoleo del profeta Yunus e quello di San Giorgio; a Tikrit sono state fatte saltare in aria la Chiesa Verde (principale testimonianza della comunità assira, risalente al VII secolo) e la moschea dei Quaranta Santi (Wâlî Arba’în), una delle più significative testimonianze dell’architettura islamica del XIII secolo; ad Aleppo è stata ridotta in polvere la Moschea Khosrofiya, costruita nel 1537 dal grande Sinan; a Samarra è stato distrutto il mausoleo di Imam al-Dur, costruito nel 1085.
La matrice ideologica di tali azioni è evidente. Esse costituiscono una replica delle distruzioni dei siti storici e cultuali dell’Islam perpetrate in Arabia dai wahhabiti, in base alle teorie che condannano la dottrina dell’intercessione (tawassul) e assimilano all’idolatria la pia visita ad un luogo in cui sia sepolto un profeta o un santo. Nella penisola arabica le devastazioni più gravi dei siti aventi rilievo religioso o storico ebbero inizio nel 1806, quando l’esercito wahhabita occupò Medina: allora furono abbattute parecchie moschee e venne distrutto il cimitero di Baqi’ (Jannat al-Baqi’), dove riposavano i resti mortali di importanti figure degli esordi dell’Islam. In quella circostanza, perfino il sepolcro del Profeta Muhammad rischiò la distruzione. Il 21 aprile 1925 gli Ikhwân di ‘Abd el-‘Azîz ibn Sa’ûd demolirono altri monumenti della tradizione islamica, tra cui le tombe dei familiari del Profeta. In seguito, per effetto di una fatwa emessa nel 1994 da ‘Abd el-‘Azîz ibn Bâz, mufti del regime wahhabita saudiano, sono state distrutte circa sei centinaia di cimiteri, sepolcri, moschee, oratori e siti religiosi ultramillenari, tra cui la casa natale del Profeta a Mecca e la sua casa di Medina.
Se in Arabia, in Iraq e in Siria i luoghi santi e i monumenti religiosi sono oggetto della furia wahhabita e takfirita, in Palestina l’esistenza dei santuari islamici è minacciata dal regime d’occupazione sionista. Già nel 1967, quando si impadronirono di Gerusalemme, i sionisti avviarono un programma di scavi sotto il Monte del Tempio, a sud e sudovest, in un terreno appartenente al waqf che gestisce le moschee del Haram al-sharîf. “Gli scavi, diretti da un gruppo di eminenti archeologi israeliani, furono finanziati, in parte, da filantropi ebrei e in parte dalla Chiesa di Dio, un’istituzione fondamentalista che aveva sede a Pasadena in California e ramificazioni in tutto il mondo; era diretta da un certo Herbert Armstrong, che affermava di essere uno dei messaggeri di Dio in terra”15.
L’obiettivo finale degli scavi finanziati dai “filantropi ebrei”, guidati dal Rabbinato e patrocinati dal regime sionista è la demolizione della moschea di al-Aqsa e della Cupola della Roccia, le quali sorgono sulla stessa area su cui dovrebbe sorgere il Nuovo Tempio del giudaismo.

*Direttore di “Eurasia”.

