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I MOTIVI PER I QUALI LA GUERRA DI ISRAELE NON E’ GIUSTA

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A seguito dell’inizio delle ostilità nella striscia di Gaza l’estate scorsa, Benjamin Netanyahu, nel tentativo di giustificare il suo operato, ha dichiarato che nessuna guerra è più giusta di questa, ma evidentemente non ha la percezione dei fondamenti che regolano questo concetto. La cosiddetta “guerra giusta” è applicabile per il mantenimento della pace e della sicurezza; ma, affinché ciò possa valere, parrebbe necessario rendere giusti anche i mezzi necessari a difenderla e mantenerla, fra questi anche un conflitto. Una tesi da non rigettare nella sua completezza: non è possibile rifiutare la teoria della guerra giusta se in questa è compresa quella di autodifesa.

L’operazione militare iniziata da Israele, tuttavia, tende al contrasto della violazione della libertà e dei diritti subita con i continui lanci di missili da Hamas, ed in questo frangente, l’Autorità è legittimata nell’intervenire al ristabilimento delle condizioni iniziali, deliberando ed attuando tutte le operazioni belliche necessarie, ma senza poi violare a sua volta i diritti del nemico, atto perpetrato più volte dall’esercito israeliano. Siccome una guerra implica la perdita di vite umane dell’avversario, contravvenendo al principio fondamentale dei diritti, la guerra giusta sarebbe un ossimoro, perciò le operazioni belliche dovrebbero essere ridotte alle installazioni militari, salvaguardando quelle civili, ed anche in questa occasione la “guerra giusta” di Netanyahu non è da considerarsi tale. La giustificazione alla guerra origina dalla necessità di doversi difendere da un aggressore, perciò operazioni militari volte alla protezione del popolo, dei beni statali e del territorio tenderebbero ad essere giuste per natura. L’autodifesa deve però limitarsi alla difesa della vita degli aggrediti, ma non sconfinare in operazioni punitive nei confronti del nemico.

Il concetto dei diritti umani diventa fondamentale per identificare la causa di una guerra, che potrà essere definita giusta; tutti gli esseri umani, indipendentemente dalle caratteristiche comunitarie, politiche e sociali non possono essere privati della sicurezza di non essere uccisi, di avere il cibo per sopravvivere, di godere dell’assistenza sanitaria, di poter disporre di un abito, in definitiva di non essere offeso nella sua dignità. L’aberrazione di questo contesto è nella necessità di tutelare lo Stato con l’ausilio di sistemi d’arma che siano efficienti e superiori ai probabili nemici; ne consegue la possibilità di esercitare azioni tese alla diminuzione della potenza dei confinanti che, in casi estremi, potrebbero innalzare il livello di scontro. La decisione di intervenire a Gaza, doveva essere eventualmente presa dall’ONU, poiché operazioni belliche punitive acquisiscono potere legale solo se autorizzate dall’intera comunità, la quale avrà inderogabilmente stabilito, amalgamando tutte le pluralità di concezioni sui diritti umani, la colpevolezza assoluta dello Stato da sanzionare e l’intervento militare dovrà comunque essere proporzionato alla minaccia, altrimenti la sua conduzione diverrà ingiusta. Questo vuol dire che all’offesa si deve rispondere in egual misura; di fatto l’invasione di terra ed i sistemi d’arma usati da Israele, sono contrari al concetto di guerra giusta.

Il limite della “guerra giusta” è rappresentato dai moderni sistemi d’arma convenzionali: gli attacchi chirurgici propri dell’innovazione tecnologica, benché possano essere ben concertati nella loro realizzazione, è praticamente impossibile che non inducano effetti collaterali in ordine di vittime civili, violando il loro principale diritto alla vita. Un esempio potrebbe essere quello del bombardamento della centrale elettrica di Gaza, ove personale tecnico non belligerante è in servizio 24 ore su 24, giacché figura come un attacco alla società e non ai militari. Su questa valutazione potrebbe valere il fondamento utilitaristico e non filosofico dei diritti, laddove un mero calcolo matematico farebbe pendere a favore della guerra giusta il numero dei diritti difesi da essa contro quelli violati, dove il fine essenziale è nel garantire la sopravvivenza del proprio popolo. Il rigore deontologico, però, non avalla tale calcolo, in quanto non si possono infrangere i diritti anche di un solo essere umano in favore di una moltitudine. Dunque è il tramonto del concetto di guerra giusta, che diverrebbe inaccettabile, ma torna la differenza tra violenza ed uso legittimo della forza, ossia l’equilibrio valoriale tra l’aggressione subita e la risposta. L’autodifesa, se soddisfa e controlla i diritti dell’invasore, rimane il caposaldo della guerra giusta: un singolo episodio di risposta inadeguata all’offesa sovvertirebbe il principio di autodifesa, avvalorando la tesi di Karl von Clausewitz che ritiene la guerra un atto di forza, all’impiego della quale non esistono limiti.

Porre in essere attività belliche a favore dei basilari diritti umani universalmente riconosciuti, è un fine giusto, pertanto non si deve bandire in assoluto la forza, se questa tende al recupero della dignità, ossia se garantisce nel tempo il rispetto dell’uomo. L’uso della forza, strettamente equivalente all’offesa subita, è giustificabile nell’autodifesa a livello statale, ma il bilanciamento della forza usata nel conflitto in atto a Gaza, non è assolutamente tale, in quanto tende nettamente a favore degli invasori. Nessuna Nazione dovrà prevalere sull’altra avvalendosi dell’hegeliano “diritto assoluto” ed imponendo la propria visione dei diritti dell’uomo, della guerra e della pace.

Come esposto da Michael Walzer, è necessario incentrare l’attenzione sulla dicotomia tra guerra ed autodifesa. Alla prima non si può assegnare l’idea metafisica di estremo, laddove le operazioni belliche rappresenterebbero l’extrema ratio al fine di risolvere una controversia, perché risulta sempre possibile tentare di risolvere le dispute, soprattutto se sono a carattere regionale, con la diplomazia. L’autodifesa, nel caso israeliano, potrebbe rappresentare una forma di giustizia e ripristino della legge, dove l’aggredito combatte per recuperare il proprio status. La giustizia in tal caso richiede l’uso della forza, ma questa a sua volta diventa legittima solo qualora tutte le ragionevoli soluzioni abbiano perso le prospettive di successo. La legge, in base al paradigma realista, tace in tempo di guerra ed Israele non ha perseguito in tutta la sua completezza il viatico della diplomazia. Nell’autodifesa la “ragion di guerra” giustifica solo l’uccisione di coloro che a ragione sono suscettibili di essere uccisi, ossia i soldati, i quali a differenza dei civili, sono consapevoli del pericolo di perdere la vita. È esplicativo il concetto espresso da Albert Camus, in base al quale non si può uccidere se non si è pronti a morire. L’attacco che subisce un militare, non è diretto verso la persona fisica, bensì al suo ruolo di belligerante. La discriminazione fra i soldati che combattono una guerra giusta e quella ingiusta è determinata dalla giustizia e dal diritto; l’aggredito ha la necessità di difendersi per giustizia e per recuperare i propri diritti, ma non dovrà violare gli stessi parametri nei confronti dell’aggressore. Dunque sarà necessario limitare la risposta ai soli militari. Walzer specifica che il soldato ha la responsabilità di accettare i rischi personali piuttosto che uccidere un civile innocente.

In definitiva, qualsiasi risposta militare, per essere giusta, dovrà garantire l’indennità dei non combattenti, una proporzionalità tra l’aggressione subita ed il colpo che si andrà ad infliggere e non sfociare in episodi di vendetta o rivalsa. La difesa non può a sua volta tramutarsi in abuso.
Formalmente, come descritto dal giurista Carl Schmitt, la justa causa, non deve prescindere dallo justus hostis, ossia il nemico non è inumano e non può essere combattuto con ogni mezzo, perciò dovrà essere affrontato come un individuo dai pari diritti, contro il quale è necessario limitare l’uso della forza. Afferma, inoltre, che nella dottrina dello jus in bello è contemplata la discriminazione degli obiettivi, in quanto ledere il commercio e l’economia dell’avversario coinvolge non solo l’industria della difesa, bensì i cittadini e non ultimo il Paese neutrale che intrattiene rapporti commerciali con il nemico.

Anche Norberto Bobbio ha affrontato la teoria della guerra giusta nel profilo della giurisprudenza, sottolineando che in tal caso è necessaria una distinzione fra un processo di cognizione ed uno di esecuzione. Nel secondo caso, la guerra è intesa come pena o come sanzione da comminare al nemico e l’atto di belligeranza è esaltato nella forza che dunque si pone al servizio del diritto. Nel processo di cognizione le operazioni militari trovano il loro limite, in quanto non adatte a discriminare il giusto dall’ingiusto, questo perché la guerra è giusta per entrambi i contendenti. Teoria perfettamente applicabile nel conflitto a Gaza. La concezione di guerra giusta è ricordata da Roland Bainton nel citare Platone: per poter essere considerata giusta, deve avere come obiettivo la rivendicazione della giustizia ed il ristabilimento della pace. È d’uopo, però, che l’applicazione della giustizia sia equa ed i diritti dei vinti non siano lesi. Quanto avviene a Gaza è in netta controtendenza rispetto tale paradigma.

In definitiva, la teoria della guerra giusta rimane di difficile se non impossibile applicazione ed il riallineamento della geopolitica mediorientale ha sottratto alla guerra giusta la limitazione giuridica trasformandola in un conflitto asimmetrico, esattamente quello che sta combattendo Netanyahu.

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IL DECLINO (INEVITABILE?) DELLA COLONIA ITALIA

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Non fu certo nell’incontro tra membri della classe dirigente italiana ed esponenti della finanza anglosassone a bordo del panfilo Britannia, il 2 giugno 1992, che si decisero le sorti del nostro Paese, benché non si debba sottovalutare il significato politico di quel gentlemen’s agreement, che è diventato simbolo della politica antinazionale che da allora avrebbe caratterizzato la storia del nostro Paese. Peraltro, fu proprio nel 1992 che si sarebbero create le condizioni per dare l’Italia in pasto ai pescecani della finanza internazionale, sacrificando, per così dire, l’interesse nazionale sull’altare della “geopolitica occidentale”. Nonostante ciò, la gioiosa macchina da guerra che avrebbe fatto a pezzi l’Italia si era già messa in moto perlomeno dal 1981, ossia allorquando c’era stato il divorzio tra il Tesoro e Bankitalia. Un divorzio che costrinse lo Stato italiano a finanziarsi sul mercato a tassi d’interesse salatissimi, tanto che il debito pubblico, che nel 1982 era il 64% del Pil, nel 1992 era diventato il 105,2% del Pil (1). Scrive Domenico Moro: «Nel 1984 l’Italia spendeva – al netto degli interessi sul debito – il 42,1% del Pil, che nel 1994 era aumentato appena al 42,9%. Nello stesso periodo la media Ue (esclusa l’Italia) passò dal 45,5% al 46,6% e quella dell’eurozona passò dal 46,7% al 47,7%. Da dove derivava allora la maggiore crescita del debito italiano? Dalla spesa per interessi sul debito pubblico, che fu sempre molto più alta di quella degli altri Paesi. La spesa per interessi crebbe in Italia dall’8% del Pil nel 1984 all’11,4%, livello di gran lunga maggiore del resto d’Europa. Sempre nello stesso periodo la media Ue passò dal 4,1% al 4,4% e quella dell’eurozona dal 3,5% al 4,4%» (2).

Ma gli anni Ottanta del secolo scorso furono pure gli anni che videro i vertici del Pci condurre il “popolo comunista” verso l’altra sponda dell’Atlantico. Una traversata lunga e difficile, anche perché vi era il rischio per i “vertici rossi” di arrivare con un numero esiguo di passeggeri, anziché con un esercito pronto a combattere “al soldo” della Casa Bianca. A tale proposito, è interessante ricordare quanto ebbe a dichiarare nel 2008 al “Corsera” il generale Jean riguardo alla presa di posizione del Pci contro l’installazione dei missili Cruise a Comiso, avvenuta nel 1985, anche se i lavori nella base siciliana erano cominciati due anni prima (lavori di cui il generale Jean era ben informato dato che all’epoca dirigeva il reparto del ministero della Difesa che controllava le infrastrutture della Nato in Italia). Jean ricordò ai lettori del “Corsera” che il Pci sui missili Cruise non aveva fatto “marcia indietro” rispetto alla celebre affermazione di Enrico Berlinguer, secondo cui si era più sicuri sotto l’ombrello della Nato anziché sotto quello del Patto di Varsavia, dato che, come precisò Jean, «il Pci fu sostanzialmente d’accordo, non poteva dichiararlo apertamente, la sua base non avrebbe capito, ma non creò problemi eccessivi» (3). Nondimeno, non si deve neppure trascurare che il Psi di Craxi intralciò non poco i piani del Pci, di modo che, quando cadde il Muro di Berlino, i “vertici rossi” erano ancora alla prese con la questione del nome da dare alla “nuova cosa” che avevano in mente da parecchi anni. Un ritardo che avrebbe potuto costare assai caro ai dirigenti di quello che si definiva ancora il più forte partito comunista occidentale.

Una volta crollato il Muro, il 9 novembre del 1989, però di tempo il Pci non ne perse più e solo tre giorni dopo ci fu la famosa “svolta della Bolognina”, che nel febbraio del 1991 portò allo scioglimento del “vecchio e glorioso” partito comunista italiano e alla nascita del Partito democratico della sinistra. Qualche pezzo gli ex compagni lo persero, ma fu “roba” di poco conto. Sotto questo aspetto, fu davvero decisivo il lavoro di “MicroMega”, “L’Espresso “e “la Repubblica”, di fatto «i principali strumenti della rieducazione “liberalprogressista” e “antinazionalpopolare” del popolo comunista» (4). D’altra parte, il Pci già negli anni Ottanta, più che il partito delle tute blu, era diventato il partito del ceto medio semicolto, formato in buona misura da colletti bianchi “nullafacenti”, da insegnanti senza nulla da insegnare e da “parassiti” vari, decisi a risolvere una volta per tutte la “questione morale” che affligge l’Italia da tempo immemorabile, benché in verità anch’essi “nati e cresciuti” nel ventre marcio della partitocrazia e indubbiamente non meno abili nell’appropriarsi del denaro pubblico dei tanto da loro detestati “ladri” socialisti e democristiani.
Non fu però ovviamente la “svolta della Bolognina” ad inaugurare il “nuovo corso storico” dell’Italia, bensì l’“intreccio” fra le vicende nazionali e i mutamenti degli equilibri internazionali successivi al crollo dell’Unione Sovietica. Gli eventi del 1992 non lasciano molti dubbi al riguardo. Nel mese di febbraio si firmarono gli accordi di Maastricht (entrati in vigore l’anno successivo). Dei tre negoziatori italiani (Giulio Andreotti, presidente del Consiglio, Gianni De Michelis, ministro degli Esteri, e Guido Carli, ministro del Tesoro) forse solo Carli si rese conto appieno delle conseguenze di questo trattato per la nostra economia, cogliendo pure i potenziali aspetti antiamericani della moneta unica europea, che allora sembrava destinata a porsi come alternativa al dollaro. Non a caso, Carli scrisse: «Gli Stati Uniti hanno esercitato lungamente un diritto di “signoraggio” monetario sul resto del mondo [ragion per cui] negli Stati Uniti […] gli economisti sono scesi in campo per difendere gli interesse della comunità finanziaria americana nel tentativo di delegittimare il progetto di Unione Europea dal punto di vista teorico. La realizzazione del trattato di Maastricht significherebbe la sottrazione agli Stati Uniti di quasi metà del potere di signoraggio di cui dispongono» (5).

Lo stesso Mario Monti allora mise in evidenza che gli accordi di Maastricht comportavano non solo il risanamento della finanza pubblica, ma pure che “rivoltavano come un guanto” il modello di governo dell’economia italiana (6). Comunque, le conseguenze del trattato di Maastricht si capirono soltanto negli anni seguenti, quando sarebbe stato troppo tardi per porvi rimedio e non furono certo quelle previste da Carli. Infatti, non furono solo gli economisti americani a scendere in campo per difendere gli interessi degli Usa. E i “circoli atlantisti” seppero lavorare così bene che l’euro si sarebbe rivelato ben altro che una moneta in grado di competere con il dollaro (7). Ma, se i politici italiani non afferrarono immediatamente le possibili implicazioni del trattato di Maastricht né capirono quali “contromisure” i “circoli atlantisti” avrebbero preso, lo si deve pure al fatto che proprio nello stesso mese di febbraio di quell’anno ormai lontano veniva arrestato a Milano un “mariuolo”, ossia Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio ed esponente del Psi milanese. Era cominciata l’operazione “Mani Pulite”.

Il pool di “Mani Pulite”, come si sa, concentrò tutta la sua “potenza di fuoco” solo contro una parte della “vecchia classe politica”, tanto che si sarebbe “sbarazzato” di Tiziana Parenti, che voleva invece “andare a fondo” pure sulla questione delle “tangenti rosse” al Pci/Pds e alla quale non era nemmeno sfuggito che l’input dell’inchiesta su “Tangentopoli” aveva “radici americane” (8). D’altronde, i giornali italiani – volgari portavoce degli interessi di quella che Gianfranco La Grassa definisce la Id&Gf (cioè “Industria decotta e Grande finanza), subalterna agli interessi d’oltreoceano fin da quando (nel 1942) Enrico Cuccia si era recato a Lisbona per trattare la resa del grande capitale privato italiano agli angloamericani, e garantire così alla famiglia Agnelli e ai suoi “compagni di merende” un “buon posto a tavola” una volta finita la guerra – facevano credere ai “semplici” che fosse in corso addirittura una sorta di “moto rivoluzionario”. Sicché, quando la politica cercò (con il “decreto Conso” del marzo 1993) di porre un freno ad una operazione giudiziaria che stava “liquidando” le uniche forze politiche che (pur corrotte quanto si vuole) erano contrarie a mettere il nostro Paese nelle mani dei “mercati”, i gazzettieri gridarono allo scandalo, il pool di “Mani Pulite” si ribellò e Luigi Scalfaro cestinò il “decreto Conso” ritenendolo incostituzionale. Ma l’Italia allora era già stata messa in ginocchio dalla finanza internazionale.

Com’è noto, poco dopo l’incontro a bordo del Britannia, ossia nella notte tra il 9 eil 10 luglio del 1992, Giuliano Amato penetrò come Diabolik nei forzieri delle banche italiane e prelevò il 6 per 1.000 da ogni deposito. La manovra di luglio e una finanziaria “lacrime e sangue” di oltre 90.000 miliardi si giustificarono con la gravissima situazione del Paese, che rischiava di non riuscire a piazzare sul mercato i titoli di Stato, adesso che Bankitalia non era più obbligata ad acquistarli. Tanto è vero che il breve governo Amato va ricordato anche per le vicende che videro come protagonista la “vecchia lira”, dacché la nostra moneta, dall’estate all’autunno del 1992, fu oggetto di un durissimo attacco da parte di Soros, il famoso “filantropo” e sostenitore di rivoluzioni colorate in varie parti del mondo” (Ucraina compresa). Azeglio Ciampi, allora governatore di Bankitalia, decise di difendere la lira bruciando circa 48 miliardi di dollari, ovverosia dissipando le nostre riserve valutarie senza ottenere alcun risultato. Tale ostinata e inutile difesa della lira fu motivata affermando che, se si svalutava, il Paese sarebbe andato in rovina. A settembre però Amato dovette gettare la spugna e annunciò la svalutazione della lira. Un anno dopo avrebbe dichiarato: «La svalutazione ci ha fatto bene» (9). Le esportazioni tiravano e il peggio pareva passato. Tutto bene allora? Certamente no.

Invero, la tempesta giudiziaria e quella finanziaria spazzarono via ogni ostacolo alla (s)vendita del nostro patrimonio pubblico (comprare “merce” italiana, adesso che le lirette erano svalutate, non era un problema per il grande capitale straniero). In ogni caso, anche Berlusconi, “sceso in campo” per difendere le proprie aziende dall’attacco da parte del Pds (che volle “strafare” offrendo la testa del “cavaliere nero” alla Id&Gf e così si “giocò” la vittoria nelle elezioni politiche del 1994), si guardò bene dal cercare di cambiare questo “stato delle cose”, quando tornò al potere nel giugno del 2001, dopo la sua prima “non esaltante” esperienza di governo (dal maggio 1994 al gennaio del 1995). Le cifre parlano chiaro: dal 1992 al 1995 le privatizzazioni fruttarono allo Stato italiano poco meno di 17.000 miliardi di lire; dal 1996 al 2000 si raggiunse la cifra di 79.209,95 miliardi di lire, mentre dal 2000 al 2005 lo Stato incassò dalla vendita delle nostre aziende pubbliche circa 50.000 miliardi di lire (10). Ma gran parte di questo “tesoretto” andò ad arricchire quella rendita finanziaria per la quale da diversi lustri non pochi italiani lavorano, senza che ancora se ne siano pienamente resi conto. D’altra parte, lo spettacolo offerto dal “teatrino della politica” non poteva non “distrarre” il Paese, al punto che tutto il resto pareva non contasse più nulla.

Non solo passarono così “in secondo piano” il gigantesco terremoto geopolitico causato dalla scomparsa dell’Unione Sovietica e le conseguenze del cosiddetto Anschluss, ossia l’annessione della Germania Est da parte della Germania federale (annessione che avrebbe portato alla quasi completa deindustrializzazione dell’ex Germania Est e alla perdita di milioni di posti lavoro – non certo un buon segno per la futura “unione” europea) (11), ma non venne preso nemmeno in considerazione il fatto che si stava mettendo “in liquidazione” quel modello di economia mista che dopo la Seconda guerra mondiale aveva consentito ad un Paese a sovranità limitata come l’Italia di diventare un Paese industriale avanzato, garantendo “bene o male” benessere e sviluppo ad alcune generazioni di italiani. In pratica, ci si limitò a privatizzare, senza varare alcun “piano industriale”, senza preoccuparsi di ridefinire gli obiettivi strategici della nazione, stravolgendo addirittura il sistema educativo per adeguarlo ai “modelli internazionali” (una scelta i cui effetti nefasti, in verità non solo per l’Italia, si cominciano a vedere solo adesso). In questo contesto, venne pure “internazionalizzato” il debito pubblico. E ciò, si badi, proprio quando gli Usa, ormai unica superpotenza, si lanciavano alla conquista dell’intero pianeta, rimuovendo ogni ostacolo al “libero” movimento dei capitali, lasciandosi definitivamente alle spalle gli accordi di Bretton Woods e autorizzando qualunque crimine finanziario, purché funzionale al successo della nuova strategia statunitense.

Inutile dire che anche l’introduzione dell’euro non venne affrontata con la necessaria maturità politica e il senso di responsabilità che un tale passo richiedeva. Sotto questo profilo, si distinsero in particolare gli intellettuali per i quali contava solo “entrare in Europa”, quasi che l’Italia fosse un Paese africano. Non si tenne nemmeno conto che il Paese si teneva il proprio debito ma al tempo stesso cedeva la propria sovranità monetaria, non all’Europa, che politicamente non esisteva, ma ai tecnocrati di Bruxelles e agli “gnomi” della Bce. Eppure quando i francesi e gli olandesi, nel 2005, bocciarono la costituzione europea, vi sarebbe stata la possibilità di rimettere in discussione l’intero progetto europeo, avendo presenti i gravi rischi che derivavano dalla “inconsistenza geopolitica” dell’Unione Europea e dalla dipendenza del vecchio continente da pericolose e perfino anacronistiche “logiche atlantiste”. Ma anche allora in Italia si prestò poca attenzione ai reali problemi posti da Eurolandia e dalla nuova architettura politica della Ue, anche perché i liberal-progressisti, secondo il solito schema concettuale assai caro alla nostra intellighenzia anglofila, addebitavano tutti i “guai” del nostro Paese al fatto che gli italiani anziché anglosassoni fossero latini (ossia fossero “brutti, sporchi e cattivi”), nonché al fatto che adesso in Italia oltre al papa ci fosse pure “Sua Emittenza”.

Ciò malgrado, anche per i liberal-progressisti era fuori discussione che la società italiana dovesse diventare una società di mercato sotto ogni punto di vista, ma a guidare questo processo di trasformazione avrebbero dovuto essere loro stessi (cioè i “ceti medi riflessivi”, come loro medesimi si autodefinivano), anziché i “cafoni della destra”, il cui americanismo era superficiale e non serio, ponderato e maturo come il loro. I “destri”, autoproclamatisi difensori del “popolo delle partite Iva” (perlopiù commercianti, liberi professionisti e piccoli imprenditori) replicavano accusando i “sinistri” di essere ancora comunisti (una accusa che ancora spesso fanno, dimostrando di avere una capacità di comprendere la politica minore di quella degli avventori del “leggendario” bar dello sport). Entrambi gli schieramenti quindi si accusavano reciprocamente di non avere le competenze necessarie per modernizzare (leggi: “americanizzare”) il Paese: se per i “sinistri” i berlusconiani non erano altro che una massa di corrotti ed evasori fiscali, per i “destri” gli antiberlusconiani erano solo una massa di ipergarantiti e “mangiapane a tradimento”. Inoltre, gli italiani si dividevano anche sulla questione del conflitto di interessi, che per i “sinistri”, finché non fosse stata risolta, non avrebbe dovuto consentire al “cavaliere nero” (accusato perfino di essere colluso con la mafia) di governare l’Italia (una questione che “stranamente” i governi di sinistra, che pure ci sono stati nell’era del berlusconismo, non hanno mai risolto). Berlusconismo e antiberlusconismo diventavano così la foglia di fico dietro la quale maturavano le condizioni perché l’Italia si facesse trovare nella peggiore situazione possibile allorché, nel 2007/8, si verificò la crisi finanziaria. Ma anche di questo ben pochi politici e analisti se ne accorsero in tempo, tanto che nel 2009 secondo l’Ocse la ripresa dell’economia italiana era già in atto e lo stesso Berlusconi ebbe a dichiarare al “Corsera” che l’Italia andava a gonfie vele (12).

In effetti, nonostante l’introduzione dell’euro (che di punto in bianco privò l’Italia della leva fiscale, della leva monetaria e della leva valutaria) l’economia italiana nei primi anni del terzo millennio pareva “cavarsela”, se perfino la quota italiana della manifattura mondiale dal 4,2% nel 2000 era passata al 4,5% nel 2007 (13). D’altronde, è pure noto che la Germania nel 2003, muovendo da livelli di Welfare e di reddito molto alti, decise di comprimere i salari e di sfruttare l’“euro-marco” per diventare una grande potenza commerciale (14), infischiandosene degli squilibri che tale scelta avrebbe inevitabilmente generato, dacché la maggior parte degli altri Paesi di Eurolandia (Italia compresa) non potevano seguire i tedeschi su questa strada, sempre che non volessero far morire di fame un terzo della popolazione. Ma con la crisi finanziaria, peraltro costata all’Italia ben 5 punti del Pil nel 2009, si avviava pure un processo di deindustrializzazione del Paese, che nel 2013 vedeva quasi dimezzata la propria quota della manifattura mondiale (2,6%), mentre i “mercati” potevano usare il debito pubblico italiano, ora pressoché totalmente fuori controllo, per imporre la politica più favorevole per i loro interessi. Naturalmente, i gazzettieri sostenevano che ai “mercati” interessava solo la testa del “clown tricolore”. Una sciocchezza colossale, come questi ultimi drammatici anni hanno dimostrato, al di là delle colpe della destra italiana, certo gravi e numerose ma non più gravi e numerose di quelle della sinistra.

Comunque sia, la situazione del Paese non la si può spiegare solo elencando i noti difetti del “sistema Italia”, quali la corruzione, l’inefficienza della pubblica amministrazione, la spesa pubblica “improduttiva” e l’evasione fiscale. (Non si dovrebbe però nemmeno “generalizzare”, dato che se da un lato vi sono non pochi impiegati pubblici onesti e capaci, dall’altro si sa che il “nero”, per una serie di ragioni dipendenti da “logiche partitocratiche” della cosiddetta “prima repubblica”, è ancora incorporato nel “ciclo economico”, ragion per cui è logico che con i metodi di Equitalia la “gallina dalle uova d’oro” non la si cura ma la si uccide). Ma, proprio come negli anni Novanta non si trattava di mettere in questione la lotta contro la corruzione e le “logiche partitocratiche” (che indubbiamente erano un problema da risolvere), bensì la terapia adottata (giacché avrebbe ancor più indebolito un organismo che aveva bisogno di ben altre cure), così oggi l’accento deve essere messo sul fatto che dei “centri egemonici” stranieri, contando sulla presenza di numerose “quinte colonne”, possono sfruttare la debolezza del nostro Paese, non solo per evidenti scopi economici ma anche per scopi geopolitici (forse meno evidenti, ma non meno importanti). Al riguardo, la subalternità alla politica di potenza statunitense da parte del ceto politico italiano non è una novità e non ha bisogno di spiegazioni. Ma oggi una tale condizione di “vassallaggio” rischia di essere disastrosa per un Paese la cui base produttiva è ormai “lesionata”, e che, oltre ad essere privo di materie prime, si trova a dipendere da altri Stati per il suo fabbisogno energetico e dai “mercati” per quanto concerne il finanziamento del debito (si tratta di un passivo di circa 150 miliardi di euro all’anno se ai 90 miliardi di euro per il servizio del debito si aggiunge il passivo della bilancia energetica – una “emorragia” che sottrae non poche risorse estremamente preziose per la ripresa e lo sviluppo della nostra economia). Tutto ciò difatti rafforza ancora di più il controllo del nostro Paese da parte dei “centri egemonici” atlantisti, le cui strategie non possono certo avere come scopo la difesa del nostro interesse nazionale. Non meraviglia allora che il “Belpaese” rischi di tornare ad essere un vaso di coccio tra vasi di ferro, grazie ad una classe dirigente che in gran parte è al servizio di potentati stranieri.

Di fatto, la stessa politica “suicida” dell’Italia prima nei confronti della Libia e ora verso la Russia non ha alcuna spiegazione valida se non quella secondo cui Roma in realtà “lavora” per tutelare gli interessi di Washington o, se si preferisce, quelli dell’Occidente, anche se ciò comporta un danno gravissimo per l’Italia. Il sostegno di Roma alle guerre d’aggressione degli Usa e alle varie rivoluzioni colorate (dalla Siria all’Ucraina) “sponsorizzate” dai centri di potere atlantisti trova una sua logica spiegazione nella “tradizionale” politica della classe dirigente italiana, che consiste nell’anteporre il proprio “particulare” all’interesse generale, esercitando, al riparo da “brutte sorprese”, il “piccolo potere” che la potenza occidentale predominante concede ad un gruppo politico “subdominante” in una determinata area geopolitica. L’Italia, che è un’ottima base per la “proiezione” della potenza statunitense nel Mediterraneo e nel continente africano, ha appunto il compito di seguire “ciecamente” le direttive della Nato. Anche la politica italiana nei confronti della Germania deve essere interpretata alla luce di questa “sostanziale” subordinazione del ceto politico italiano alle direttive strategiche dei centri di potere atlantisti. Non è un mistero che un euro politicamente debole, favorendo la speculazione internazionale e frenando l’economia europea nel suo complesso, non può che avvantaggiare l’America, per la quale la disintegrazione di Eurolandia sarebbe un “incubo” (15). Non “afferrare” questo aspetto della pur complessa situazione europea, significa inibirsi del tutto la possibilità di comprendere i veri motivi che hanno spinto anche i politici italiani “meno sprovveduti” ad accettare una serie di misure che sapevano essere sicuramente nocive per il nostro Paese.

Si è venuta quindi a creare una situazione che potrebbe cambiare solo se vi fossero una “visione geopolitica” del mondo e una cultura politica del tutto diverse, ma di cui purtroppo al momento non si vede traccia. Né a tale mancanza si può rimediare con il qualunquismo e il pressappochismo, dato che con l’“antipolitica” (anche ammesso che si sia in buonafede) non si va da nessuna parte, ma si può solo sprecare un notevole patrimonio di consensi, lasciandosi sfuggire l’opportunità di “far voltare” pagina al Paese (come prova la storia del M5S). Invero, si dovrebbe tener presente che i “guai” dell’Italia sono sempre derivati, in primo luogo, dalla mancanza di uno Stato forte ed efficiente, in grado di imporre l’interesse della collettività a scapito di interessi settoriali e pronto a premiare i meritevoli anziché i “furbi”, nonché dalla mancanza di una classe dirigente disposta a “pagare in prima persona”. Sicché, come comprese Gramsci, i ripetuti fallimenti dello Stato italiano derivano proprio dall’incapacità della sua classe dirigente di inserire il popolo italiano nel quadro statale, facendo valere una autentica cultura nazional-popolare (16). La stessa crisi di Eurolandia, che secondo non pochi analisti è destinata ad aggravarsi con il passare del tempo, dovrebbe essere perciò un’occasione per creare una coscienza nazionale all’altezza delle sfide del mondo contemporaneo. Che l’Italia nei mesi che verranno possa far fronte con successo a tali sfide è lecito dubitarne, benché ciò non costituisca un valido motivo per rassegnarsi al peggio. Del resto, gli italiani non sono gli unici europei che cercano di uscire dal vicolo cieco in cui li ha condotti una classe dirigente inetta e corrotta. Certo, anche questo potrebbe apparire un tentativo donchisciottesco, considerando la frammentazione sociale e il degrado culturale che caratterizzano da tempo non solo l’Italia ma l’intero continente europeo. Tuttavia, è pur vero che finché tutto non è perduto, nulla è perduto. In quest’ottica, pertanto, dovrebbe avere ancora senso battersi contro l’Europa dei tecnocrati e dei “mercati”, al fine di costruire un polo geopolitico europeo, composto da nazioni libere e sovrane.

NOTE
1) L’autunno nero del ’92 tra tasse e svalutazioni, “Il Sole 24 Ore”, 23/4/2010. Vedi anche
2) Vedi http://keynesblog.com/2012/08/31/le-vere-cause-del-debito-pubblico-italiano/.
3) M. Nese, Quando la crisi dei missili coinvolse l’ Italia. «Così il Pci decise di non creare problemi», “Corsera”, 18/8/2008.
4) V. Ilari, Guerra civile, Ideazione Editrice, Roma, 2001, p. 77.
5) G. Carli, Cinquant’anni di vita politica italiana, Laterza, Roma-Bari, 1993, pp. 412-413.
6) M. Monti, Il governo dell’economia e della moneta, Longanesi, Milano, 1992.
7) Su questo tema mi permetto di rimandare ad un mio recente articolo: L’Europa nella morsa dell’euro (http://www.cese-m.eu/cesem/2014/12/leuropa-nella-morsa-delleuro/).
8) G. Marrazzo, Tiziana Parenti (ex Pm di Mani Pulite): Di Pietro riferiva dell’inchiesta all’America, “Avanti!”, 30/8/2012.
9) E. Polidori, La svalutazione ci ha fatto bene, “Repubblica”, 23/9/1993.
10) Obiettivi e risultati delle operazioni di privatizzazione di partecipazioni pubbliche, Corte dei Conti.
11) Vedi V. Giacché, Anschluss, Imprimatur, Milano, 2013.
12) Ocse c’è ripresa, Italia al top. «Noi il sesto Paese più ricco», “Corsera”, 6/11/2009.
13) Vedi “Scenari Industriali”, Confindustria centro studi, giugno 2014, n. 5, p. 15.
14) Nondimeno, buona parte dei lavoratori tedeschi non se la passano affatto bene. Vedi, ad esempio, L. Gallino, I debiti della Germania e l’austerità della Merkel, “Repubblica”, 26/8/2013, e Idem, Il Jobs Act? Una pericolosa riforma di destra, “Micromega” (http:// temi. repubblica.it/micromega-online/gallino-%E2%80%9Cil-jobs-act-una-pericolosa riforma -di-destra%E2%80%9D/).
15) Su tale importante questione vedi J. Sapir, Bisogna uscire dall’euro?, Ombre Corte, Verona, 2012.
16) A. Gramsci , Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino, 1975, p. 2054.

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L’AUSTRIA TRA PASSATO E PRESENTE

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Le relazioni austro-russe hanno costituito una costante dello scenario geopolitico dell’Europa centrale fin dal XVIII secolo. Ai tempi in cui l’Austria era parte dell’allora Sacro Romano Impero, le relazioni tra le due corone imperiali (quella degli zar e quella della casata d’Asburgo) furono centrali nel costituire una barriera cristiana all’espansione dell’Impero Ottomano verso nordest e nordovest. A testimonianza di quanto strategiche a livello territoriale fossero considerate queste relazioni da parte della corona d’Asburgo, va ricordato che le prime notizie di carattere etnografico sul popolo russo, entrarono in Europa occidentale nel XVI secolo grazie al Rerum Moscoviticarum Commentarii, opera del diplomatico imperiale Sigmund Von Heberstein, che fu due volte ambasciatore del Sacro Romano Impero in Russia(1).

Peraltro è curioso osservare come, già ai tempi di Von Heberstein, sul piano ideale e spirituale le due corone fossero unite non solo da interessi strategici, ma anche dalla stretta correlazione di stampo tradizionale tra il potere politico e il potere religioso. Il termine slavo “Tsar” derivava infatti dal latino “Caesar”(2), utilizzato quindi per indicare una monarchia di stampo imperiale nel senso medioevale del termine. Tre secoli più tardi tale unità ideale trae nuova linfa nell’ambito delle guerre napoleoniche, quando fu lo zar Alessandro I a farsi promotore di quella Santa Alleanza che includeva anche l’Austria e la Prussia e il cui compito, sconfitto Napoleone, era quello di prevenire il riemergere di focolai di carattere antimonarchico in Europa occidentale, ponendovi come argine un significativo blocco mitteleuropeo(3). A suggellare la sacralità di tale missione era venuta in soccorso, già dal biennio 1806-1807, la presa di posizione della Chiesa Ortodossa russa, da parte della quale il Bonaparte era frequentemente presentato come l’Anticristo(4). Tale affinità ideologica tra Russia ed Austria perdurò in maniera significativa fino alla conclusione dei moti del 1848.

Dalla seconda metà del XIX secolo, le pulsioni panslaviste dell’impero russo, che minavano le sostanziali fondamenta dell’impero austroungarico, accesero un periodo di ostilità intermittente tra i due Paesi che si concluse solamente al termine del secondo conflitto mondiale, quando l’Austria fu suddivisa in quattro zone d’influenza (americana, francese, inglese e sovietica), salvo recuperare pienamente la propria sovranità nel 1955. Fu allora che le relazioni tra due Paesi (l’Austria democratica e l’Unione Sovietica) ripresero quota, questa volta su un filo conduttore per certi aspetti diametralmente opposto a quello che aveva caratterizzato il sodalizio di un secolo prima, dato che all’opposizione al liberalismo si sostituì, quale collante, il socialismo. Primo cancelliere, già dal 1945, dell’Austria liberata dai nazisti fu infatti il socialista Karl Renner, il quale godeva del favore di Stalin(5) e che per questo solo dopo diversi mesi fu riconosciuto quale legittimo governante dalle altre forze alleate.

Proprio Karl Renner fu uno dei leader della corrente cosidetta “austromarxista” che, formatasi nella polveriera culturale dell’ultimo impero austroungarico, sviluppò all’interno del Partito Socialdemocratico (SPO) una propria e autonoma visione del socialismo che tentava di realizzare una sintesi tra il rispetto dell’autodeterminazione delle comunità etniche locali e il concetto di stato nazionale(6). Tale terzietà di pensiero rispetto alle posizioni politiche dominanti a livello globale (gli austromarxisti si opponevano decisamente alla critica dell’interesse nazionale quale “stratagemma borghese”(7)), all’interno del mondo politico austriaco non fu tuttavia esclusiva del fronte socialista. Basti qui citare la figura di Julius Raab, cancelliere del Partito Popolare Austriaco (OVP) dal 1953 al 1961 e precedentemente membro del Governo di Engelbert Dollfuss (1934-38). Raab nel 1955 si fece promotore della Commissione congiunta dei prezzi e dei salari, una chiara rievocazione del pensiero corporativista, che era appunto alla base dell’esecutivo Dollfuss ma anche, come è noto, della dottrina economica fascista(8). E proprio in una prospettiva di collaborazione consociativa e corporativa, a differenza di altri Paesi europei, l’Austria si caratterizzò nel dopoguerra per una coalizione tra le due principali forze politiche (socialisti e popolari) che fino agli anni ’60 produssero governi di unità nazionale che procedettero alla nazionalizzazione di comparti industriali strategici e alla costruzione di un moderno sistema di welfare.

Sia tale carattere di terzietà, che la presenza di un forte partito socialista come il SPO, ebbero un ruolo non secondario nel determinare il comportamento dell’Austria durante la Guerra Fredda. Il 26 ottobre del 1955, il giorno seguente all’abbandono del territorio austriaco da parte delle ultime truppe alleate, il parlamento approvò infatti la neutralità del Paese, che è ancor oggi parte del diritto internazionale(9). Questo fu un successo della diplomazia di Mosca, che, tramontato definitivamente nel 1950 il tentativo di inglobare il Paese nella sua orbita con l’appoggio di socialisti e comunisti, evitò in questo modo una “nuova Germania” contesa tra il blocco atlantico e quello sovietico. Che il sentimento di indipendenza rispetto ai principali attori geopolitici fosse sentito realmente dalla classe dirigente austriaca è del resto ben rappresentato dal fatto che il 26 ottobre è tutt’ora celebrato come giorno festivo.

Dalla fine degli anni ’80, con il progressivo venir meno della pressione di Mosca a Est per il mantenimento di una rigida posizione di neutralità, si ripropose la questione di un ingresso del Paese nella Comunità Europea(10), che fu infine formalizzato nel 1995 e, salvo eccezioni nell’ala sinistra dell’SPO, appoggiato trasversalmente negli anni dalle forze politiche di Governo. Un’integrazione del Paese alla NATO, opzione questa tradizionalmente vista, soprattutto a partire dagli anni ’60 che videro la fine dei governi di coalizione, con favore dai popolari dell’OVP e invece osteggiata dai socialdemocratici del SPO(11). Il ruolo del SPO nei rapporti con l’Unione Sovietica meriterebbe una trattazione più approfondita. Basti però citare come, negli anni ’50 e ’60, il partito fosse frequentemente sospettato di lassismo nei confronti dell’intelligence sovietica(12).