NOTE
1. Emidio Diodato, Che cos’è la geopolitica, Carocci, Roma 2011.
2. Carl Schmitt, Teologia politica. Quattro capitoli sulla dottrina della sovranità, trad. it. di P. Schiera, in: C. Schmitt, Le categorie del politico, a cura di G. Miglio – P. Schiera, Il Mulino, Bologna 1972, p. 61.
3. René Guénon, La crisi del mondo moderno, Edizioni dell’Ascia, Roma 1953, p. 66.
4. René Guénon, Il regno della quantità e i segni dei tempi, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1969, pp. 162.
5. Mircea Eliade, Il sacro e il profano, Boringhieri, Torino 1967, p. 42.
6. Claudio Mutti, La funzione eurasiatica dell’Iran, “Eurasia”, 2, 2012, p. 176; Idem, Geopolitica del nazionalcomunismo romeno, in: M. Costa, Conducator. L’edificazione del socialismo romeno, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2012, pp. 5-6.
7. Henry Corbin, L’immagine del Tempio, Boringhieri, Torino 1983, p. 154. Sul barzakh, cfr. Glauco Giuliano, L’immagine del tempo in Henry Corbin, Mimesis, Milano-Udine 209, pp. 97-123.
8. Esiodo, Teogonia, 357-359.
9. Esiodo, Teogonia, 346-348.
10. Erodoto, VII, 61, 3.
11. Eschilo, Persiani, 185-186. Su questa immagine, cfr. C. Mutti, L’Iran in Europa, “Eurasia”, 1, 2008, pp. 33-34.
12. Massimo Cacciari, Geofilosofia dell’Europa, Adelphi, Milano 1994, p. 19.
13. “L’Eurasia è, oggi e per noi, la modalità geografico-geosofica del Mundus imaginalis” (Glauco Giuliano, L’immagine del tempo in Henry Corbin, cit., p. 40).
14. Glauco Giuliano, Tempus discretum. Henry Corbin all’Oriente dell’Occidente, Edizioni Torre d’Ercole, Travagliato (Brescia) 2012, p. 16.
15. Amos Elon, Gerusalemme, città di specchi, Rizzoli, Milano 1990, p. 256.

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L’EURASIA AGGREDITA SU PIÙ FRONTI

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Il 12 marzo 2015 il Parlamento dell’Unione Europea ha votato una risoluzione sulla relazione annuale tenuta dall’Alto Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la sicurezza. Dopo aver esordito sottolineando “il drastico peggioramento del contesto della sicurezza in tutta l’UE, in particolare nelle sue immediate vicinanze” (par. 1), il Parlamento europeo “rammenta che l’UE ha l’obbligo (…) di garantire che la sua azione esterna sia progettata e attuata allo scopo di consolidare e sostenere la democrazia, lo Stato di diritto, i diritti umani e i principi del diritto internazionale” (par. 16) e “prende atto dell’aumento della richiesta di assistenza internazionale nel sostegno alla democrazia” (par. 17).

Dopo alcune pagine, il testo della risoluzione parlamentare viene al dunque: il Parlamento “ritiene necessaria una strategia politica globale volta a ristabilire l’ordine politico europeo (…) e a vincolare tutti gli Stati europei, tra cui la Russia; (…) ritiene che lo sviluppo di un dialogo costruttivo con la Russia e con altri paesi del vicinato dell’UE in materia di cooperazione per rafforzare questo ordine costituisca una base importante per la pace e la stabilità in Europa, purché la Russia rispetti il diritto internazionale e assolva ai suoi impegni relativi alla Georgia, alla Moldova e all’Ucraina, compreso il ritiro dalla Crimea” (par. 30). Rispolverato il lessico della guerra fredda per enunciare la necessità di “contenere le ambizioni della Russia nel suo vicinato” (par. 31), il testo assume i toni dell’arringa. Il Parlamento “condanna fermamente il fatto che la Russia abbia violato il diritto internazionale mediante l’aggressione militare diretta e la guerra ibrida contro l’Ucraina, che ha provocato migliaia di vittime militari e civili, così come l’annessione e l’occupazione illegittime della Crimea e le azioni di natura analoga nei confronti dell’Abkhazia e dell’Ossezia meridionale, territori della Georgia; sottolinea l’allarmante deterioramento del rispetto dei diritti umani, della libertà di espressione e della libertà dei media in Crimea” (par. 34); “sostiene le sanzioni adottate dall’UE in reazione all’aggressione russa contro l’Ucraina [le quali] potrebbero anche essere rafforzate” (par. 35); “invita i paesi candidati all’adesione ad allineare la loro politica estera nei confronti della Russia con quelli dell’Unione” (par. 36); infine, toccando i vertici dell’impudenza, “sottolinea la necessità di un approccio europeo coerente nei confronti delle campagne di disinformazione e delle attività di propaganda utilizzate dalla Russia all’interno e all’esterno dell’UE; esorta il SEAE e la Commissione a presentare un piano d’azione con misure concrete per contrastare la propaganda russa; chiede la cooperazione con il Centro di eccellenza delle comunicazioni strategiche della NATO sulla questione” (par. 37).