Tali atteggiamenti restarono sostanzialmente immutati fino ai primi anni 2000. Gli eventi subirono un’accelerazione con la guerra in Bosnia Erzegovina, che vide l’Austria siglare il documento Partnership for Peace (1995) per poi inviare le proprie truppe a sostegno dei contingenti NATO nei balcani e di nuovo nel 1999 in Kossovo. Nel luglio 2002, il presidente austriaco Thomas Klestil incontrò il Segretario Generale della NATO, Lord Robertson, incontro che precedette l’invio di truppe austriache a supporto del contingente atlantico in Afghanistan. Nel giugno 2011 si registrò la visita ufficiale di Anders Fogh Rasmussen (Segretario Generale della NATO) a Vienna(13). Politicamente significativo è infine stato il processo di valutazione svoltosi dal 21 al 30 maggio del 2013 alla base di Allentsteig, dove funzionari NATO hanno supervisionato il livello di preparazione delle truppe destinate al progetto PfP per verificare che fossero compatibili con gli standard dell’alleanza per il progetto EURAD13(14). D’altra parte è bene dire che, se da un lato i servizi di intelligence sovietica ebbero per l’Austria un interesse particolare, dall’altro sebbene al di fuori della NATO oggi il Paese ha sul suo territorio due basi militari americane: si tratta di Neulengbach e Konigswarte, gestite e coordinate dal Comando generale statunitense della National Security Agency di Fort Meade (nel Maryland) e organizzate in cooperazione con i servizi segreti britannici, canadesi, australiani e neozelandesi(15).

Il processo di integrazione europea non ha però troncato le relazioni dell’Austria con la Federazione Russa. Anzi. Secondo un analista della The Jamestown Foundation, lo scomparso austro-americano Roman Kupchinski, anche dopo la fine della Guerra Fredda, l’Austria è rimasto uno degli hub favoriti dall’intelligence di Mosca tanto che, secondo il medesimo autore, l’SVR (servizio di intelligence russo all’estero) avrebbe proprio a Vienna la sua centrale più importante in Europa(16). Quel che è certo tuttavia, è la presenza proprio in Austria di numerose compagnie legate al mercato delle commodities e connesse con la compagnia di stato russa Gazprom. Proprio il comparto energetico è centrale nell’attuale assetto di relazioni commerciali tra Austria e Russia. Il 24 aprile del 2010, la partecipata statale OMV, prima tra le aziende dei Paesi europei a siglare accordi commerciali con l’Unione Sovietica nel 1968, siglò un accordo di cooperazione con Gazprom per la costruzione della sezione austriaca di South Stream mentre il 29 aprile del 2014, già in piena crisi ucraina, il CEO di OMV, Gerhard Roiss siglò con Gazprom un memorandum che prevedeva la partecipazione della compagnia russa nel Central European Gas Hub, situato nel piccolo comune di Baumgarten, nello stato federato del Burgenland(17). Un luogo quasi simbolico: governato dal 1964 da esponenti dell’SPO, il Burgenland, trovandosi al confine con l’Ungheria, Paese del quale ospitava un significativa minoranza etnica, era negli anni della “cortina di ferro” strategicamente significativo.

Lungi dal rappresentare un atto di sudditanza, l’accordo tra OMV e Gazprom rientrava in una logica di mutuale convenienza. Dipendente per il 60% dalle forniture di gas provenienti dalla Federazione Russa, OMV aveva avviato nel 2012 un progetto per estrarre gas dalle coste rumene del Mar Nero attraverso una partnership tra la Petrom (compagnia rumena controllata a maggioranza da OMV) ed Exxon Mobil. In questo modo OMV, qualora South Stream avesse visto la luce, avrebbe paradossalmente potuto utilizzare le infrastrutture realizzate con la collaborazione di Gazprom per ridurre la propria dipendenza dal mercato russo, come osservato anche dal New York Times in un articolo dello scorso 22 luglio(18).

Visto lo scenario, non sorprende dunque che nel mese di dicembre, anche in seguito all’annuncio da parte del presidente russo Vladimir Putin della cancellazione del progetto South Stream, il cancelliere austriaco del PSO Werner Faymann abbia preso rigidamente posizione sia contro le sanzioni alla Russia (17 dicembre)(19), sia contro il Trattato transatlantico di libero scambio (TTIP)(18 dicembre)(20), che prevede un’integrazione tra il mercato europeo e quello nordamericano. Relativamente al TTIP, Faymann ha spiegato come l’Austria non intenda avallare una concessione di privilegi alle multinazionali americane, mentre relativamente alle sanzioni, il cancelliere ha affermato che l’Unione Europea non deve essere “una versione in abiti civili della NATO”.

Tale dichiarazione, più che la prima, è significativa in quanto rappresenta non solo una presa di posizione squisitamente pratica, ma anche e soprattutto ideologica (per il rifiuto di un trattato estremamente liberomercatista) rispetto ai rapporti di Vienna con l’alleanza atlantica che, come abbiamo visto, dalla metà degli anni ’90 si sono evoluti in un sostanziale crescendo. Tale presa di posizione dimostra come l’Austria, sebbene oggi integrata nel contesto dell’Europa comunitaria, sia ancora pronta a tornare a svolgere, all’occorrenza, un ruolo di autonomia, terzietà e alterità nel contesto politico europeo. Una possibilità questa che, rispetto ad altri Paesi europei, deriva, oltre che dal diritto internazionale, anche da una ridotta presenza militare straniera sul proprio territorio. L’Austria può dunque appresentare, nell’ambito dell’attuale momento di forte criticità nei rapporti tra la Federazione Russa, l’Unione Europea e la NATO, un cuscinetto in grado di ammorbidire in seno all’Europa le posizioni atlantiste più intransigenti, rappresentando così per Mosca un potenziale partner di primissimo piano anche per gli anni a venire e, data la sua lunga storia, un punto di riferimento strategico per il panorama mitteleuropeo.

NOTE
1. http://www.hs-augsburg.de/~harsch/germanica/Chronologie/16Jh/Sigismund/sig_intr.html
2. G.Davidson, Coincise English Dictionary, Wordsworth Editions Ltd. 2007, ISBN 1840224975, pag.1000
3. cfr. H.Troyat, Alessandro I. Lo zar della Santa Alleanza, Bompiani, 2001, ISBN 8845291170, 9788845291173
4. P.G.Dwyer, Napoleon and Europe, Routledge, 2014, ISBN 1317882717, 9781317882718, pag.255
5. H.Picks, Guilty victims: Austria from the holocaust to Haider, I.B.Tauris, 2000, ISBN 1860646182, 9781860646188, pag.35
6. M.Cattaruzza, La nazione in rosso: socialismo, comunismo e questione nazionale, 1889-1953, Rubbettino Editore, 2005, ISBN, 8849811772, 9788849811773, pag.17
7. M.Lallement, Le idee della sociologia, volume 1, EDIZIONI DEDALO, 1996, ISBN 8822002024, 9788822002020, pag.108
8. P.S.Adams, The Europeanization of the Social Partnership: The Future of Neo-corporatism in Austria and Germany, ProQuest, 2008, ISBN 0549663916, 9780549663911, pag.171
9. J.A.K.Hey, Small States in World Politics: Explaining Foreign Policy Behavior, Lynne Rienner Publishers, 2003, ISBN 1555879438, 9781555879433, pag.96
10. R.Luther – W.C.Mueller, Politics in Austria: Still a Case of Consociationalism, Routledge, 2014, ISBN 1135193347, 9781135193348, pag.203
11. G.Bischof-A.Pelinka-M.Gehler, Austrian Foreign Policy in Historical Context, Transaction Publishers, 2006, ISBN 1412817684, 9781412817684, pag.212
12. B.Volodarsky, The KGB’s Poison Factory, Frontline Books, 2013, ISBN 1473815738, 9781473815735 , pag.118
13. http://www.nato.int/cps/en/natohq/news_75912.htm?selectedLocale=en
14. http://www.aco.nato.int/nato-evaluates-the-capability-of-the-austrian-armed-forces.aspx
15. http://www.eurasia-rivista.org/dal-mare-nostrum-al-gallinarium-americanum-basi-usa-in-europa-mediterraneo-e-vicino-oriente/15230/
16. http://www.jamestown.org/single/?no_cache=1&tx_ttnews%5Btt_news%5D=34516#.VJ2_KV4BY
17. http://www.south-stream.info/press/news/news-item/south-stream-returning-to-austria/
18. http://www.nytimes.com/2014/07/23/business/energy-environment/an-austrian-company-in-gazproms-grip.html?_r=0
19. http://derstandard.at/2000009627760/Faymann-zieht-EU-Sanktionen-in-Zweifel
20. http://www.krone.at/Oesterreich/Faymann_droht_im_Ernstfall_mit_TTIP-Klage-Auch_im_Alleingang-Story-432130

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IL BHUTAN FRA TRADIZIONE E CAMBIAMENTO

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La monarchia bhutanese ha reagito alla globalizzazione districandosi fra la volontà di cambiamento e il mantenimento della tradizione. A metà degli anni ’90, il sovrano Jigme Singye Wangchuck, subendo numerose pressioni provenienti soprattutto dall’Occidente, stabilì che il proprio regime monarchico assoluto non avrebbe potuto affrontare il nuovo secolo senza introdurre riforme politiche democratiche. Il sovrano decise dunque di ridurre i propri poteri per accontentare le insistenti istanze di democratizzazione, provenienti soprattutto dall’estero, pur preservando la monarchia. Perciò, nel 1998 il re intraprese un vero e proprio processo di democratizzazione, mandando gli intellettuali di corte in cinquantadue stati a studiarne le costituzioni. La nuova costituzione, che si ispira soprattutto al sistema federalista politico ed amministrativo della Svizzera, fu presentata ai bhutanesi come un dono del sovrano poiché, per redigerla con il più ampio consenso possibile, il monarca coinvolse la popolazione, partecipando a consultazioni pubbliche nelle capitali dei venti distretti che compongono il paese. Questo processo, tuttavia, non coinvolse i circa centomila Lotshampa, cittadini di origine nepalese, espulsi dal Bhutan fra gli anni ’80 e ’90 e accolti in campi profughi nel Nepal e negli Stati Uniti.

Questo massiccio esodo fu provocato dall’introduzione, nel 1985, delle leggi per l’omogeneizzazione della cittadinanza, che crearono seri problemi di convivenza fra le etnie maggioritarie dei Ngalops e degli Sharchops, che professano una corrente tantrica del Buddhismo Mahayana, e i Lotshampa induisti, discendenti di immigrati nepalesi. Secondo queste leggi, veniva riconosciuto come cittadino soltanto chi poteva provare con varia documentazione che i genitori erano residenti in Bhutan prima del 1958. Gli altri dovevano lasciare il paese.
Nel 2006 Jigme Singye Wangchuck abdicò a favore del figlio Jigme Khesar Namgyel Wangchuck. Fra il 2007 e il 2008 il Bhutan cambiò la propria forma di governo monarchica da assoluta a costituzionale e tenne le sue prime elezioni legislative. Il 19 luglio 2008, il paese himalayano promulgò la sua prima costituzione, che prevede un parlamento bicamerale composto da un consiglio nazionale di venticinque membri e un’assemblea nazionale con quarantasette seggi, entrambi eletti a suffragio universale. Il governo è formato dal partito che detiene la maggioranza in parlamento. L’articolo 2 della costituzione bhutanese impone al sovrano di abdicare quando raggiunge i sessantacinque anni di età e prevede la possibilità di abolire la monarchia tramite un referendum.

Nel 2013 sono state tenute nuove elezioni legislative, vinte dal Partito democratico del popolo, che ha ottenuto trentadue seggi su quarantasette, sostituendo alla guida del paese il rivale Partito della pace e della prosperità del Bhutan. Come avvenne nel 2008, queste elezioni hanno registrato un’affluenza di circa 390 mila votanti, su una popolazione di circa 740 mila persone, per lo più residenti in villaggi montani e impossibilitate a raggiungere i seggi a causa della scarsità di strade e mezzi di trasporto.
Mentre intraprendeva la strada del cambiamento, il Bhutan ha difeso con determinazione le proprie tradizioni culturali, a partire dalla religione di stato, il Buddhismo Mahayana di scuola Drukpa. La costituzione bhutanese promuove nell’articolo 9 “una società compassionevole radicata nell’etica buddhista” e negli articoli 3 e 4 difende l’eredità spirituale e la cultura del paese. Nel 2010 il governo ha introdotto alcune leggi che impediscono alla popolazione di cambiare religione. Tuttavia, è stata la decisione di introdurre un “Codice delle buone maniere”, imponendo a tutti i cittadini l’abbigliamento tradizionale buddhista, che ha incontrato una certa resistenza all’interno della popolazione, soprattutto fra le fasce d’età più giovani. Nonostante questa normativa, i giovani dei centri urbani continuano ad indossare un abbigliamento occidentale, senza conseguenze penali, ma subendo le accese critiche di monaci e funzionari, mentre i lavoratori del settore pubblico, qualora manifestino aperto dissenso al Codice delle buone maniere, rischiano sanzioni pecuniarie e il licenziamento. Il governo ha inoltre proibito la tv occidentale, giudicata non conforme alla tradizione. Il Bhutan mantiene dal 1972 un indicatore denominato “Felicità Nazionale Lorda”, che si ispira alla cultura buddhista, poiché considera lo sviluppo umano come un’interazione armonica con l’universo, non limitandosi a misurare i livelli di reddito e di consumo, ma tenendo conto dei valori etici e spirituali e dell’ambiente naturale.

Nonostante i profondi cambiamenti politici, il Bhutan rimane un paese relativamente isolato dalla comunità internazionale e privo di relazioni diplomatiche formali con i membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, dai quali non riceve aiuti. Questo paese continua ad essere oggetto di contesa politica fra la Cina, che rivendica 269 kmq di territorio bhutanese, e l’India, che rifornisce il Bhutan di aiuti economici e ospita il principale mercato per le sue esportazioni.

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L’ARCIPELAGO DI CHAGOS FRA INTERESSI STRATEGICI OCCIDENTALI E QUESTIONE DEGLI ILOI

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“Orma della libertà” è il nome della base statunitense situata a Diego Garcia, l’isola principale dell’arcipelago di Chagos, una colonia britannica che comprende numerosi atolli sparsi nell’Oceano Indiano. Le isole Chagos facevano parte di Mauritius, una colonia insulare della Gran Bretagna situata nell’Oceano Indiano 2.000 km a sud-ovest di questo arcipelago. Nel 1965, su insistenza degli Stati Uniti, il governo britannico acconsentì alla separazione delle Chagos da Mauritius, per creare una nuova colonia denominata Territorio Britannico dell’Oceano Indiano. Nel 1966, con un accordo segreto, la Gran Bretagna concesse agli Stati Uniti il diritto ad installarvi una base militare aeronavale, con la garanzia che nessuna nave avrebbe potuto avvicinarsi a quelle isole senza un permesso scritto. A tal proposito, a Londra non vi fu alcun dibattito parlamentare e non venne fatta circolare alcuna notizia. L’arcipelago delle Chagos era abitato da una popolazione chiamata Iloi, discendente da schiavi africani importati dalla Gran Bretagna due secoli prima e da lavoratori malgasci e indiani a contratto di servizio. Gli Iloi avevano sviluppato una propria cultura e parlavano un linguaggio creolo, frutto della mescolanza delle loro lingue d’origine. Per mantenere segreta la costruzione della nuova installazione militare e per sbarazzarsi di una potenziale opposizione indigena, gli Stati Uniti e la Gran Bretagna decisero di deportare a Mauritius e nelle Seychelles le comunità di oltre duemila Iloi residenti nelle Chagos da cinque generazioni. In cambio, la Gran Bretagna costruì a proprie spese un nuovo aeroporto a Mahé, nelle Seychelles, e concesse a Mauritius l’indipendenza e tre milioni di sterline, a patto che rinunciasse a qualunque pretesa sull’arcipelago di Chagos. Inizialmente, il nuovo governo di Mauritius acconsentì in cambio dell’indipendenza, ottenuta nel 1968, e del denaro. Tuttavia, in seguito, non ha mai cessato di rivendicare quelle isole, dopo aver accusato la Gran Bretagna di aver violato una risoluzione delle Nazioni Unite che dichiarava illegale lo smembramento della colonia di Mauritius. Gli Stati Uniti pagarono segretamente alla Gran Bretagna 14 milioni di dollari per gestire la deportazione degli indigeni e per costruire in piena autonomia la base militare a Diego Garcia, un atollo a forma di ferro di cavallo lungo circa sessanta chilometri, che Londra cedette in gestione agli USA per cinquant’anni, in cambio di uno sconto sull’acquisto di armi nucleari. Fra il 1965 e il 1973 l’intera popolazione indigena fu evacuata in navi mercantili sovraffollate e in condizioni igieniche precarie, per essere abbandonata sulle banchine nei porti di destinazione, senza alcuna assistenza né risarcimento. Agli Iloi non era stato concesso di conservare alcuna proprietà e, ancora oggi, nessun governo riconosce loro alcun diritto di cittadinanza. Ultimata la deportazione degli abitanti, gli Stati Uniti, che intendevano completare il proprio ampio sistema di sorveglianza oceanica, installarono a Diego Garcia una struttura denominata Mago Classico, un collegamento a terra che faceva parte di un ampio e segreto progetto satellitare necessario a localizzare e captare le comunicazioni delle navi e dei sottomarini sovietici di tutto il mondo. Dalla base di Diego Garcia, che attualmente ospita personale statunitense e britannico, comprendente oltre tremila militari e civili, decollarono gli aerei per le missioni di bombardamento in Iraq, durante la Guerra del golfo del 1991, in Afghanistan, durante l’operazione Enduring Freedom che rovesciò il regime talebano, e ancora in Iraq nel 2003, per bombardare Baghdad, mentre era in corso Iraqi Freedom. La base è stata pure coinvolta nel programma della CIA “Rendition”, riguardante i prigionieri sospettati di terrorismo. Gli Iloi non hanno mai cessato di richiedere ai governi statunitense e britannico di rientrare nelle proprie terre. Nel luglio 2000 presentarono un’istanza alla Corona britannica per ottenere una sentenza che permettesse loro di fare ritorno alle proprie isole. Nel 2001 avviarono una causa presso una corte federale degli Stati Uniti, accusando il Pentagono di deportazioni illecite, discriminazione razziale, tortura e genocidio. Nel 2003, un tribunale britannico emise una sentenza secondo cui i diritti degli Iloi erano infondati. Soltanto nel marzo 2006, un gruppo di circa duecento Iloi ottenne dalla Gran Bretagna il permesso di effettuare una breve visita nell’arcipelago di Chagos, dove posero alcuni monumenti nei propri luoghi di origine. Nell’aprile 2010, per preservare l’ambiente naturale, la Gran Bretagna ha dichiarato questo territorio Area Protetta Marina, autorizzando la pesca soltanto al personale della base di Diego Garcia e proibendo qualunque attività estrattiva. Questa normativa, di fatto, pone un importante impedimento legale al ritorno degli Iloi nell’arcipelago di Chagos, ai quali verrebbe proibito lo sfruttamento delle proprie risorse ittiche e minerarie e quindi vedrebbero preclusa ogni attività economica. Perciò, due problemi importanti permangono tuttora irrisolti: la rivendicazione da parte di Mauritius dell’arcipelago di Chagos e il ritorno degli Iloi nelle proprie isole. Tali questioni continuano ad essere ignorate dai governi statunitense e britannico.

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BOSNIA-ERZEGOVINA E BRUXELLES: DIALOGO (IM-)POSSIBILE?

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L’Accordo di Associazione e Stabilizzazione (ASA) rappresenta per i Paesi non membri dell’Unione Europea il primo passo per riuscire a farne parte. Nella regione dei “Balcani occidentali”, la ratifica del cosiddetto «accordo interinale» dell’ASA ha rappresentato per Slovenia e Croazia l’ufficiale ingresso nella stessa Comunità europea in qualità di Paesi membri, mentre per Serbia, Montenegro e Macedonia ha promosso un’ accelerazione dei negoziati finali per la conclusione dello stesso processo di adesione.

Tra le ex Repubbliche jugoslave è la Bosnia-Erzegovina il Paese che ha manifestato le maggiori difficoltà nell’attuazione dell’ASA, nonostante quest’ultimo sia stato ratificato già sei anni addietro nel 2008. Se le cause principali riguardano importanti inadempienze soprattutto in ambito giuridico, è il sempre maggiore potere decisionale dei tre popoli costitutivi presenti nel Paese, ossia la comunità croata, serba e bosgnacca, che ha rallentato l’avvicinamento di Sarajevo a Bruxelles.

Nonostante la maggiore inadempienza contestata alla Bosnia-Erzegovina dalle istituzioni comunitarie riguardi la non attuazione della sentenza Sejdić-Finci, emessa dalla Corte per i diritti umani di Strasburgo, la Commissione Europea sembra essere decisa a ripristinare un percorso che al momento viene definito «non percorribile». Come ha sottolineato a Sarajevo lo scorso dicembre l’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza, l’italiana Federica Mogherini, l’obiettivo del Consiglio dell’Unione rimane quello di produrre un’implementazione più positiva tra Bosnia-Erzegovina ed Unione Europea in virtù dell’Accordo già esistente.

Gli storici processi di integrazione promossi da Bruxelles, siano essi stati di natura politica come nel caso della Grecia, Spagna o Portogallo per la prevenzione di un ritorno all’autoritarismo, che di natura economica come per gli ex Paesi sovietici sotto il Patto di Varsavia, non sono minimamente comparabili all’attuale scenario presente all’interno del territorio bosniaco-erzegovino.

Appare altrettanto chiaro che un tale processo tecnico di integrazione, in cui a precise scadenze vengono imposti obblighi e concesse delle “contropartite”, non è attuabile per evidenti problemi di natura politica.
La stessa Unione Europea, attore promotore dell’avvicinamento con Sarajevo, nonostante disponga del Direttorio per l’Integrazione, è mancante in tale istituto di un potere esecutivo capace di identificare responsabilità e possibili ostruzionismi. Il testo normativo in ambito di integrazione, ossia “La strategia europea in materia di sicurezza” siglato nel 2003, ha evidenziato tutta la sua inadeguatezza in Bosnia-Erzegovina poiché documento omologo a quello già adottato negli Stati Uniti d’America in un contesto ovviamente completamente differente.
Anche se Sarajevo ha promosso sia un forte allineamento alle politiche comunitarie sia pareri concordi alle specifiche risoluzioni della PESC, il problema bosniaco sembra aggravarsi per una possibile implosione politica interna, sottovalutata fin dalla conclusione dei colloqui di pace di Dayton nel 1995.

La natura del problema ricade sulla divisione interna dello Stato che nelle sue componenti etniche, divenute oramai vere comunità politiche molto influenti grazie al loro peso decisionale nelle istituzioni, manifesta tutta l’incapacità di raggiungere gli obiettivi preposti da un altro importante concordato, quello di “Prud III”. Il testo del 2009, che avrebbe dovuto realizzare un concreto assetto federale basato su un principio di autonomia territoriale piuttosto che etnico-comunitaria, avrebbe garantito una non ingerenza di alcuno attore esterno ed escluso qualsiasi pressione politica durante la sua attuazione.
Al momento, un ripristino dei dialoghi intorno agli obiettivi del “Prud III” rappresenta per Bruxelles l’unica speranza di riuscire a ricostruire un dialogo con la Bosnia-Erzegovina in chiave di integrazione europea.

I cambiamenti sviluppatisi dopo la conclusione della guerra fratricida di quasi un ventennio addietro, potrebbero compromettere definitivamente l’ingresso del Paese all’interno dell’Unione Europea.
Quello che è sempre stato definito un problema etnico-identitario, oggi sembra trasformarsi in uno di natura prettamente politica; l’assetto costituzionale, inoltre, garante della parità di rappresentanza delle tre comunità in ambito istituzionale, sembra al momento non regolamentare il forte momento di crisi.

La Šestorka, la coalizione politica d’opposizione che negli anni 2000 vinse le elezioni come forza promuovendo un serio cambiamento all’interno del Paese, ha perso qualsiasi tipo di credenziale e fiducia per l’aumento del tasso di corruzione e per i tanti casi di clientelismo. Anche gli storici partiti del Paese ed i loro leaders, gravati dagli errori in ambito negoziale non solo con Bruxelles, non sembrano più rappresentare un punto di riferimento per la popolazione e per le tre comunità etniche presenti.

La crescente spinta indipendentista serbo-ortodossa appare voler spingere la Repubblica di Srpska in un’enclave monoetnica poiché, ancor oggi, quasi la maggioranza della gente si autodefinisce “jugoslava” o addirittura “patriota-jugoslava” da un punto vista politico.
In una della sua municipalità più rappresentative, ossia la città di Banja Luka, la pretesa di una maggiore autonomia ha inaugurato l’ennesimo momento di crisi tra la comunità serba ed il principale attore politico rappresentante della stessa comunità, ossia il Partito del Progresso Democratico.

La richiesta di ricondurre la Bosnia-Erzegovina verso una struttura più confederale riecheggia oggi proprio a Sarajevo, dove i “patrioti bosniaci” si scontrano politicamente con le pretese delle stesse istituzioni capitoline che allo stesso tempo auspicano una riforma politica in un’ottica di centralizzazione statale.
Proprio la capitale, inoltre, rispetto a quello che mostravano i suoi dati storici, è al momento protagonista di una crescente islamizzazione conseguente l’incremento della sempre maggiore presenza della comunità bosgnacca. Quella che un tempo era una delle città roccaforte della comunità sia serba che ortodossa, simbolo della vecchia Jugoslavia, vede adesso la possibile avanzata del Partito d’Azione Democratica, rappresentante della stessa comunità musulmana.

Nella zona a maggioranza croata invece, l’istanza politica rivendicata dalla comunità etnica riguarderebbe il tentativo di riuscire a trasformare la finzione legale dell’uguaglianza costituzionale dei «tre popoli costitutivi» in un assetto paritario con la capitale Sarajevo. La città di Mostar, enclave proprio della comunità croata e del leader socialdemocratico Željko Komšić, sembra essere la più accreditata a rappresentare la “seconda capitale” di questa atipica forma di Stato.

Nonostante tutto, se da una parte la Bosnia-Erzegovina sembra rimanere una federazione fortemente decentralizzata, dall’altra è evidente che le politiche dell’Unione Europea in tema di allargamento dei propri confini esterni non corrispondono ai risultati sperati.
Anche l’Ucraina, ad esempio, stretta nella morsa tra Bruxelles e Mosca, aveva in parte rifiutato nel 2013 la possibilità di firmare l’accordo interinale dell’ASA. Forse, anche quest’aspetto, potrebbe essere l’ennesima chiave di lettura di tale scenario.

Se il caso bosniaco e quello ucraino appaiono delle coincidenze, una loro veloce comparazione con un altro scenario balcanico, precisamente quello del Kosovo, confermerebbe la totale inadeguatezza delle politiche di Bruxelles.

L’Unione Europea, che aveva sostenuto le istanze indipendentiste di Priština con la dichiarazione di indipendenza dalla Serbia, violando de jure e de facto qualsiasi principio di integrità territoriale sancita dal diritto internazionale, potrebbe veder fallire uno dei suoi più importanti progetti di cooperazione ed integrazione nei Balcani a causa di pulsioni politiche che per interesse e parzialità di giudizio oggi non vengono sostenute.

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VENEZIA MODERNISTA E VENETO IDENTITARIO: DIALETTICA GEOPOLITICA DI DUE SENTIMENTI

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Il dibattito su una maggiore autonomia del Veneto genera risvolti interessanti nello scacchiere geopolitico dell’Europa centro-meridionale. L’area del Veneto fin dalla tarda antichità ha sempre svolto per quest’area specifica il ruolo di porta d’Oriente, sia per via della sua posizione geografica, sia per il suo antichissimo retaggio culturale. Facendo esclusivamente riferimento alla laguna di Venezia e stando ad alcune ricerche condotte già a partire dagli anni ’70 dall’Università di Ferrara, possiamo osservare come essa fosse abitata fin dal VI millennio avanti Cristo, in virtù della struttura lagunare che favoriva lo sviluppo di insediamenti umani attorno ad attività quali la caccia e la pesca. L’attività tradizionale della laguna, il commercio marittimo, ebbe inizio fin dall’era preromana, quando, sebbene non abbiamo oggi indicazioni della presenza di grosse aree portuali in quell’area nel periodo preso in esame, la laguna costituì comunque un centro di scambi tra le popolazioni greche ed etrusche(1).

Tale ruolo di ponte tra il mondo latino e il mondo greco e, più in generale, gli imperi medio-orientali, proseguì anche in età romana. A quei tempi, il Veneto ospitava due centri commerciali che quasi con certezza possono essere considerati di notevole importanza, come Chioggia e Altino(2), aree dove numerosi sono stati i ritrovamenti che hanno permesso di ricostruire la biografia dell’area. Il legame di Venezia con l’Oriente d’Europa fu consacrato con la prammatica sanzione di Giustiniano del 554, che inglobò il Veneto nell’ambito dei territori dell’Impero Romano d’Oriente, facendo riferimento all’esarca di Ravenna. La costituzione del primo nucleo abitato che poi portò alla nascita di Venezia fa riferimento a un evento traumatico. L’invasione dei Longobardi del 568 spinse infatti, come nel 452 ai tempi della calata degli Unni, gli abitanti degli stanziamenti romani dei centri urbani a cercare la salvezza nello spazio lagunare(3).

L’evento va considerato significativo, poiché produsse una rottura di carattere culturale e antropologico tra l’area di Venezia e quella dell’entroterra veneto. Si delineò infatti una demarcazione tra due identità differenti: quella dell’area del Veneto interno, che subì le incursioni e lo stanziamento di bellicose popolazioni eurasiatiche quali Unni e Longobardi e che conservò un carattere agricolo, e quella dell’area lagunare, che permanendo all’interno dell’esarcato preservò la propria identità romana e che successivamente si specializzò nelle attività commerciali. Della ricchezza e della potenza di Venezia nel basso medioevo e in epoca rinascimentale sarebbe superfluo trattare in questa sede. Ciò che interessa però mostrare è, in virtù della specificità veneziana prima sottolineata, come il carattere commerciale di Venezia la portò, dopo la vittoria nella battaglia di Chioggia del 1380, ad aprirsi a nuove rotte: da un lato quelle aperte dalle crociate come il Levante, la Siria e Cipro, dall’altro Venezia divenne centro di scambi della nascente borghesia commerciale e finanziaria europea che si muoveva tra l’Inghilterra, i Paesi Bassi e Bruges(4). Le attività finanziarie subirono un’espansione in ragione della decisione del Maggior Consiglio del 1382 di consentire agli ebrei, in maggior parte ashkenaziti e residenti in città fin dal IX secolo, di concedere prestiti in denaro(5). In virtù di queste premesse si può comunque tranquillamente affermare che, insieme alle città della Toscana come Firenze o Siena e alle città commerciali del Nord Europa, Venezia rappresentò uno dei primi centri irradiatori di quella borghesia commerciale e dedita ad attività finanziarie che diede l’avvio alla transizione da un modello di società feudale e tradizionale alla società protocapitalista.

Lo scenario mutò radicalmente nel XVI secolo, quando la Lega di Cambrai riunita attorno al Papato e al Sacro Romano Impero sconfisse Venezia nella battaglia di Agnadello del 1509, sancendo l’inizio del declino della potenza commerciale e finanziaria della Laguna. Fu un momento storico decisivo per Venezia, che fu caratterizzato, a riprova di una doppia identità veneta che si rivelava non solo sull’asse tra laguna ed entroterra ma anche su quello tra oligarchia e popolo, da una reazione popolare e del clero contro le precedenti politiche delle oligarchie economiche cittadine. Dopo Agnadello nulla fu come prima. Il Doge Leonardo Loredan aveva dichiarato che la sconfitta era il risultato di un castigo divino per la superbia dei veneziani e dal 1512 erano state introdotte leggi per limitare il consumo di beni di lusso(6) e il declino colpì anche la finanza ebraica cittadina. Nel 1516 infatti il Maggior Consiglio sancì il trasferimento della comunità ebraica all’interno di un ghetto, sotto le insistenze dei francescani, che chiedevano la loro espulsione totale dalla città(5). Lo scrittore russo-spagnolo Daniel Estulin afferma, invero senza un corredo di fonti autorevole, che la borghesia finanziaria veneziana dopo Agnadello trasferì gran parte delle proprie attività verso l’Inghilterra, dove ebbe un ruolo importante nello sviluppo della finanza locale(7). Permane comunque il fatto che l’integrazione socio-culturale tra Venezia e il Veneto, ebbe un’accelerazione proprio a partire dal XVI secolo, quando il patriziato veneziano iniziò a investire a sua volta in attività agricole nell’entroterra, dismettendo molte attività commerciali(8).

Tuttavia, sempre nell’ottica di quella doppia personalità di cui abbiamo già detto, le caratteristiche commerciali e borghesi di Venezia e la sua tradizione di centro finanziario con legami aperti al mondo anglosassone dovettero in qualche modo restare presenti se, già nel 1730, appena tredici anni dopo la nascita formale della massoneria eterodossa moderna, nella città lagunare si diffondevano le prime logge, le quali godevano di relazioni internazionali e furono fondate principalmente da soggetti inglesi e protestanti(9). Il carattere “progressista” di Venezia rispetto al resto del Veneto, è comunque presente in qualche modo anche ai giorni nostri, tanto è vero che Venezia, abitualmente amministrata da governi locali di centrosinistra, non fa parte della lista dei 181 comuni della Regione che, e qui arriviamo al cuore della nostra trattazione. hanno deciso di appoggiare le istanze indipendentiste(10). Da un punto di vista dell’impatto politico, tale assenza ha un peso importante nel determinare la credibilità del sentimento, che però, poggiando su quella che abbiamo definito come la seconda identità veneta, quella fortemente legata alle radici locali, non è del tutto liquidabile come folkloristico. Inoltre, anche le storiche relazioni con l’Oriente d’Europa sono cruciali per comprendere quelle che potrebbero essere le dinamiche in vista di un futuro sviluppo dei movimenti indipendentisti. A differenza di iniziative del passato, cariche appunto di folklore ma spesso poco incisive, il mutato scenario fa infatti sì che tali sentimenti di autonomia abbiano oggi una chiara prospettiva anche in senso geopolitico. Per fare un esempio, molto risalto a livello mediatico ha avuto l’iniziativa di Pleibiscito.eu, un’organizzazione che ha lanciato il referendum online tenutosi dal 16 al 21 marzo del 2014, il quale, pur avendo un mero carattere propagandistico, ebbe eco notevole a livello internazionale, ad esempio da parte dei media russi(11). Giova d’altro canto sottolineare come comunque la chiave geopolitica di tale atto non fosse ignorata dall’organizzazione se Gianluca Busato, imprenditore e presidente del comitato, nello scorso mese di dicembre ha avuto modo di dichiarare che “il Veneto debba mettere a frutto il grande cambiamento geopolitico già in atto tra Occidente e Oriente”(12).

Più concreta, per lo meno in termini formali, è l’iniziativa intrapresa dal movimento “Indipendenza Veneta”, nato nel maggio del 2012 e la cui storia merita di essere riassunta. Il 22 dello stesso mese, il movimento consegnava nelle mani del Governatore della Regione Veneto, Luca Zaia, circa 20.000 firme a sostegno di una petizione popolare per l’indizione di un referendum sull’indipendenza del Veneto. Nell’agosto dello stesso anno, Zaia rispondeva con una lettera,riferendo che la petizione sarebbe stata esaminata dalla Presidenza del Consiglio Regionale. Gli eventi hanno subito un’accelerazione improvvisa il 6 ottobre del 2012, con la convocazione, da parte del movimento indipendentista, di una manifestazione di fronte alla sede della Regione, per raccogliere le firme a sostegno della Risoluzione n.44 del 2012, di iniziativa popolare e successivamente protocollata per una discussione in una seduta straordinaria richiesta da 42 dei 60 consiglieri regionali. La Risoluzione è stata approvata il 28 novembre del 2012. Nel febbraio 2013 Indipendenza Veneta ha presentato al Consiglio Regionale una delibera referendaria di iniziativa popolare che richiedeva l’indizione, da parte dell’Ente regionale, del referendum per l’indipendenza. La Regione tuttavia, ha rinviato il 30 luglio del 2013 la votazione sull’indizione del referendum a data da destinarsi. Il 1 aprile del 2014 La commissione Affari istituzionali del Consiglio Regionale del Veneto, ha approvato il progetto per la legge 342 sul referendum per l’indipendenza e lo ha reinoltrato al Consiglio che ne ha votato l’approvazione il 12 giugno 2014. Il referendum a questo punto è divenuto legge regionale(13). Successivamente la Regione ha aperto un conto corrente per sostenere le spese elettorali sul quale versare le donazioni(14).

Il Governo italiano ha osteggiato l’iniziativa, avanzando richiesta alla Consulta Costituzionale di esprimersi sulla legittimità della legge regionale che ha indetto il referendum. Secondo un documento ufficiale riportato dal quotidiano online affaritaliani.it poco prima di Natale, la questione sarà presa in esame a partire da un’udienza che si terrà il 28 aprile 2015(15). Le problematiche giuridiche, che qui non prendiamo in esame, di un’eventuale scissione del Veneto del resto hanno anche un retroterra geopolitico. Basti pensare che sul territorio veneto sono presenti ben 19 centri e basi militari tra Nato e statunitensi, tra cui il quartier generale della Nato e comando della Setaf della Us Army, che controlla le forze americane stanziate in Italia, in Turchia (forze queste cruciali nell’ottica delle criticità siriane) e in Grecia di Camp Ederle e la base Nato per le forze di terra di tutto il Sud Europa di Verona(16). Un’uscita del Veneto dalla Repubblica Italiana avrebbe come ovvia e primaria conseguenza quella di una ridiscussione degli impegni presi negli anni dallo Stato italiano, incluse le permanenze nell’Unione Europea e nella Nato.

Considerazione importante da fare in tal senso è che un partito storicamente forte nella Regione, la Lega Nord, ha recentemente adottato una propaganda filorussa di opposizione alle recenti posizioni della Nato, siglando un’alleanza con il partito Russia Unita(17). Non solo, ma lo stesso Governatore, Luca Zaia, si è recato nel mese di novembre alla Duma per incontrare il vice primo ministro, Arkady Dvorkovich per discutere delle sanzioni applicate dai Paesi europei, incontro avvenuto secondo la stampa italiana in aperta violazione di un parere contrario del Ministero degli Esteri(18). Questa situazione apre scenari interessanti perché, se da un lato il percorso verso l’indipendenza va incontro all’avversione delle istituzioni centrali e dello stesso capoluogo regionale, lo scenario è favorevole affinché, in virtù di una concreta “minaccia” sul piano geopolitico, esso possa essere utilizzato quantomeno per ottenere un regime di maggiore autonomia per la Regione, come richiesto anche dallo stesso governatore Zaia(19). E’ infatti del tutto evidente che, se anche queste istanze fossero disattese, anche e soprattutto in luce dell’attuale crisi economica italiana, sentimenti identitari e indipendentisti ne uscirebbero rafforzati.