Quanto alla NATO, il Parlamento europeo considera che “la cooperazione UE-NATO debba essere rafforzata e che sia necessario intensificare la pianificazione e il coordinamento tra la difesa intelligente della NATO e la messa in comune e la condivisione dell’UE” (par. 54). Esso infatti “ritiene che gli Stati Uniti siano il principale partner strategico dell’UE e promuove un maggior coordinamento, in condizioni di parità [sic], con tale paese in materia di politica estera dell’Unione Europea e a livello globale; sottolinea il carattere strategico del partenariato transatlantico su commercio e investimenti che ha il potenziale di consentire ai partner transatlantici di fissare standard globali in materia di lavoro, salute, ambiente e proprietà intellettuale e rafforzare la governance globale” (par. 52); infine “sottolinea la necessità di definire una strategia dell’UE in coordinamento con gli Stati Uniti” (par. 55).

L’appiattimento sulle posizioni di Washington concernenti l’Ucraina, espresso in termini inequivocabili dalla risoluzione votata dal Parlamento europeo, esclude la possibilità di un accordo tra Europa e Russia, che danneggerebbe in maniera decisiva l’egemonia statunitense. Con la sua programmatica rinuncia ad assumere decisioni autonome e sovrane, l’Unione Europea tradisce ancora una volta gl’interessi fondamentali dell’Europa.

La rilevanza dell’Ucraina nella strategia del controllo americano sull’Europa è stata lucidamente evidenziata da Zbigniew Brzezinski circa vent’anni fa, quando non era facile immaginare il ruolo centrale che l’Ucraina avrebbe assunto sullo scacchiere eurasiatico. Eppure il geopolitico americano ne aveva indicato la funzione di “perno” (pivot), l’importanza vitale per la Russia e per l’intera Eurasia. “L’Ucraina, un nuovo ed importante spazio sullo scacchiere eurasiatico, – possiamo leggere in The Grand Chessboard – è un perno geopolitico, perché la sua esistenza stessa come paese indipendente serve a trasformare la Russia. Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico. La Russia senza l’Ucraina può ancora lottare per uno statuto imperiale, ma allora diventerebbe uno Stato imperiale prevalentemente asiatico, più facilmente trascinabile in conflitti debilitanti con le risorte popolazioni dell’Asia centrale (…) Comunque, se Mosca riprende il controllo dell’Ucraina, coi suoi 52 milioni di abitanti e le sue grandi risorse, nonché l’accesso al Mar Nero, la Russia automaticamente ritrova il modo per diventare un potente Stato imperiale, esteso sull’Europa e sull’Asia”(1).

Quindi gli Stati Uniti devono impedire ad ogni costo che Mosca estenda all’Ucraina la propria egemonia, perché ciò significherebbe l’espulsione della potenza americana dal continente eurasiatico. Nonostante Washington abbia tardato “a riconoscere l’importanza geopolitica di uno Stato ucraino separato, (…) gli artefici della politica americana sono anche giunti a descrivere il rapporto americano-ucraino come ‘un partenariato strategico’”(2).

Offrendo all’Ucraina la possibilità di entrare nell’Unione Europea, patrocinando il colpo di Stato di Kiev, fornendo aiuto politico e militare al regime golpista, appoggiando le iniziative antirusse del governo statunitense, l’Unione Europea e le cancellerie di alcuni paesi europei hanno collaborato attivamente alla realizzazione del piano elaborato dallo stratega della Casa Bianca, secondo il quale l’Europa costituisce la “testa di ponte democratica” degli Stati Uniti nel continente eurasiatico (3). È infatti lo stesso Brzezinski a dichiarare esplicitamente: “Un’Europa allargata e una NATO allargata serviranno gl’interessi a breve e a lungo termine della politica statunitense. Un’Europa allargata estenderà il raggio dell’influenza americana senza creare, allo stesso tempo, un’Europa così politicamente integrata che sia in grado di sfidare gli Stati Uniti in questioni di rilievo geopolitico, in particolare nel Medio Oriente” (4).