1.http://www.archeosub.it/articoli/laguna/lgnprst.htm
2.http://www.archeosub.it/articoli/laguna/lgnrmn.htm
3.cfr. L.Gatto, La grande storia del Medioevo, Newton Compton Editori, 2012, ISBN 885414410X, 9788854144101
4.C.P.Kindleberger, I primi del mondo. Come nasce e come muore l’egemonia delle grandi potenze, Donzelli Editore, 2003, ISBN 8879897527, 9788879897525, pag.81
5.D.Simonis – R.Romano – A.Schwarz – E.Prandi, Venezia, EDT srl, 2008, ISBN 8860402735, 9788860402738, pag.95
6.M.G.Muzzarelli – A.Campanini, Disciplinare il lusso: la legislazione suntuaria in Italia e in Europa tra Medioevo ed Età moderna, Carocci, 2003, ISBN 8843026291, 9788843026296, pag.49
7.cfr. D.Estulin, Il club Bilderberg. La storia segreta dei padroni del mondo, Arianna Editrice, 2011, ISBN 8865880473, 9788865880470. N.B. Si tenga presente della natura giornalistica e lacunosa del testo, per lo meno sul fronte documentale.
8.M.D’Innella, Venezia e il Veneto, Touring Editore, 1999, ISBN 8836514650, 9788836514656, pag.20
9.G.Cantarutti – S.Ferrari, Illuminismo e protestantesimo, Franco Angeli, 2010, ISBN 8856829320, 9788856829327, pag.43
10.http://www.indipendenzaveneta.com/comuni-virtuosi/comuni-supportano-il-referendum-per-lindipendenza.html
11.http://espresso.repubblica.it/opinioni/vetro-soffiato/2014/09/23/news/ora-torna-l-amore-per-le-piccole-patrie-1.181375
12.http://espresso.repubblica.it/attualita/2014/03/21/news/veneto-il-referendum-fuffa-che-piace-ai-russi-1.157983
13.http://www.plebiscito.eu/wp-content/uploads/2014/12/comunicatoV3_PBeu-310×194.jpg 14. http://www.indipendenzaveneta.com/cronologia/convegno-a-castelbrando.-autodeterminazione-la-via-istituzionale-per-l%E2%80%99indipendenza-del-veneto.html
14.http://www.indipendenzaveneta.com/news/2014/09/30/apertocontocorrente/
15.http://www.affaritaliani.it/politica/veneto-consulta2312.html
16.http://espresso.repubblica.it/attualita/cronaca/2012/05/02/news/l-elenco-delle-servitu-militari-1.42767
17.http://milano.corriere.it/notizie/politica/14_ottobre_17/fine-summit-salvini-beve-caffe-putin-22da8a3c-561e-11e4-8d72-a992ad018e37.shtml
18.http://corrieredelveneto.corriere.it/veneto/notizie/cronaca/2014/27-novembre-2014/zaia-rientro-viaggio-russiarispetto-le-nostre-imprese-230622592101.shtml
19.http://www.regioni.it/news/2015/01/09/riforme-zaia-a-parlamentari-fare-veneto-a-statuto-speciale-383117/

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LA GUERRA DEL PREZZO DEL PETROLIO E LA CORSA ALLA LEADERSHIP IN MEDIORIENTE

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Il 2015 è cominciato all’insegna di un diffuso calo degli indici dei mercati azionari, dove gli operatori sono stati spinti a rinunciare agli asset ritenuti più rischiosi a causa della paventata eventualità del “grexit” e dell’incertezza politica in Grecia, dove i sondaggi danno in vantaggio alle prossime elezioni il partito Syriza di Alexis Tsipras, che ha promesso battaglia all’austerity imposta ad Atene dalla Trojka.
L’altro motivo per cui i mercati stanno subendo perdite per centinaia di miliardi di dollari, in questi giorni, è dato dall’ennesimo calo dei prezzi del greggio, che negli Stati Uniti è crollato sotto i 50 dollari, con conseguenze più o meno gravi per gli attori in campo: “Tale caduta dei prezzi sta andando oltre le aspettative e questo peserà anche sui guadagni delle società Usa del settore energetico”[1] , ha commentato Hirozaku Kabeya, senior strategist di Daiwa Securities. La drastica riduzione del prezzo del greggio ci mostra, poi, come la produzione petrolifera russa sia oggi ai livelli più alti dell’era post-sovietica e l’export iracheno sia vicino ai massimi da 35 anni.
Il petrolio nel gennaio del 2015 costa, al barile, 20 dollari in meno rispetto ad un anno fa. Per comprendere meglio l’anomalia basta considerare che il prezzo del greggio oscilla storicamente tra i 70 ed i 110 dollari al barile, per cui è pacifico constatare il dissesto economico dei paesi esportatori di greggio e le perdite per le compagnie energetiche.
Un posto di lavoro su tre, creato negli Stati Uniti dopo il crollo finanziario del 2008 è legato al boom dell’esplorazione di petrolio e gas da formazioni rocciose (chiamato fracking). Gli Usa in questo modo hanno iniziato a produrre più petrolio e gas della Russia o dell’Arabia Saudita – divenendo un esportatore netto di energia. Ciò ha costituito una parte enorme della ripresa economica negli Stati Uniti. Ma questa trasformazione economica è minacciata oggi dall’Arabia Saudita che continua a produrre quasi 9 milioni di barili di petrolio, senza alcun riguardo per la domanda globale di energia, portando ad una contrazione dei prezzi energetici ed alla riduzione degli investimenti in ricerca di petrolio e gas negli Stati Uniti. Infatti non solo l’esplorazione ma anche l’estrazione si sta velocemente arrestando, esponendo pericolosamente l’economia statiunitense.
Per queste ragioni e per le conseguenze di natura geopolitica, il crollo del prezzo del petrolio rientra tra gli eventi economici più importanti del 2014, che avrà importanti conseguenze anche nell’anno appena subentrato.

 

LA GUERRA DEI PREZZI

Il crollo del prezzo del petrolio è la conseguenza di un semplice assunto economico secondo cui, data la domanda mondiale di un bene, la riduzione del livello di produzione (e quindi dell’offerta) di quel bene ne provoca un aumento del prezzo data la minore quantità disponibile sul mercato. Ma i paesi dell’Opec (il cartello che riunisce gli stati esportatori di petrolio) guidati dall’Arabia Saudita, hanno scelto di mantenere inalterati i livelli di produzione nonostante l’eccesso di offerta globale e la persistente richiesta di Iran e Venezuela, stati membri del cartello, di tagliare la produzione.
“Il crollo dei prezzi mondiali del petrolio farà male ai paesi di tutto il Medio Oriente a meno che l’Arabia Saudita – il più grande esportatore di greggio al mondo – non intervenga per scongiurare la crisi”, ha affermato Hossein Amir Abdollahian, il vice ministro degli esteri iraniano a Reuters.

 

CORSA ALL’EGEMONIA REGIONALE

Ma quello della “guerra dei prezzi”, come diffusamente definita dagli iraniani, è l’ennesimo capitolo delle continue tensioni tra la Repubblica Islamica sciita ed il Regno saudita sunnita, che proseguono senza esclusione di colpi la corsa per il potere e l’influenza regionale, nonostante le speranze di riavvicinamento dopo l’insediamento del nuovo Presidente iraniano Hassan Rouhani nell’agosto del 2013 [2].
L’Iran con l’elezione di Rouhani, per uscire dalla morsa delle sanzioni ha accettato di negoziare i termini del proprio programma nucleare con i paesi del “5+1″ (composto dagli stati membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu, più la Germania) che premono affinché l’Iran limiti la propria capacità nucleare riducendo il numero delle centrifughe per l’arricchimento dell’uranio a qualche migliaio per assicurare tempi lunghi nel caso in cui l’Iran decidesse di costruire armi nucleari. Ma le prove di dialogo non assicurano la riuscita della trattativa e per il 15 gennaio è prevista la ripresa dei colloqui.
Se l’eventualità di “riammettere” l’Iran nella comunità internazionale alletta i capitali di Stati Uniti ed Unione Europea, sempre alla ricerca di nuovi mercati e nuovi partner commerciali, tra i sostenitori dello status quo ci sono Israele e Arabia Saudita, appunto, che paventano le ambizioni nucleari di Teheran e cercano di intralciare le prove di dialogo. I sauditi temono il tradimento degli Usa, così come avvenuto per l’Egitto di Mubarak, avamposto sunnita nel Mediterraneo, nonché la possibilità di una coalizione ostile formata da Iran, Turchia e quegli stati del GCC che sostengono la Fratellanza musulmana e cercano di emergere sul piano internazionale, come il Qatar con cui l’Iran condivide la proprietà del più grande giacimento di gas al mondo: il North Dome- South Pars. Poi c’è l’Oman, il più fidato alleato dell’Iran nel Golfo Persico, con cui condivide la sovranità sullo Stretto di Hormuz, importante check-point da dove passa un quinto del petrolio scambiato sui mercati globali.
In Israele sono in molti ad ammettere dei progressi rispetto al regime di Ahmadinejad, ma si ritiene che Rouhani non sia realmente alla guida del paese e che la svolta moderata nella politica iraniana sia una strategia della Suprema guida spirituale Ali Khamenei, il vero “deus ex machina” della politica iraniana. Il sostegno iraniano ad Hezbollah e Hamas, nonché l’impegno, condiviso con la Russia, di mantenere Assad al potere in Siria, restano i principali ostacoli al confronto tra i due paesi. Nel frattempo Israele cerca di bloccare i progressi dei colloqui sul nucleare iraniano facendo pressione sulla maggioranza repubblicana in seno al Congresso degli Stati Uniti [3].
L’Arabia Saudita cerca, invece, di convincere Obama ad abbandonare la via del dialogo con il competitor sciita rivolgendogli contro la stessa arma che gli Stati Uniti hanno utilizzato per mettere in ginocchio le economie dell’Iran e della Russia, data la loro dipendenza dalle esportazioni di gas e petrolio: incoraggiando l’Arabia Saudita a far scendere il prezzo del greggio, in una guerra economica che adesso rischia di coinvolgere gli stessi Stati Uniti.

 

LA CRISI DOPO LE SANZIONI

Le pesanti sanzioni imposte da più di un decennio da Stati Uniti, Unione Europea e Nazioni Unite a causa del mancato accordo sul programma nucleare iraniano, l’isolamento internazionale e la crisi del prezzo del petrolio hanno messo l’economia dell’Iran in crisi. Tale situazione sta spingendo il paese a rivedere la propria spesa pubblica ed a cercare misure tali da dare sollievo alle disastrate casse nazionali, come la decisione di dare la possibilità ai giovani di “comprare” l’esclusione dai due anni di servizio militare obbligatorio. Si tratta di una misura emblematica della situazione che attraversa il paese, considerando che l’Iran ha relazioni piuttosto turbolente con quasi tutti i suoi vicini e che possiede un esercito di quasi mezzo milione di soldati, in gran parte coscritti. [4]
Permettere ai più ricchi di acquistare l’esenzione dalla coscrizione militare avrà il duplice effetto di migliorare i conti e di dare l’opportunità a molti giovani iraniani di impegnarsi in attività economicamente più redditizie per il paese o di proseguire gli studi.
Ma per far fronte al dissesto economico, Teheran dovrebbe attuare riforme strutturali, superando l’attuale sistema fiscale particolarmente inefficiente e arretrato, diversificare l’economia, dato che circa un terzo delle entrate pubbliche proviene dalle esportazioni di petrolio: il Paese è in possesso della quarta più grossa riserva di petrolio al mondo ed è il secondo paese esportatore dell’OPEC, dietro l’Arabia Saudita.
In questo contesto i riformisti iraniani sembrano avere maggiori margini di manovra. Sono stati loro a proporre la legge sull’acquisto dell’esenzione dalla coscrizione obbligatoria, che avevano già proposto nel 1999 in circostanze simili. Ma oggi, la Suprema guida, Khamenei sembra maggiormente disponibile ad una svolta moderata e potrebbe aprire all’ammodernamento del regime fiscale e soprattutto potrebbe liberare il settore privato, dando maggiore dinamismo all’economia.

 

LO SCACCHIERE MEDIORIENTALE

La pace passa in secondo piano quando in gioco ci sono interessi strategici inconciliabili e l’Arabia Saudita non sembra minimamente intenzionata a desistere in questa guerra contro Iran e Russia che hanno fermamente sostenuto il regime di Assad in Siria. Ma più in generale difficilmente potrà esservi pace tra due paesi che si pongono in concorrenza sui mercati, gli investimenti e le influenze in tutto il Medio Oriente. E l’Arabia Saudita sa bene che mettere fuorigioco Iran e Siria porterebbe nuove opportunità per i sauditi ed i propri alleati.
Nella “guerra economica” contro l’Iran e la Russia, l’Arabia Saudita ha il potenziale per indebolire i propri avversari attraverso la recessione economica, il caos interno ed il malcontento popolare, consentendo in tal modo una possibile invasione della Siria o magari dell’Ucraina orientale o persino dell’Iran.
Appare poi intollerabile per l’Arabia Saudita che un quinto della produzione mondiale di petrolio (e la maggior parte della produzione saudita) debba passare attraverso lo stretto di Hormuz – check-point posto sotto il controllo degli iraniani.

Ma la potenza regionale dell’Iran è sostenuta dalle sue connessioni politiche e religiose in tutto il Medio Oriente. L’Iran esercita la propria influenza sulla maggioranza sciita in Iraq, ma anche sull’organizzazione sciita Hezbollah e sugli sciiti alla guida della Siria, in quella che viene definita la “Mezzaluna sciita”. Esistono anche consistenti popolazioni sciite oppresse in Arabia Saudita, Bahrain, Yemen, e Turchia che agiscono come spine nel fianco dei governi settari sunniti, dando all’Iran una potente base politica su cui fare affidamento in ogni paese. A queste preoccupazioni, per l’Arabia Saudita si aggiunge il fatto che quasi tutta la produzione di petrolio e gas dei sauditi, si concentra in province a maggioranza sciita, situate vicino al Golfo Persico.
Il ritratto dell’Iran come “difensore degli sciiti”, dunque, non può che contrapporsi all’Arabia Saudita, nei diversi, seppur simili fronti in Medio Oriente: ad esempio, quando l’Arabia Saudita ha annunciato una sentenza di morte per un popolare religioso sciita, l’Iran ha risposto che ci sarebbero state “conseguenze” se la condanna fosse stata eseguita. Ma esistono situazioni ben più difficili da affrontare come nello Yemen, dove è in atto un’insurrezione da parte della popolazione sciita contro il governo sunnita, sostenuto dall’Arabia Saudita, che finanzia i combattenti di al-Qaeda contro di loro. Oppure in Libano, dove l’Iran sostiene Hezbollah, o in Bahrain dove la maggioranza sciita della popolazione (70% del totale) si è rivoltata contro la dinastia sunnita al potere, che ha deluso le aspettative democratiche dei cittadini e perpetra da tempo discriminazioni interconfessionali.
L’Iran non vuole perdere il controllo dell’Iraq e della Siria, a maggioranza sciita, dato che ha sempre ricoperto una posizione centrale nella strategia regionale iraniana, risultando di vitale importanza per gli interessi strategici di Teheran. È l’anello principale della catena di deterrenza contro Israele che passa, attraverso Damasco, per Hezbollah, Hamas e il Jihad islamico palestinese. Negli ultimi due anni la Repubblica Islamica ha investito, a fondo perduto, 10 miliardi di dollari in sostegno finanziario all’establishment ba’athista. Centralità espressa recentemente dall’Hojatoleslam Mehdi Taaib, direttore di un think-tank vicino alla Guida suprema Ali Khamenei, il quale ha dichiarato molto significativamente che “la Siria è la 35° provincia iraniana e ha un’importanza strategica rilevante. Se perdiamo la Siria non potremo tenerci Teheran.” [5] Ma la Siria e l’Iraq ricoprono un ruolo importante per l’Iran anche per lo sviluppo di una rete di gasdotti in grado di arrivare nel Mediterraneo e in Europa, a cui nel 2013 è stato dato il nome di “Gasdotto dell’Amicizia” [6] e si pone in alternativa al gasdotto russo South Stream ed al Nabucco, promosso dall’Unione Europea. (che prevedeva la costruzione di un gasdotto che da Iraq, Azerbaigian e Turkmenistan raggiungeva l’Europa attraverso la Turchia. In un primo momento anche l’Iran venne considerato come fonte energetica, dato il controllo del più grande giacimento di gas del mondo, il North Dome/South Pars, ma in seguito venne escluso dal progetto.)
La corsa alla leadership regionale è ormai evidente e per Teheran non sarà facile giungere entro giugno ad un accordo favorevole sul nucleare ed uscire dall’isolamento internazionale; l’Arabia Saudita continua la propria “guerra dei prezzi”, ma per quanto ancora potrà permetterselo?

NOTE
[1] Reuters; Indici negativi su greggio, timori Grecia;
[2] Reuters; IRAN: Saudi Arabia Is Making A “Serious Mistake”; Michelle Moghtader;
[3] European Council on foreign relations; Post-Nuclear – The future for Iran in its neighbourhood;
[4] Il Post; I guai dell’Iran per la crisi del petrolio;
[5] Limes, Rivista italiana di geopolitica; Le mosse dell’Iran nella guerra di Siria, di Nima Baheli;
[6] Osservatorio Iraq; Iran, Iraq, Siria e il “Gasdotto dell’Amicizia”, di Giovanni Andriolo;

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GEOPOLITICA E TERRORISMO: UN ABBOZZO DI SINTESI PER LA POLITICA EUROPEA

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Il fatto: il cosiddetto “Stato Islamico” (“SI”)

Come si finanzia il sedicente “Califfato”? Si può rispondere: in buona parte grazie a traffici illeciti tra cui quello di petrolio. Per simili traffici servono i canali per esportare greggio dalle aree di conflitto ai mercati di sbocco, una rete costituita da contrabbandieri, ricettatori, acquirenti, con la complicità o l’attivo supporto delle forze di sicurezza e di intelligence dei paesi che circondano le aree di conflitto (1). L’intelligence occidentale – inclusa la nostra – ritiene che la fonte dei finanziamenti diretti allo “SI” si trovi in massima parte nel Qatar (con fondi diretti) e in Turchia (attraverso la quale passano i traffici di greggio). L’informazione è controintuitiva: Qatar e Turchia sono gli sponsor storici della Fratellanza Musulmana e delle sue filiazioni. Per quale motivo i due principali concorrenti dell’Arabia Saudita (sospettata di essere l’originario sponsor dello “SI”) per l’egemonia nel mondo sunnita sarebbero tra i principali sostenitori di un gruppo di ispirazione wahabita – e quindi culturalmente affine proprio all’ambito saudita? Il Califfato costituisce per la monarchia saudita una minaccia potenziale ma il motivo è a monte e sta nelle rivalità regionali che contrappongono potenze sciite e sunnite ed in quelle globali. Solo per prendere ad esempio il tema della competizione energetica (uno solo degli elementi di questa “guerra mondiale a pezzi”) si pensi che la Siria e la Turchia sono al centro di numerosi progetti di gasdotti che permetterebbero a fornitori tra i quali L’Azerbaijan e il Qatar stesso(2) di affacciarsi sul mercato europeo. I progetti Nabucco, Islamic Gas Pipeline, il TAP ed altri ancora incrociano i paesi del Grande Medio Oriente in un groviglio di rivalità. Arabia Saudita e Russia non gradiscono la concorrenza rispettivamente sul mercato del petrolio e su quello del gas e la prima sta cavalcando la caduta dei prezzi dei combustibili fossili originata dallo shale USA per danneggiare i propri concorrenti tra cui le stesse piccole e medie compagnie americane che hanno investito fortemente nella dispendiosa estrazione di shale e che necessitano di alti prezzi per mantenere redditività(3).

Oltre a combattere lo shale americano l’Arabia Saudita danneggia anche la stessa Russia e l’Iran – questa volta col consenso USA – mentre Putin, colpito dal crollo dei prezzi, spera di poter resistere tanto da poter battere anch’egli il gas statunitense e ambisce comunque a tenere lontano l’Iran e l’Occidente. La Turchia si ritroverebbe sul percorso delle tre pipelines già citate e proprio essa ha fatto da passaggio in entrata verso il califfato degli islamisti desiderosi di arruolarsi e da passaggio in uscita per il petrolio contrabbandato per il califfo. La potenziale rivalità con la Siria sul passaggio delle infrastrutture è un probabile fattore – di certo meno importante per Erdogan del sogno di acquisire la leadership di prestigio del mondo sunnita. Nel grande gioco mediorientale lo “SI” è dunque uno grimaldello che tutti gli attori usano per provare a colpirsi(4) e a destabilizzarsi. Quanto all’attività di supporto dei Turchi, essa ha assunto diverse forme (la principale quella dell’inazione): dobbiamo temere che almeno un paese dell’ambito NATO abbia cooperato – o cooperi – con una struttura terroristica gemmata da Al Qaeda? In caso affermativo, le altre agenzie di intelligence – come la nostra, da cui filtra l’informazione – sono all’oscuro dell’operato dei loro colleghi turchi? O gli alleati NATO non sono a conoscenza delle scelte turche, o la Turchia agisce in netto contrasto con i propri partner o ancora l’operato della Turchia è tollerato. Gli alleati NATO sono privi di strategia – come parrebbe essere Obama – o accettano sommessamente quanto la Turchia sta facendo ritenendolo nel complesso funzionale al contrasto degli interessi russi in Siria? Una risposta univoca non esiste ma di certo c’è che le repentine fortune militari dell’ISIS/ISIL/Stato Islamico non siano solo frutto di brillanti vittorie sul campo: ha goduto della complicità di molti poteri regionali, inclusi persino quelli sciiti (in Iraq e Siria) che lo hanno accettato per trarre legittimazione dalla lotta contro di esso. Non si tratta ridurre la Storia a complotto (senza la base sociale del malcontento sunnita lo “SI” non avrebbe potuto attecchire) ma di individuare un metodo di ragionamento in un contesto di non collaborazione tra USA, Russia e Cina che genera un “bellum omnium contra omnes” e che fa rimpiangere la competizione del periodo della Guerra Fredda basatasi – quantomeno – su un reciproco riconoscimento tra potenze, esattamente quanto manca in quest’epoca di disordine globale. Resta da capire quanto questo disordine sia subito o voluto.

 

L’antefatto: tattiche occidentali e alleati degli USA

Di come di tutte le ideologie presenti nel mondo arabo quella più sostenuta, finanziata e strumentalizzata dagli USA, dalla Gran Bretagna e dai loro alleati regionali (come il Pakistan e l’Arabia Saudita) sia proprio stata il fondamentalismo di matrice wahabita avevamo già discusso nello studio su “influenze occidentali e autonomia ideologica nel panorama politico arabo”(5). Quanto alla storia dettagliata degli appoggi materiali e logistici forniti agli islamisti dagli USA e dai loro alleati in Afghanistan – l’orto in cui fu coltivata la pianta di Al Qaeda – oltre che in Kosovo moltissimi sono i testi ed i documenti ai quali si può attingere(6). Non è quindi il caso di ritornare sul già noto ma di proporre un’analisi geopolitica scevra da complottismi ma anche e soprattutto da conformismi. Per vari ordini di motivi, gli USA difficilmente potranno prescindere dall’amicizia con Qatar, Kuwait e Arabia Saudita, anche dopo la fine della Guerra Fredda, anche dopo la rivoluzione dello shale oil, anche e a maggior ragione perché alleati di Israele e garanti della sua esistenza: Israele e l’Arabia Saudita convergono tatticamente nell’identificare l’Iran come avversario principale, non lo “SI” (che si guarda bene, come Al Qaeda, dall’attaccare lo stato ebraico e anzi è assai avverso al nazionalismo palestinese più genuino e progressista). Non fosse altro, basterebbero i petroldollari dei paesi del Golfo che affluiscono in grandi quantità in Occidente (nel 2013 l’Arabia Saudita ha gli USA come primo fornitore e come seconda destinazione del proprio export[7]) e che garantiscono non solo liquidità ma anche il peso geopolitico del dollaro come moneta internazionale del mercato dell’energia. I regimi colpiti dalle primavere arabe sono solo quelli che USA e alleati ritenevano decotti. Un ruolo troppo forte nella rivolta è stato giocato dall’emittente catariota Al Jazira e dalle ONG finanziate da enti governativi USA. Finché il Vecchio Continente sarà legato agli USA dal capestro della NATO, con il partner atlantico che vuole un’Europa non troppo debole e divisa da doverne sopportare totalmente il peso ma non troppo unita e senza un Euro efficace nel contrastarne il dominio, finché l’Europa in crisi continuerà a dover ricercare flussi di investimento dei paesi del Golfo, finché gli unici dilemmi etici sulla provenienza degli investimenti vengono posti quando questi hanno origine russa (solo la pecunia di Mosca “olet” perché così pretendono gli USA e alcuni paesi a prescindere russofobi come quelli baltici) le sarà impossibile porsi in modo autorevole nel confronto con i paesi arabi sponsor se non direttamente del terrorismo comunque e sempre dell’oscurantismo. La visione strategica dell’Europa è subordinata a quella americana: il pericolo è una Russia che non deve risorgere come potenza, una Cina che non deve raggiungere il peso degli USA o che deve al massimo accontentarsi di essere il secondo polo e collaborare alla pax americana, in definitiva un’Eurasia che non deve esistere come ambito geopolitico. La “faglia” islamica è ancora il grimaldello per destabilizzare la massa continentale eurasiatica visto che culturalmente e geograficamente fa da cerniera tra Asia, Europa e Africa. Se per Mackinder il cuore geopolitico del mondo era il centro dell’Asia, fortezza inattaccabile dal mare, il punto di rottura che può destabilizzare il fragile cristallo eurasiatico è quell’area grande-mediorientale che il proprio epicentro nel Levante. La strategia di Obama mira a concentrarsi sul Pacifico e ad impantanarsi il meno possibile nel Medio Oriente: ciò non vuol necessariamente dire che nella macrostrategia americana il Vicino Oriente sia solo da lasciarsi alle spalle come quasi tutti gli osservatori sembrano invece credere. Non crediamo che le primavere arabe siano il puro frutto di una cospirazione – significherebbe dimenticare il contesto sociale e non applicare il rasoio di Occam (per rimuovere dittatori le congiure di palazzo dove fattibili sono più controllabili) – ma siamo convinti che non siano state avversate da Washington anche se in parte hanno colto l’America alla sprovvista sulla loro rapidità. Questo vale per il terrorismo islamista: il golem si rivolta contro il proprio creatore. Il golem è fatto di argilla, argilla fornita da una certa teologia oscurantista e da un conteso sociale complesso ma impastata da chi ha visto l’URSS come primo nemico da battere e problema da risolvere.

 

Conclusioni

Torniamo, per concludere, all’Europa. Un’Europa senza leadership né politica. Un’Europa che non c’è e che quindi preferisce parlare di immigrazione (senza poi far nulla per affrontare il problema), di “scontro di civiltà” (come se oriente e occidente fossero due blocchi monolitici). Un’Europa che non parla mai di geopolitica perché significherebbe parlare di strategia, di relazioni internazionali. Un’Europa che non deve essere troppo unita – non gioverebbe né a Washington né a Mosca – né troppo divisa – non gioverebbe a Washington – né troppo autonoma e indipendente dalla fede atlantista in politica estera – in quanto gioverebbe troppo a Mosca. Fino ad ora la risposta europea alle crisi internazionali che hanno implicato un pericolo islamista è stata ora inesistente o insipiente (Siria), ora divisa (Iraq e Libia) e in ordine sparso, ora sdraiata su quella americana (Cossovo). La presa di coscienza della natura anche geopolitica e non solo militare, culturale e sociale del terrorismo per ora latita; senza di essa non ci si può illudere di affrontare il problema con un minimo di serietà e di visione.

 

NOTE
1) http://www.aldogiannuli.it/2014/08/collegamenti-finanziamenti-isis/
2) http://www.sirialibano.com/short-news/siria-quanto-conta-il-petrolio.html e http://www.sirialibano.com/short-news/siria-quanto-conta-il-gas.html
3) http://temi.repubblica.it/limes/il-prezzo-del-petrolio-il-dollaro-e-lo-scontro-tra-russia-e-usa/67455 e http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-11-04/petrolio-minimi-4-anni-mercato-ha-occhi-solo-gli-usa-220211.shtml
4) http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-11-28/la-guerra-greggio-063721.shtml?uuid=ABp52AJC
5) http://www.eurasia-rivista.org/influenze-occidentali-e-autonomia-ideologica-nel-panorama-politico-arabo-una-proposta-di-lettura-nel-contesto-geopolitico/19648/
6) Per la rara capacità di unire completezza, analiticità e fruibilità suggeriamo tra le opere recenti la Storia del terrorismo. Dall’antichità ad Al Qaeda di Blin e Chaliand , UTET, 2007. Sullo specifico tattico e operativo del teatro afghano un gioiellino italiano è il recentissimo Le spade di Allah di Gianluca Bonci – Liberodiscrivere, 2011.
7) http://www.infomercatiesteri.it/public/rapporti/r_99_arabiasaudita.pdf

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Luoghi santi e “Stato Islamico”

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SOMMARIO

Editoriale

Claudio Mutti, Luoghi santi e “Stato Islamico”

 

Dossario – I luoghi santi

Pausania, Topografia eleusina
Parama Karuna Devi, Varanasi, città della luce
Leonid Savin, I centri spirituali della Russia
Alessandra Colla, La riscoperta di un antico cammino
Ali Reza Jalali, Geopolitica dei luoghi santi sciiti
Aldo Braccio, Visita a Urfa
Carmela Crescenti, Lo scempio di Mecca

 

Dossario – Lo “Stato Islamico”

Spartaco Alfredo Puttini, Caos distruttivo nel Vicino Oriente
Jean-Michel Vernochet, Le radici ideologiche dello “Stato Islamico”
Gilles Munier, Lo “Stato Islamico” e i suoi misteri
Enrico Galoppini, Quali scarponi per la battaglia finale?
Lorenzo Salimbeni, La Grande Guerra nel Vicino Oriente

 

Documenti

Joachim Menant, Un luogo di culto degli Yazidi
Carlo Alfonso Nallino, La tomba di Eva
Ibrahim al-Qattan, La devastazione di Gerusalemme
Richard Ostling, La ricostruzione del Tempio di Gerusalemme

 

Attacco alla Russia

Renato Pallavidini, La “maledizione” ucraina nella storia russa
Ivelina Dimitrova, Un conflitto per il controllo dell’Eurasia
Giuseppe Cappelluti, “The Russians shall not have Kiev!”
Jean-Michel Vernochet, Ucraina: Guerra di blocchi

 

Recensioni

Florian Muhlfried, Being a State and States of Being in Highland Georgia (V. Simeoni)
Mahdi Darius Nazemroaya, La globalizzazione della NATO (A. Iacobellis)
Renato Pallavidini, Problemi di critica hegeliana in Italia (D. Ragnolini)

Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto per ciascuno di essi.

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LUOGHI SANTI E “STATO ISLAMICO”

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LUOGHI SANTI E “STATO ISLAMICO”
Ecco di seguito l’elenco degli articoli presenti in questo numero, con un breve riassunto di ciascuno di essi

Editoriale

Claudio Mutti, Luoghi santi e “Stato Islamico”

Dossario: I luoghi santi

TOPOGRAFIA ELEUSINA
di Pausania
La natura dei culti eroici e divini praticati lungo la Via Sacra per Eleusi si giustifica in particolar modo con la processione dei Grandi Misteri. Ai sepolcri ed agli heroa, legati alle vicende del territorio o alle pratiche misteriche, si frappongono santuari di vario genere e grandezza. Fornendoci informazioni preziose sulla topografia eleusina, Pausania ci accompagna fino ai templi di Trittolemo, di Artemide Propilea e di Poseidone sul piazzale antistante al peribolo.

VARANASI, CITTÀ DELLA LUCE
di Parama Karuna Devi
Varanasi, situata sulla riva sinistra del Gange, è la città sacra dell’India per eccellenza; essa è una delle mete di pellegrinaggio principali non solo per gli indù, ma anche per i buddhisti ed i giainisti. Nel corso dei secoli Varanasi ha subito diverse trasformazioni e devastazioni, ma rimane ancora oggi un centro nevralgico e un simbolo dell’induismo ortodosso, data la presenza di importanti e numerosi luoghi di culto. Qui vengono compiute le abluzioni sacre e vengono cremati nel fuoco purificatore i defunti per poi essere dispersi nel Gange. La parola più adatta a descrivere il senso profondo di Varanasi è il termine sanscrito “tirtha”, che, usato per indicare un luogo sacro di pellegrinaggio, letteralmente significa “guado”: evidente allusione al passaggio dalla dimensione materiale a quella spirituale.

I CENTRI SPIRITUALI DELLA RUSSIA
di Leonid Savin
L’argomento dei luoghi sacri e dei centri spirituali è alquanto complesso. A tale categoria si possono ricondurre chiese, templi, santuari e, in genere, edifici destinati alla pratica cultuale, ma anche monumenti storici, luoghi in cui operarono personalità dotate di grande carisma che influenzarono il corso della storia. Molti di questi luoghi sono intimamente inseriti nella cultura e nella nazionale, nonché nei processi geopolitici in atto, mentre altri restano proprietà di comunità locali e costituiscono l’oggetto di studi particolari. Data la specifica natura di “Eurasia”, questo articolo si limita ad una sintetica trattazione dell’argomento.

LA RISCOPERTA DI UN ANTICO CAMMINO
di Alessandra Colla
C’è un luogo, nell’Europa occidentale — anzi quasi alle estreme propaggini della penisola europea — che mantiene intatto il suo fascino nei secoli. Si trova a poca distanza da dove, fino alla fine del Medio Evo, le genti del continente eurasiatico credevano finisse il mondo: in Galizia, la verde terra iberica dalla costa frastagliata di fiordi che ne fa una più dolce Scandinavia, affacciata sull’oceano Atlantico. Quel luogo è Santiago de Compostela.

GEOPOLITICA DEI LUOGHI SANTI SCIITI
di Ali Reza Jalali
Le scuole di scienze religiose, i mausolei e le tombe dei santi sono il cuore della spiritualità sciita. La forza geopolitica dell’Islam sciita nel XXI secolo è dovuta principalmente all’influenza esercitata dalle “hawza”, le scuole teologiche. I luoghi sacri della Scia si trovano in paesi quali Iran, Iraq e Siria; non è perciò un caso che oggi l’influenza politica sciita si eserciti maggiormente in queste aree del Vicino Oriente.

VISITA A URFA
di Aldo Braccio
C’è nell’Anatolia sudorientale – in territorio turco, ma molto vicino alla Siria – un’area geografica in cui i segni dell’uomo risalgono ad epoche per noi antichissime, scanditi da costanti riferimenti alla dimensione del Sacro: Harran, Göbekli Tepe, Urfa. Quest’ultima località in particolare sembra meritare veramente l’appellativo di “città santa” o “città divina”, in particolare per gli importanti richiami alla figura del Profeta Abramo, l’Amico di Dio. Sono comunque tanti i riferimenti di carattere religioso presenti in questa regione, la cui visita rimane indimenticabile per molti motivi.

LO SCEMPIO DI MECCA
di Carmela Crescenti
La Ka’bah, fulcro di riferimento religioso e spaziale dell’Islam, ha una connotazione simbolica molto più profonda, che conduce direttamente al punto centrale della geografia sacra universale. Qui il retaggio adamitico e le componenti del culto monoteistico dell’epoca di Abramo si uniscono alla tradizione apportata da Muhammad, Inviato di Allâh e Sigillo dei Profeti. Questo legame con gli albori dell’umanità fa della Ka’bah il centro della sacralità del mondo e non soltanto un centro religioso. Ma da quando l’ideologia wahhabita, ferocemente avversa all’Islam tradizionale, ha preso il sopravvento politico e religioso, i luoghi sacri più cari ai musulmani, come Mecca e Medina, sono divenuti oggetto di trasformazioni radicali. Le colonne della moschea che circondava la Ka’bah sono state demolite e le macerie gettate nel Mar Rosso; per dare spazio a grattacieli, alberghi di lusso e megacentri commerciali sono stati demoliti interi quartieri e siti storici come la dimora di Khadigia e quella di Abu Bakr as-Siddiq, come la storica moschea di Abu Qubais e il forte ottomano di al-Ajyad. Presto la casa stessa in cui nacque il Profeta subirà la stessa sorte.

 

Dossario: Lo “Stato Islamico”

CAOS DISTRUTTIVO NEL VICINO ORIENTE
di Spartaco Alfredo Puttini
La recente proclamazione dello “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante” (DAESH secondo l’acronimo arabo, ISIL o ISIS secondo quelli inglesi) e l’avanzata delle sue truppe verso il Curdistan iracheno e verso la stessa Bagdad hanno fatto gridare ad una nuova minaccia globale i politici occidentali, a partire dal presidente statunitense Obama, e, al seguito, i media occidentali. Ma le vicende del Vicino Oriente, a partire dalla tragedia in corso in Siria, consigliano di evitare precipitose conclusioni. Alcune costanti della storia recente potrebbero essere tutt’altro che superate e potrebbero inserirsi nel “caos costruttivo” dei conflitti volti a ridisegnare gli equilibri nella regione secondo intenzioni che restano inconfessabili alle opinioni pubbliche occidentali. Tra queste costanti vi è l’alleanza tra l’imperialismo americano e l’islamismo reazionario gihadista sponsorizzato dagli emiri del Golfo.

LE RADICI IDEOLOGICHE DELLO “STATO ISLAMICO”
di Jean-Michel Vernochet
Il cosiddetto “Stato Islamico in Iraq e nel Levante”, col suo caricaturale “Califfato” proclamato a Mossul, è un fenomeno teologicamente estraneo all’Islam; esso affonda le proprie radici ideologiche in quell’eterodossia wahhabita che da tempo contamina l’Islam sunnita. Così come altre fazioni addestrate ed armate dalle democrazie occidentali, anche il sedicente “Stato Islamico” rientra nella forma più radicale rivestita da tale eterodossia.

LO “STATO ISLAMICO” E I SUOI MISTERI
di Gilles Munier
Nel Vicino Oriente sta nascendo un nuovo Stato, nel furore e nel sangue: lo “Stato Islamico”. Nessuno sa se durerà, come evolverà e dove si fermeranno le sue frontiere. Coi suoi bombardamenti teoricamente mirati, la coalizione militare istituita dagli Stati Uniti tenta, a quanto pare, di contenerlo entro un quadro predefinito, ritardando il momento in cui essa dovrà intervenire sul terreno. I gihadisti attendono solo questo momento. Secondo loro, una nuova guerra in Mesopotamia – Iraq, Siria – permetterà loro di radicarsi stabilmente nel Vicino Oriente e di promuovere nel mondo musulmano la loro particolare interpretazione del Corano e degli hadith.

QUALI SCARPONI PER LA BATTAGLIA FINALE?
di Enrico Galoppini
La presenza del cosiddetto “Califfato” a cavallo tra Siria e Iraq, lungi dal rappresentare un nostro “problema interno”o una seria “minaccia” militare, potrebbe rappresentare il detonatore di un conflitto su larga scala dagli effetti devastanti. Anche per gli stessi occidentali, impazienti – stando ad alcune autorevoli dichiarazioni – di gettarsi nella battaglia, ma alle prese con l’inadeguatezza delle loro Forze Armate di terra ed una mentalità scarsamente propensa ad impiegare la fanteria per gli evidenti rischi che ciò comporta. La ricerca di truppe locali “fedeli” all’Occidente da impiegare sul terreno potrebbe riservare sorprese per tutti.

LA GRANDE GUERRA NEL VICINO ORIENTE
di Lorenzo Salimbeni
Nella macroregione definita “Medio Oriente” in base alla prospettiva atlantista molte delle problematiche ancora irrisolte affondano le loro radici negli assetti ereditati dalla Prima Guerra Mondiale, come conseguenza della disintegrazione dell’Impero Ottomano. Gli interessi contrapposti di Francia e Gran Bretagna, il progetto coloniale sionista, il nascente nazionalismo arabo e la scoperta di giacimenti petroliferi: ecco gli elementi principali dai quali ha preso forma quella che oggi appare come la più drammatica area di instabilità nel bacino del Mediterraneo allargato.

Documenti
UN LUOGO DI CULTO DEGLI YAZIDI
di Joachim Menant
Il libro dell’assiriologo Joachim Menant (1820-1899) è stato ripubblicato quest’anno a Parigi dall’editore Érick Bonnier con un titolo diverso dall’originale: Les Yézidis. Ceux que l’on appelait les Adorateurs du Diable. La nuova edizione reca una prefazione di Gilles Munier, collaboratore di “Eurasia”, che da oltre quarant’anni frequenta l’Iraq e tra il 1995 e il 2003 si è recato più volte nel territorio degli Yazidi, in particolare a Sinjar ed a Lalesh. Lalesh, nel Curdistan iracheno, è la città santa degli Yazidi, poiché agl’inizi del XII secolo vi si ritirò lo sheykh Adi ibn Musâfar al-Umawi, da loro venerato. Dal libro di Joachim Menant viene qui tradotto il capitolo XV, Vallée de Sheikh-Adi.

LA TOMBA DI EVA
di Carlo Alfonso Nallino
Da: Carlo Alfonso Nallino, Raccolta di scritti editi e inediti, vol. I: L’Arabia Sa’udiana, Istituto per l’Oriente, Roma 1939, pp. 177-179.

LA DEVASTAZIONE DI GERUSALEMME
di Ibrahim al-Qattan
Nei giorni 15, 16 e 17 dicembre del 1981 si tenne a Roma un Colloquio Internazionale su Gerusalemme, promosso ed organizzato dall’Associazione d’Amicizia Italo-Araba. Tema del colloquio: “La comunità internazionale di fronte all’occupazione della città simbolo di pace e di giustizia”. Erano presenti circa cinquecento personalità politiche e culturali europee ed arabe, delegazioni di Stati del Nordafrica e del Vicino Oriente, esponenti dell’OLP, dell’Organizzazione della Conferenza Islamica, della Lega degli Stati Arabi, giornalisti e operatori radiotelevisivi di vari paesi, diplomatici ed ecclesiastici. Viene qui riportato il testo dell’intervento di Shaykh Ibrahim al-Qattan, presidente dei tribunali sciaraitici del Regno di Giordania.

LA RICOSTRUZIONE DEL TEMPIO DI GERUSALEMME
di Richard Ostling
Da: “Time”, 16 ottobre 1989. Trad. it. di M. Blondet in I fanatici dell’Apocalisse. Ultimo assalto a Gerusalemme, Il Cerchio, Rimini 2002, pp. 147-150.

 

Attacco alla Russia

LA “MALEDIZIONE” UCRAINA NELLA STORIA RUSSA
di Renato Pallavidini
L’attuale crisi ucraina va compresa a geopolitico e a livello storico. A livello geopolitico, chiare sono le responsabilità degli Stati Uniti, che stanno tentando una gigantesca manovra a tenaglia, contro Russia e Cina, per ostacolarne l’ascesa economica, politica e militare. In particolare, la conquista violenta dell’Ucraina, alla vigilia della formazione dell’Unione doganale euroasiatica, mira ad impedire la ricostruzione del potere imperiale di Mosca sulle ex Repubbliche sovietiche. A livello storico, lo scontro in atto sul Donbass assume un significato più profondo e più drammatico. Il popolo russo e quello ucraino hanno origine in un unico spazio di civiltà: il Rus’, l’antico Granducato di Kiev, che dopo l’invasione tatara del 1240 si è spaccato nei tronconi “grande russo”, bielorusso e ucraino. Se Ucraini e Bielorussi sono stati incorporati dalla cattolica Polonia, il sentimento unitario del Rus’ è sempre stato vivo presso i “Grandi Russi”, per i quali la rottura con Kiev è inammissibile. Ma esiste anche un forte sentimento indipendentista nelle regioni ucraine dell’estremo Ovest, soggette al Papato di Roma fin dal 1596. La situazione si complica quando nasce l’Ucraina sovietica, che incorpora l’Ovest agrario e nazionalista e l’Est industrializzato e russofono.

UN CONFLITTO PER IL CONTROLLO DELL’EURASIA
di Ivelina Dimitrova

La dissoluzione dell’Unione Sovietica ha posto fine alla guerra fredda, ma non ha fatto cessare gli scontri geopolitici nello scenario eurasiatico; un’altra “guerra” è scaturita per l’egemonia dello spazio territoriale corrispondente all’ex blocco sovietico. Le vicende ucraine, oltre a rientrare nella lotta per il controllo dell’area ex sovietica, mostrano come l’eterna lotta tra le potenze di “mare” e le potenze “di terra” perduri anche dopo il tramonto dell’ideologia comunista e la scomparsa delle differenze ideologiche tra Oriente ed Occidente. In questo “grande scacchiere”, l’Ucraina, a causa della sua posizione geografica e delle sue caratteristiche culturali, etniche e storiche, ha assunto un ruolo centrale. Mackinder, il padre della geopolitica moderna, all’inizio del ventesimo secolo descriveva così questa centralità: “Chi controlla l’Europa orientale comanda l’Heartland, chi controlla l’Heartland comanda l’Isola Mondo, chi controlla l’Isola Mondo controlla il mondo intero”.