Un anno prima che Brzezinski assegnasse all’Europa il ruolo di “testa di ponte” per la conquista americana dell’Eurasia, l’ideologo dello “scontro delle civiltà” teorizzava, in relazione all’Ucraina, la necessità di “un forte ed efficace sostegno occidentale, che a sua volta potrebbe giungere solo qualora i rapporti tra Russia e Occidente si deteriorassero come ai tempi della Guerra Fredda” (5).

Se sul fronte ucraino il tentativo di conquista dell’Eurasia fa ricorso alla collaborazione scoperta e diretta dell’Unione Europea, sui fronti del Vicino Oriente e del Nordafrica la strategia statunitense del “caos creativo” utilizza i movimenti di matrice wahhabita e salafita e, in special modo, il cosiddetto “Stato Islamico”. La natura eterodossa e settaria di queste forze, i cui nemici principali sono la Repubblica Islamica dell’Iran ed i suoi alleati, ha attivato una sorta di guerra intraislamica che, contribuendo a destabilizzare i paesi dell’area compresa fra la Tunisia e l’Iraq, favorisce la supremazia del regime sionista e fornisce l’occasione per un più deciso impegno occidentale in tutta la regione.

Anche in questo quadrante l’Europa ha messo le proprie energie a disposizione di una manovra che è rivolta contro di essa e contro il continente di cui essa è parte. In Libia, l’aggressione anglo-francese ha dato via libera a bande terroriste che esercitano una pressione sull’Europa mediterranea e giustificano agli occhi di quest’ultima l’esistenza della NATO, ossia dello strumento militare con cui gli USA tengono incatenata l’Europa stessa e con cui preparano la guerra contro la Russia. Non solo. Distruggendo la Libia, gli esecutori della strategia del “caos creativo” hanno aperto un varco attraverso cui milioni di disperati invadono l’Europa, facendo crollare il costo del lavoro e indebolendo ulteriormente la coesione sociale dei paesi europei.

In questo scenario, la tesi dello “scontro delle civiltà” svolge egregiamente il suo ruolo. Azioni terroristiche come quella di Tunisi – e come quella precedente di Parigi, provocata dalla pervicacia del laicismo blasfemo – vengono magistralmente utilizzate per rafforzare una concezione negativa dell’Islam e per rilanciare l’immagine dell’Occidente quale portatore di libertà e tolleranza. Facendosi carico di un’offensiva contro l’Islam, l’Europa non fa altro che eseguire il “lavoro sporco” richiesto dal progetto americano, per cui, in definitiva, essa si impegna in una lotta mortale contro se stessa.

Claudio Mutti

Claudio Mutti è direttore di “Eurasia”.

 

NOTE

1. “Ukraine, a new and important space on the Eurasian chessboard, is a geopolitical pivot because its very existence as an independent country helps to transform Russia. Without Ukraine, Russia ceases to be a Eurasian empire. Russia without Ukraine can still strive for imperial status, but it would then become a predominantly Asian imperial state, more likely to be drawn into debilitating conflicts with aroused Central Asians (…) However, if Moscow regains control over Ukraine, with its 52 million people and major resources as well as its access to the Black Sea, Russia automatically again regains the wherewithal to become a powerful imperial state, spanning Europe and Asia” (Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard. American Primacy and its Geostrategic Imperatives, Basic Books, New York 1997, p. 46).
2. “in recognizing the geopolitical importance of a separate Ukrainian state, (…) American policy makers also came to describe the American-Ukrainian relationship as ‘a strategic partnership'” (Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard, cit., p. 113).
3. “Europe is America’s essential geopolitical bridgehead on the Eurasian continent” (Zbigniew Brzezinski, The Grand Chessboard, cit., p. 59).
4. “A wider Europe and an enlarged NATO will serve the short-term and longer-terme interests of U.S. policy. A larger Europe will expand the range of American influence without simultaneously creating a Europe so politically integrated that it could challenge the United States on matters of geopolitical importance, particularly in the Middle East” (Zbigniew Brzezinski, A Geostrategy for Eurasia, “Foreign Affairs”, Sept.-Oct. 1997, p. 53).
5. Samuel P. Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano 2001, p. 242.

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