“THE RUSSIANS SHALL NOT HAVE KIEV!”
di Giuseppe Cappelluti
È stato spesso affermato che le tensioni in corso tra Russia e Occidente costituiscono il principio di una nuova Guerra Fredda. Le affinità con quell’epoca, dopo tutto, non mancano, né manca il rischio che queste tensioni assumano un carattere permanente. Tuttavia il paragone più diretto non è con la Guerra Fredda, bensì con il Grande Gioco: le tensioni in corso in Ucraina, nelle quali nazionalismi e differenze culturali svolgono un ruolo tutt’altro che marginale, hanno molti più punti in comune con la crisi balcanica degli anni Settanta dell’Ottocento che non con qualsiasi episodio degli anni del bipolarismo globale.

UCRAINA: GUERRA DI BLOCCHI
di Jean-Michel Vernochet
L’ingresso dell’Ucraina nell’Unione Europea e la sua prevedibile integrazione nella NATO sono vie che devono condurre al progettato indebolimento della Federazione Russa. Questa politica di indebolimento comincia con la demonizzazione e il discredito che colpiscono la sua classe dirigente. Pur essendo ancora lungi dall’aver conseguito i loro obiettivi, gli occidentalisti contano di realizzare ben presto la marginalizzazione economica e diplomatica della Russia, prima di ridurla – quando le opposizioni liberali e filooccidentali avranno sconfitto la dirigenza attuale – alla condizione di semplice fornitrice di energie fossili del mercato mondializzato.

Recensioni
Florian Mühlfried, Being a State and States of Being in Highland Georgia
(a cura di V. Simeoni)

Mahdi Darius Nazemroaya, La globalizzazione della NATO
(a cura di A. Iacobellis)

Renato Pallavidini, Problemi di critica hegeliana in Italia
(a cura di D. Ragnolini)

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L’ITALIA E LA QUESTIONE ENERGETICA. PARMA, LIVORNO E LA RUSSIA PIÙ VICINE DI QUANTO SEMBRI

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Come si collegano le elezioni comunali di due capoluoghi di provincia italiani con l’attacco occidentale alla Russia attualmente in corso? Come scelte, e soprattutto non scelte, in ambito di geopolitica energetica possano avere ripercussioni nel quotidiano dei cittadini e provocare piccoli terremoti politici. Suggerimenti per una politica italiana dell’energia.

 

Capitolo I: Parma e Livorno avvicinate dalle stelle

La città di Parma è assurta nolente negli ultimi anni al ruolo di protagonista della scena politica italiana a causa delle evidenti analogia tra la sua vicenda particolare e l’andamento dei destini della Nazione tutta.
Negli ultimi anni si sono infatti sovrapposte tre grandi problematiche che hanno avuto un forte impatto sull’opinione pubblica cittadina: la corruzione dilagante, la crisi del debito e la questione inceneritore. Su questi tre assi è montata la protesta, anche di piazza, che ha travolto la vecchia giunta di centrodestra a guida Vignali e favorito l’insediamento sullo scranno di primo cittadino di Federico Pizzarotti, primo sindaco di una città capoluogo dell’ancora embrionale Movimento 5 Stelle.
Lungi dallo scopo di questo articolo trarre un bilancio dei primi due anni della giunta Pizzarotti, è importante sottolineare come l’inaspettato successo elettorale dell’attuale sindaco sia stato in parte dovuto all’accanita battaglia contro la realizzazione del termovalorizzatore cogenerativo da parte di Iren S.p.A. (la multiutility che si occupa della raccolta e smaltimento rifiuti a Parma).
La crescente attenzione per le problematiche ambientali che ha interessato gradualmente quasi tutto il pianeta è ben radicata anche a Parma, città che fonda le sue recenti fortune soprattutto sull’industria agro-alimentare e pertanto preoccupata per la salute dei suoi cittadini ma anche per quella dei propri prodotti. La nascita pressoché spontanea del movimento Gestione Corretta Rifiuti(1) (un comitato di cittadini contrari alla costruzione dell’inceneritore, come lo hanno sempre chiamato, e promotore di iniziative volte a favorire la diffusione di una nuova coscienza e di nuovi punti di vista per quanto concerne il problema rifiuti) si è sposata con l’ascesa nazionale di Beppe Grillo e del suo Movimento, sensibile dalle origini alle questioni ambientali.
La protesta popolare contro il termovalorizzatore si è presto unita a un altro movimento di piazza che ha assediato pacificamente per diversi giorni nel corso dell’estate 2011 i “portici del grano”, le antiche stalle che costituiscono l’ingresso del municipio cittadino(2).
A spingere la cittadinanza in piazza era la corruzione della giunta di centrodestra guidata dal sindaco Pietro Vignali, travolta dagli scandali dell’inchiesta Public Money e dalla assoluta crisi debitoria del Comune e delle sue controllate. L’inchiesta, per la quale i processi sono ancora in corso, ha visto indagate diciassette personalità di grande spessore a Parma, tra politici, dirigenti, imprenditori e giornalisti, tra i quali spiccano il consigliere regionale Pdl e vicepresidente Iren Luigi Giuseppe Villani, l’ex amministratore della società partecipata Stt Andrea Costa e l’imprenditore edile ed editore del quotidiano locale Polis Angelo Buzzi, che era anche presidente di Iren Emilia(3).
Un sistema così sfrontatamente oligarchico e autoreferenziale si è ritrovato ben presto completamente scollato dalla realtà e dalla cittadinanza, e ha palesato tutti i suoi limiti quando si è trattato di fare i conti in tasca al Comune. I progetti di grandeur cementizia hanno infatti presentato il conto quando il commissario Ciclosi ha riassunto in una dettagliata relazione lo stato delle finanze cittadine: circa 800 milioni di euro di debiti, dei quali 266 maturati dal solo comune e circa 580 divisi tra le trentadue società partecipate(4).
È facile collegare il collasso del vecchio sistema con l’exploit pizzarottiano del giugno 2012, e altrettanto facile è notare le similitudini tra la parabola del sindaco e quella dell’intero Movimento 5 Stelle, che della simile situazione nazionale ha raccolto i frutti alle elezioni politiche del 2013, giungendo a un passo dalla vittoria.
Il primo punto su cui si è trovato a dover deliberare il nuovo sindaco è stato il termovalorizzatore cogenerativo, cavallo di battaglia della campagna elettorale e cavallo di troia per l’accesso al municipio, ma mantenere le promesse si è rivelato impossibile. Ogni sistema ha meccanismi di autodifesa, e quello regnante a Parma non si è rivelato esser da meno, e così le luci si sono accese nell’impianto di Ugozzolo nonostante le invettive ambientaliste di Pizzarotti.
Qualcosa di simile, anche se forse meno esasperato nei toni, nei modi e nelle cause, è accaduto a Livorno, dove a vincere le Comunali 2014 è stato Filippo Nogarin, esponente anch’egli del Movimento 5 Stelle. Il neosindaco ha potuto impostare la campagna elettorale di nuovo su tre temi principali: la stanchezza della cittadinanza nei confronti della “rete clientelare” del PD, al potere nella città labronica ininterrottamente da settant’anni (se non si considerano cesure i vari cambi di denominazione che hanno portato da Togliatti a Renzi); le promesse disattese del sindaco uscente Alessandro Cosimi, che hanno indebolito la posizione del candidato di partito Marco Ruggeri; il malcontento civico nei confronti del “bombolone”, il rigassificatore OLT costruito al largo di Livorno da Iren s.p.a.(5,6)
Di nuovo Iren appare un attore involontario sulla scena politica locale, forse è giunto il momento di approfondire il discorso e seguire le vie della seta tracciate dal gas.

 

Capitolo II: Dies Iren

Citando direttamente dal loro sito, Iren S.p.A. è una multiutility quotata alla Borsa Italiana che opera nei settori dell’energia elettrica (produzione, distribuzione e vendita), dell’energia termica per teleriscaldamento (produzione e vendita), del gas (distribuzione e vendita), della gestione dei servizi idrici integrati, dei servizi ambientali (raccolta e smaltimento dei rifiuti) e dei servizi per le Pubbliche Amministrazioni.
La genesi di questa meravigliosa creatura è facilmente riassumibile nel progressivo accorpamento di diverse società pubbliche dedite alle medesime funzioni sull’onda delle grandi privatizzazioni degli ultimi vent’anni. La data di nascita ufficiale è il 1° luglio 2012 in seguito alla fusione di Iride ed Enia, che hanno portato in dote alla neonata società i bacini d’utenza di Torino e Genova (Iride) e Parma, Piacenza e Reggio Emilio (Enia)(7). I suddetti comuni, data l’origine pubblica di Iren, risultano essere attualmente gli azionisti di maggioranza della compagnia (e in base allo statuto societario e a vari patti parasociali dovranno rimanere tali)(8,9). Pertanto, oltre a godere di un potere decisionale più o meno ampio nella formazione del CdA (e se ne sono viste le conseguenze a Parma), sono direttamente coinvolti nell’andamento finanziario di Iren, incassandone i dividendi maggiori o dovendone sostenere le perdite.
La privatizzazione e successiva liberalizzazione dei servizi pubblici è stata de facto sancita dall’Unione Europa con la siglatura del Patto di Stabilità, che ha imposto all’Italia cambiamenti profondi nella sua organizzazione interna. Fino a quel momento le municipalizzate hanno funzionato da ammortizzatore sociale (fornendo posti di lavoro clientelari), e spesso da cassa per le varie amministrazioni locali, sia in termini leciti che illeciti. Se ne può quindi dedurre che difficilmente potessero essere aziende competitive sul mercato data la zavorra di partenza.
A recepire i diktat di Bruxelles in materia è stato soprattutto il primo governo Prodi, che alla già esistente legge Galli per l’acqua del 1994 ha aggiunto il decreto Ronchi per i rifiuti e l’ambiente nel 1997, il decreto Bersani per l’elettricità nel 1999 e quello Letta per il mercato del gas l’anno successivo. Al di là delle disquisizioni ideologiche sul tema tra liberisti e statalisti di destra e sinistra, il risultato del recente referendum sull’acqua sembra evidenziare come gli Italiani siano favorevoli all’intervento diretto dello Stato quando si parla di beni comuni. Preferenza che sembra sostenuta anche dall’evidenza dei dati, che mostrano come i vari mali che venivano additati quali caratteristiche endemiche del settore pubblico non siano spariti con l’ingresso di capitali privati. .
Per quel che concerne i costi, è inoltre interessante citare un lavoro pubblicato dall’Associazione artigiani e piccoli imprenditori (Cgia) di Mestre, che boccia in toto il risultato economico della svolta almeno per le tasche degli utenti finali. Rimanendo nei confini tracciati da questo articolo, le tariffe per la raccolta e smaltimento rifiuti sono aumentate del 54,5% negli ultimi dieci anni e la bolletta del gas del 56,7% sempre nello stesso periodo(10).
Anche sulla questione trasparenza i progressi sono stati minimi: le amministrazioni locali infatti, lungi dal voler rinunciare al proprio bancomat, hanno nella maggior parte dei casi deciso di controllare direttamente le multiutility, costituendone gli azionisti di maggioranza e hanno preferito la strada della quotazione in borsa rispetto all’ingresso di un socio di peso. Se la borsa da un lato chiede trasparenza e dividendi infatti, dall’altro non pretende di prendere le decisioni in consiglio di amministrazione, lasciando spazio di manovra agli interessi di partito(11).
A questo va aggiunto che anche l’investitore privato vuole il suo dividendo, creando situazioni paradossali, ne è esempio la stessa Iren. Stando allo statuto societario, nessun investitore privato può possedere più del 5% del capitale della società, ma questo non impedisce alcune incongruenze logiche. Tra gli azionisti figura infatti Amber Capital, fondo con sede operativa a New York e sede legale alle Isole Cayman. In pratica, una parte, per quanto relativamente piccola, di quanto i cittadini di Parma, Piacenza, Reggio Emilia, Genova e Torino pagano per servizi elettrici, idrici e di smaltimento rifiuti finisce in un paradiso fiscale estero(12).
A tutti questi aspetti negativi del sistema delle liberalizzazioni, o perlomeno del modo in cui sono avvenute in Italia, va aggiunto la ormai talmente cronica da poter essere definita “classica” incapacità del governo italiano di reagire logicamente alle richieste europee. Al momento della firma del Patto di Stabilità è piuttosto probabile che se ne fossero letti i termini, difficilmente un privato cittadino firmerebbe un contratto senza sapere cosa comporta. Invece, al momento della privatizzazione dei servizi pubblici il Governo ha concesso una moratoria fiscale di tre anni alle neonate aziende (Iren compresa) per favorirne l’ingresso sul mercato, manovra poi bocciata dall’Unione Europea in quanto aiuto di Stato a tutti gli effetti, col conseguente diktat da Bruxelles al Governo per riscuotere il credito (e si parla di centinaia di milioni di euro)(13,14).
Ma torniamo a Iren, al suo stato di salute finanziaria e alle sue scelte strategiche, argomenti strettamente correlati.
Analizzando la situazione finanziaria della compagnia spicca ovviamente la voce debiti, che ammontano a poco più di 2,2 miliardi di euro, a fronte di un fatturato di 3,4 miliardi di euro (in netto calo) e di un utile netto di circa 92 milioni di euro (anch’esso in calo). Un indice spesso usato in economia per avere un grossolano valore dello stato di salute finanziario di un’azienda è il rapporto debt/equity (ovvero il rapporto tra i passivi finanziari netti dell’impresa e il suo patrimonio). Quello di Iren nel 2013 è risultato essere 1,27, in calo rispetto all’1,31 del 2012(15). Solitamente si considera ottimale un valore appena minore di 1, in quanto valori troppo bassi o addirittura negativi indicano un’azienda che non sta facendo investimenti, quindi dai margini di crescita prossimi allo zero, mentre valori maggiori di 1 fotografano un’azienda finanziariamente traballante e probabilmente soggetta a pesanti influenze esterne, in quanto bisognosa di capitali alteri al gruppo. La causa di questo debito, secondo Iren stessa, va ricercata perlopiù negli investimenti effettuati, e qui ci ricolleghiamo con la prima del nostro percorso.
Quali sono stati questi investimenti? Due sono di grande rilevanza, sia economica che politica: il termovalorizzatore cogenerativo di Parma, costato secondo la Commissione Europea circa 315 milioni di euro (a fronte dei 195 sempre dichiarati da Iren e dall’allora sindaco di Parma Pietro Vignali)(16) e il rigassificatore OLT di Livorno, costato all’incirca 850 milioni.
Cos’hanno in comune queste due opere? In primo luogo il forte impatto economico sulla salute di Iren stessa; in secundis il rifiuto opposto dalle comunità locali alla loro realizzazione, dovuto alla logica Nimby (“Not in my backyard”, non nel mio giardino) e alla maggior attenzione dell’opinione pubblica alle questioni ambientali; infine, l’essere l’espressione della miopia di fondo della politica energetica nazionale.
L’esplosione elettorale del Movimento 5 Stelle nelle due città simbolo delle scelte energetiche di Iren ovviamente non può essere derubricata a caso fortuito. La ventata di aria fresca portata da Grillo e dai suoi neofiti della politica è stata accolta dai cittadini lì dove la protesta nazionale si è potuta sovrapporre a una ben più radicata protesta locale, mossa soprattutto da motivi ambientali.
Quello che ora manca alle nuove amministrazioni comunali è una visione più ampia del problema, che permetterebbe loro di uscire dal qualunquismo e dall’impossibilità di agire, vincolati come sono dai contratti firmati dalle precedenti giunte. Notevoli istanze geopolitiche, infatti, si coniugherebbero alla perfezione con le questioni ambientali e salutiste e darebbero più ampio respiro anche al Movimento nazionale.

 

Capitolo III: L’Italia e l’energia

A dettar legge in ambito energetico fino a qualche mese fa è stato il pacchetto europeo Clima-Energia 2020, il cosiddetto 20-20-20 (ovvero riduzione delle emissioni di gas serra del 20% rispetto al 1990; 20% del fabbisogno di energia ricavato da fonti rinnovabili; aumento del 20% dell’efficienza energetica)(17). Giusto nell’ottobre 2014 infatti è stato raggiunto un accordo tra i ventotto paesi membri per cercare di raggiungere obiettivi ancora più ambiziosi, mantenendo sostanzialmente la stessa linea di condotta(18).
L’Italia si era posta nell’ottica di una transizione verso le rinnovabili già nel lontano 1992, grazie alla delibera CIP6 del Comitato interministeriale dei prezzi nella quale si stabilivano prezzi incentivati per l’energia elettrica prodotta con impianti alimentati da fonti rinnovabili e “assimilate”. Nella parola “assimilate” sta il trucco, visto che permette alle aziende esercenti gli inceneritori di rifiuti di rivendere l’energia prodotta a prezzo maggiorato, assimilando per l’appunto i rifiuti all’energia eolica, geotermica, solare, ecc(19).
Non è bastato il parere contrario della Commissione europea, espresso il 20 novembre 2003, a risolvere la questione creata da questo colpo di genio tutto italiano, e credo che così si possa spiegare la nascita del termovalorizzatore cogenerativo di Parma.
Il discorso si fa più interessante se passiamo ad analizzare invece la genesi del terzo rigassificatore nazionale, peraltro in odore di venir dichiarato opera di rilevanza strategica (passaggio che permetterebbe ad Iren di far gravare i costi di costruzione sulle bollette dei consumatori)(20).
Al momento il gas naturale rappresenta la seconda fonte energetica italiana, avendo coperto il 33,6% dei consumi nel 2013 (primo rimane il petrolio, 34,5%, ndr) e, secondo la Strategia Energetica Nazionale pubblicata dal Ministero per lo Sviluppo Economico nel 2013 è destinato perlomeno a mantenere questa rilevanza, nell’ottica di un sistema misto di medio termine basato sul binomio gas-rinnovabili. E’ pertanto chiaro che il gas rappresenta un tema cruciale nelle scelte geostrategiche italiane.
La produzione nazionale di questa fonte d’energia è scarsa. Secondo i dati del Ministero dello sviluppo economico, l’estrazione di gas sul territorio nazionale si è fermata nel 2013 a 7,735 G(m3), peraltro in calo del 10,1% rispetto all’anno precedente, a fronte di una domanda complessiva di circa 70 G(m3). La situazione non diventa certo più rosea se guardiamo le riserve: la Direzione Generale per le risorse minerarie ed energetiche del Ministero dello sviluppo economico valuta quelle certe in 56,2 G(m3) e quelle probabili in 58,5 G(m3). Al ritmo di estrazione medio degli ultimi cinque anni, le sole riserve certe sarebbero sufficienti per poco meno di sette anni, e in ogni caso incapaci di sostenere adeguatamente le necessità dell’Italia.
Nel 2013 anche le importazioni di gas dall’estero hanno registrato un’ulteriore significativa riduzione, in accordo con la riduzione della domanda nazionale per il terzo anno consecutivo, una contrazione per la precisione dell’8,5%, per un totale di gas importato pari a 61,966 G(m3), l’88,4% del totale consumato(21). E’ chiaro che la questione gas rappresenti un nodo nevralgico che la politica italiana sarà chiamata a sciogliere nei prossimi anni, se non vorrà risentire dei contraccolpi che crisi di varia natura possono portare, e stanno già portando, alle nostre fonti di approvvigionamento.
Quando si parla di gas naturale in termini geopolitici da un punto di vista europeo infatti, contano soprattutto due fattori: il prezzo e la sicurezza delle forniture.
Fino al completamento del rigassificatore OLT potevamo contare su sei punti di accesso fisici alla rete nazionale: quattro gasdotti e due terminali di rigassificazione. Il gasdotto di Passo Gries, costruito nel 1974 che porta gas dal mare del nord, e quello di Tarvisio, recentemente ristrutturato da Snam, che porta gas dalla Russia attraverso il TAG (TransAustriaGas Pipeline) sono i due gasdotti alpini; gli altri sono in Sicilia, a Mazara del Vallo e a Gela, e portano rispettivamente gas dall’Algeria (Transmed) e dalla Libia (Greenstream). I due terminali di rigassificazione sono rispettivamente a Panigaglia e a Rovigo e nell’anno termico 2013-2014 hanno contribuito alle importazioni nazionali fornendo insieme 37,4 M(m3) standard al giorno, circa il 12% del totale.
Ad essi si è aggiunto per l’appunto il rigassificatore OLT, con una capacità conferibile di 15 M(m3) standard al giorno, circa il 4.3% della capacità conferibile totale e il 4,7 di quella effettivamente conferita. Nell’insieme, i tre rigassificatori costituiscono circa il 16% della capacità conferibile totale, direi un quantitativo tutto sommato marginale(22).
Da chi importiamo il gas che arriva tramite questi punti d’accesso?
1) La Libia è l’unico paese produttore con cui abbiamo un collegamento diretto, il gasdotto Greenstream realizzato nel biennio 2003-04, nel quale Eni ha investito 3,7 miliardi di euro. Grazie ad esso, la quota di importazioni di gas libico è costantemente cresciuta nel periodo 2004-2010, arrivando a coprire il 13% delle importazioni. Nel 2011, la guerra civile che ha portato alla destituzione e poi all’uccisione del colonnello Gheddafi, sull’onda della primavera araba, ha segnato uno spartiacque fondamentale per i nostri interessi al di là del Mediterraneo: avallando la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite abbiamo infatti deciso di non perseguirli. L’intervento militare Nato, compiuto col necessario supporto logistico italiano, ha segnato le sorti del conflitto facendolo velocemente pendere dalla parte del Consiglio Nazionale Libico. Il risultato è stato consegnare il paese all’anarchia e ai conflitti tribali e religiosi, e questo, oltre ad aver favorito l’arrivo di decine di migliaia di profughi sulle coste italiane, ha inesorabilmente colpito le esportazioni di gas naturale, crollate al 3,3% del totale nel 2011 e che tuttora stentano a riprendersi. Fare affari con un paese in guerra civile in ogni caso non sembra una prospettiva rassicurante, dal momento che i ribelli utilizzano continuamente l’interruzione dei flussi di gas come arma(23,24).
2) L’Algeria, collegata al nostro paese da Transmed, è stato il nostro principale partner dall’ormai lontano 1995, ma coinvolta anch’essa nel quadro di generale agitazione socio-politica dei Paesi del Nord Africa e complice la revisione dei volumi pattuiti nei contratti di fornitura in essere con alcuni importatori italiani (Eni, Edison, Enel), si è vista scivolare in seconda posizione, superata dalla Russia. Se nel 2012 abbiamo importato dall’Algeria 21,953 G(m3), il 32,4% del totale, nel 2013 sono stati circa 9 G(m3) in meno, un calo del 42% in termini relativi, portandola al 21% del totale.
3) La Russia, dalla quale il gas arriva attraverso il Tap, ha visto invece aumentare le sue esportazioni italiane nel 2013 di 5,400 G(m3), arrivando a circa 24 G(m3) annui, una quota del 38% del totale. Sarà interessante notare i dati del 2014, in concomitanza con l’applicazione delle sanzioni imposte dall’Unione Europea alla Federazione, che hanno colpito almeno in linea teorica i finanziamenti ai giganti dell’energia russi, come Rosneft e Gazprom, e hanno avuto come conseguenza diretta il blocco del progetto South Stream, con perdite ingenti per le industrie italiane coinvolte nel progetto (per quanto Gazprom si sia recentemente impegnata a risarcire le quote degli altri investitori coinvolti)(25).
4) Dal Mare del Nord arriva il gas che transita da Passo Gries, e possiamo stimarne la quantità nel 15% circa del totale, dato in costante flessione negli ultimi quindici anni. Olanda, Norvegia e Germania insieme ci hanno venduto circa l’11,5% del gas totale nel 2012, dato che sembra in lieve flessione nel 2013.
5) I due terminali di rigassificazione, oggi diventati tre, hanno come principale fornitore il Qatar, che nel 2013 ha contribuito per poco più dell’8% del totale, dato in flessione del 14% dal 2012 soprattutto per rinegoziazione dei contratti in essere(26).
Da questa sterile enumerazione di dati, cosa dobbiamo dedurre? Innanzitutto che, per quanto il gas rimarrà fondamentale per il fabbisogno energetico italiano nei prossimi decenni, il suo consumo in termini assoluti, ad oggi in calo in parte per motivi strutturali (es inverno mite) in parte per motivi congiunturali (la crisi economica), non aumenterà in misura significativa. Serve quindi ampliare la capacità di importazione? In realtà da questo punto di vista il rigassificatore di Livorno rappresenta un (costoso) esempio di eccessiva ridondanza del sistema, che già prima della sua costruzione era in grado di gestire confortevolmente i picchi di richiesta.
In secondo luogo, che il quadro generale dei Paesi fornitori non è al momento rassicurante, a causa dell’instabilità socio-politica del Nord Africa e dei rapporti tesi con la Federazione Russa a causa della questione ucraina.
Pertanto l’esistenza del rigassificatore di Livorno non è giustificabile se non ha impatto sul punto cruciale della questione gas per l’Italia: la certezza dell’approvvigionamento. Certezza che può venire forse dall’ampliamento del numero delle fonti, ovvero dal coinvolgimento di nuovi Paesi produttori finora non presi in considerazione nel contesto italiano.

 

Capitolo IV: Il mercato internazionale del gas

Diventa a questo punto necessario compiere un ultimo, fondamentale ampliamento di campo per comprendere il senso di questo astratto cammino dal locale al globale, ed è quindi ora di analizzare lo status del mercato internazionale del gas, per poter capire cosa abbia spinto Iren a costruire il terzo impianto di rigassificazione nazionale.
La domanda di gas naturale a livello mondiale è prevista in forte aumento, dai 3.300 miliardi di metri cubi del 2010 agli oltre 5.000 previsti nel 2035, trainata dal consumo asiatico, in netta crescita sia per quel che riguarda la generazione elettrica che per gli usi industriali e civili. Secondo le previsioni del World Energy Outlook l’offerta crescerà parimenti, con una sempre maggiore diversificazione geografica dei Paesi produttori ed una maggior importanza del mercato GNL. E qui entra in gioco Livorno, secondo i piani energetici del Governo Italiano e di Iren. Il ruolo dominante nella crescita dell’offerta sarà quello del “gas non convenzionale” (o, più tecnicamente, gas da scisti delle argille bituminose), che tra vent’anni è previsto rappresentare tra il 25 e il 27% della produzione mondiale (e oltre il 50% della crescita assoluta di volumi da oggi al 2035).
Se ci limitiamo ad analizzare solo la situazione europea, piuttosto peculiare nel suo insieme rispetto al contesto globale, vediamo che il trend generale non è disatteso. Se è vero che la bassa crescita economica prevista unita alle politiche di efficienza energetica e di sostituzione delle fonti tradizionali con quelle rinnovabili comporterà sì una crescita minore della domanda di gas, il concomitante calo della produzione interna (previsto nonostante le ottimistiche ipotesi riguardo lo sviluppo dello shale gas) determinerà comunque la necessità di un aumento delle importazioni di circa 190 miliardi di metri cubi nei prossimi vent’anni(27).
E’ chiaro pertanto che è imperativo avere una strategia energetica a lungo termine e, agendo in ambito geopolitico, assicurarsi l’approvvigionamento consono alle nostre necessità, specie considerando il fatto che sempre più Paesi entreranno nel mercato del gas. La Cina è già, e diventerà sempre di più, un player di rilevanza mondiale, e tutto fa pensare che anche l’India vedrà un incremento esponenziale dei consumi. Avere rapporti consolidati e funzionali con i Paesi produttori più adatti all’Italia è pertanto fondamentale, e vanno coltivati in modo continuativo e strategico, fatto, questo, solitamente estraneo alla realtà del bel Paese e al modo di pensare delle sue élites.
Come già affermato, il fattore che sta rivoluzionando lo scenario globale è appunto quello del gas (e del petrolio) da fonti non convenzionali.
Questo è sostanzialmente di tre tipi, a seconda della fonte:
1) Coal Bed Methane (CBM), gas intrappolato in giacimenti da carbone;
2) Tight Gas, gas naturale in depositi clastici a bassa permeabilità (sostanzialmente giacimenti a bassa pressione e quindi dalla difficile resa estrattiva a prezzo di mercato, perlomeno nel passato);
3) Shale Gas, gas naturale in argille/argilliti.
Quello che ha visto un vero e proprio boom nell’ultimo decennio è il terzo, grazie ad alcune piccole rivoluzioni tecnologiche che hanno permesso a questi giacimenti di diventare economicamente produttivi. Lungi da me tracciare ora una dettagliata descrizione tecnica dei meccanismi di formazione dei depositi di gas da scisti o dei metodi di estrazioni, per questi rimando a un qualunque manuale tecnico. Semplificando estremamente comunque, è stata l’introduzione di due metodiche a permettere il proliferare di questi pozzi: il trivellamento orizzontale e la fratturazione idraulica. In questo modo, ampliando le fratture già naturalmente presenti nelle argille che compongono il giacimento o creandole ex novo si aumenta la superficie disponibile a cui il gas è adsorbito e si riesce ad avere un’estrazione concorrenziale coi pozzi tradizionali(28).
La tecnologia è stata ovviamente sviluppata negli Usa, che dopo un primo miniboom negli anni ’80 grazie ad alcuni sgravi fiscali voluti da Reagan (Alternative Fuel Production tax credit, all’interno del Crude Oil Windfall Profit Tax Act) hanno visto una estensiva proliferazione di pozzi nell’ultimo decennio. Dal 2000 al 2008 infatti la produzione di gas naturale negli Usa è calata all’incirca dell’1,4% ogni anno, provocando un rialzo dei prezzi. Questi due fattori, supportati dalla nuove tecnologie citate in precedenza, hanno costituito l’humus su cui ha potuto svilupparsi l’industria del gas non convenzionale, che è passato rapidamente dal rappresentare il 15% della produzione domestica al 51%.
Questo ha permesso agli Stati Uniti di diventare di fatto autosufficienti, consentendo addirittura alle diverse grandi compagnie del settore, che negli primi anni duemila stavano progettando diversi impianti di rigassificazione per importare GNL, di iniziare il pressing lobbystico per realizzare invece degli impianti di liquefazione, in previsione di un imminente futuro che vedrà gli Usa come paese produttore ed esportatore. Sarebbe una svolta epocale, una rivoluzione globale: il più potente soggetto statuale del pianeta che in pochi anni passa dal dover impostare un piano energetico difensivo al poterne pensare uno giocato assolutamente all’attacco(29).
Questo fatto ovviamente ha avuto una pesante ripercussione anche sugli altri mercati regionali del gas, perché, si sa, in economia le previsioni hanno la loro importanza. Se il prezzo del gas nel mercato domestico americano è crollato (grazie sia all’aumento dell’offerta sia alla crisi economica del 2009) attestandosi all’incirca sui 4 dollari per mmBtu (British Thermal Unit), quasi un terzo del prezzo sui mercati spot europei, anche nel Vecchio Continente è stato possibile sganciarsi almeno parzialmente dai contratti Take-or-Pay legati al prezzo del Brent (pure in picchiata, e anche questo ha aiutato), permettendo un contenuto ma considerevole calo dei prezzi(21,29).
Direi che a questo punto la presenza del rigassificatore Olt al largo di Livorno è stata ampiamente motivata: permetterà all’Italia di inserirsi nel florido mercato del GNL (Gas Naturale Liquefatto), previsto in rapida crescita.
La domanda ha questo punto diventa se è effettivamente corretto per l’Italia puntare sullo shale gas americano, piuttosto che concentrarsi nel tessere buone relazioni con altri Paesi produttori.
Ci sono sostanzialmente tre fattori che fanno venire parecchi dubbi sulle strabilianti prospettive offerte dal gas da scisti.
Il primo è di ordine tecnico-ambientale: numerosi studi sembrano mettere in correlazione la fratturazione idraulica con sismi verificatisi nell’aree di maggior intensità estrattiva. Altra grave problematica riguarda il rischio d’inquinamento delle falde acquifere destinate all’uso domestico e il complesso smaltimento delle acque reflue. Questo pone ovviamente dei gravi limiti all’implementazione di questa tecnica nel continente europeo, ben più densamente popolato di quello americano e da sempre più sensibile alle tematiche ambientali, vanificando la (presunta) discreta presenza di riserve sfruttabili. Il Governo Italiano, cogliendo queste problematiche, ha ribadito nell’ultimo Piano Energetico Nazionale il rifiuto di ricorrere al gas da scisti per incrementare la produzione nazionale: dunque in ogni caso non ci avvicinerà all’indipendenza energetica(21,30,31).
Il secondo fattore è di ordine tecnico-economico: lo shale è davvero competitivo? La produttività dei pozzi è notevolmente inferiore rispetto a quelli di gas convenzionale, e richiede continui investimenti (cioè nuove trivellazioni) per mantenere la produzione su livelli costanti (altrimenti la produttività dopo un boom iniziale decade molto rapidamente). Le numerose compagnie che hanno partecipato al boom si sono pesantemente indebitate, ricorrendo al mercato finanziario per garantirsi i capitali necessari, ma i livelli di produzione e il basso prezzo del gas sul mercato americano fanno sì che adesso il valore reale delle compagnie sia inferiore ai loro debiti. Il rischio dell’esplosione di una nuova bolla speculativa è molto alto. Come continuare ad investire dunque?(29,32,33)
Il terzo fattore è di ordine economico-politico, e riguarda in parte gli Stati Uniti e ancor di più l’Europa: a seconda dei giacimenti (che hanno una produttività molto variabile dall’uno all’altro) il break even oscilla tra una forbice molto ampia, da 4 $/mmBtu fino addirittura a 12 $/mmBtu. E’ facile prevedere che, dopo l’iniziale calo dei prezzi dovuto all’improvviso incremento della produzione, domanda e offerta troveranno un nuovo punto d’equilibrio. Sarà favorevole allo shale? E’ tutto da dimostrare, specie considerando il crollo del prezzo del Brent negli ultimi mesi. Sia che si tratti di un’azione concordata dall’Arabia Saudita con Washington per colpire Putin, sia che i Sauditi stiano agendo di propria iniziativa per colpire proprio lo shale americano, siamo abbondantemente sotto il livello di break even. Difficile pensare che un prezzo del petrolio così basso non abbia ripercussioni su quello del gas. Se parliamo di Unione Europea poi, a questo dobbiamo aggiungere l’enorme costo che avrebbe costruire i necessari terminali di rigassificazione atti a ricevere il gas americano e le varie infrastrutture correlate per l’allaccio alla rete. A questi costi iniziali andrebbe poi aggiunta la spesa, inevitabile e permanente, dei costi di liquefazione e di trasporto. Sommando questi fattori, è molto improbabile che il gas americano arrivi a costare alla frontiera meno del gas russo, e infatti secondo un’analisi di Bloomberg, un ipotetico scenario di rinuncia totale al gas del Cremlino significherebbe per l’Europa raddoppiare i costi attuali(34).

 

Capitolo V: Conclusioni. Per una Realpolitik dell’energia

Appare ora evidente come i due piccoli terremoti politici di Parma e Livorno siano collegati in qualche modo con scelte che trascendono abbondantemente i confini delle due provincie. Gli Americani sono stati molto bravi a venderci la rivoluzione dello shale come già compiuta e i nostri governi, ansiosi di compiacere il fratello maggiore di Washington, si sono fidati della Verità rivelata, e questa è perlomeno dabbenaggine. Avallare l’attacco alla Libia è stata una scelta che, se non obbligata, non può che esser ritenuta masochistica. Accettare lo stato di tensione permanente, o forse sarebbe meglio dire di guerra economica dichiarata, con la Russia è semplicemente utopistico: abbiamo bisogno del gas siberiano tanto quanto loro hanno bisogno di vendercelo. Compiere costosi investimenti per cercare energia facile senza rispettare né le direttive europee, né il volere dei cittadini, né il buon senso, e senza neanche riuscire ad averne un tornaconto economico, è addirittura sinonimo di carenza d’intelletto.
Siamo giunti al termine del nostro cammino, che ci ha permesso ancora una volta di vedere come le piccole vicende particolari riassumano in sé molti dei cronici problemi che affliggono l’Italia. L’assenza di una visione d’insieme delle élites al governo e la loro incapacità di compiere scelte a lungo termine e di perseguirle si sommano al deficit di coordinamento tra centro e periferia, acuito dalle privatizzazioni e dalle reti di potere locali. La sensazione che l’Italia sia ancora oggi uno Stato a sovranità limitata permane, o perlomeno il nostro Paese si mostra ancora incapace di farsi valere nel contesto internazionale. Tutto questo porta ad azioni non condivise dalla cittadinanza, che in assenza di alcun mezzo per poter esprimere il proprio dissenso efficacemente vota un partito di protesta, nato grazie alla popolarità e al carisma di un comico ma privo di una linea politica di fondo.
E’ una caduta vorticosa che presenta il conto ogni due mesi, quando si pagano le bollette, e non sembra presentare vie d’uscita percorribili a breve termine.
Una risorsa intellettuale che dovrebbe venire in aiuto al politico in questi casi è il pragmatismo, il principio alla base della Realpolitik bismarckiana. Saper conciliare la realtà dei fatti e i rapporti di forza vigenti tra Stati e organizzazioni sovranazionali con le necessità della propria Nazione sarebbe essenziale per poter finalmente cominciare a fare gli interessi dell’Italia.
Analizzando il contesto nel quale il nostro Paese si trova a dover agire appare palese la forza del vincolo atlantico, ma altrettanto chiara appare la divergenza d’interessi perlomeno in ambito energetico. Per cui, senza indispettire direttamente l’alleato americano, si rende necessaria una certa indipendenza di pensiero e d’azione, volta a favorire la creazione di quei presupposti pratici funzionali al perseguimento del proprio interesse e non di quello altrui.
Agendo in quest’ottica, l’imperativo è coinvolgere l’Unione Europea nel problema. E’ incredibile come nell’unico settore veramente cruciale, la politica estera, l’Unione non abbia compiuto alcuno sforzo in favore dell’integrazione. In relazione alla vicenda ucraina, Bruxelles si è confermata essere un peso massimo economico e un peso piuma politico.
Parallelamente, in attesa di ottenere un sostegno da un’UE finalmente soggetto politico e non oggetto, occorrerebbe temporeggiare. Aspettare di vedere se lo shale diventerà davvero una risorsa reale ed utilizzabile convenientemente per l’Italia oppure se si rivelerà essere un flop. Allo stesso tempo curare i rapporti economici e diplomatici con altri Paesi che possono essere affidabili fornitori di GNL, dal momento che ormai il rigassificatore esiste ed è operativo (Qatar in primis e in generale i Paesi del Golfo).
A questo punto, cercare in ogni modo agendo nei vari Consigli dei principali organismi internazionali di giungere a una normalizzazione della situazione in Libia, per tutelare i nostri interessi sull’altra sponda del Mediterraneo.
Infine, sfruttare l’esistenza del rigassificatore e la notevole varietà di fonti già a disposizione dell’Italia anche in virtù della sua posizione geografica per ritrattare con la Russia, forti del debole prezzo del Brent. Questo ci consentirà di ottenere buoni sconti sui contratti Take-or-pay anche in tempi relativamente brevi. Immaginare di riesumare il progetto South Stream appare al momento impossibile, avvicinarsi così tanto alla Russia in questo momento appare sconveniente e probabilmente impossibile, ma coltivare sotto traccia buoni rapporti diplomatici con Putin, anche in virtù del recente passato di amicizia privilegiata tra il Cremlino e Roma, sarebbe imperativo in un’ottica di futuri sviluppi della situazione internazionale.
Se nessuna di queste decisioni verrà presa, continueremo ad affondare lentamente, nell’attesa che gli interessi del nostro alleato d’oltreoceano tornino fortuitamente a coincidere coi nostri.

 

Bibliografia

1. http://www.gestionecorrettarifiuti.it/
2. http://parma.repubblica.it/cronaca/2011/07/21/news/la_lunga_storia_degli_indignados_chi_sono_i_contestatori_di_vignali-19403672/
3. http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/16/parmacotto-iren-polis-parma-calcio-tutti-indagati-di-public-money/471717/
4. http://parma.repubblica.it/cronaca/2012/06/05/news/parma_degenerazione_etica_la_relazione_del_commissario-36577929/
5. http://iltirreno.gelocal.it/livorno/cronaca/2014/06/07/news/ballottaggio-tra-ruggeri-e-nogarin-e-il-giorno-del-giudizio-1.9379803
6. http://www.corriere.it/politica/speciali/2014/elezioni-europee/notizie/sorpresa-livorno-vince-m5s-363fc834-ef5e-11e3-9927-6b692159cfdc.shtml
7. http://www.gruppoiren.it/storia.asp
8. http://ir.gruppoiren.it/opencms/opencms/AEM_Torino/StatutoIT.html?tipo=2.3
9. http://ir.gruppoiren.it/opencms/opencms/AEM_Torino/AzionariatoIT.html?tipo=1.4
10. http://www.cgiamestre.com/2011/12/le-liberalizzazioni-sono-state-un-flop/
11. http://www.ilfattoquotidiano.it/2013/01/21/debiti-indagini-ripubblicizzazione-dellacqua-linverno-nero-della-multiutility-iren/475840/
12. http://www.genova5stelle.it/wp-content/uploads/IREN-12.10.12-versione-definitiva.pdf
13. Chiara Fontana, “Gli aiuti di Stato di natura fiscale” pagine 349-358. Link: https://books.google.it/books?id=8Yqx5cNPcWoC&pg=PA46&dq=aiuti+di+stato+di+natura+fiscale&hl=it&sa=X&ei=oOi-VJzkEI3jaN3qgLAK&ved=0CCIQ6AEwAA#v=onepage&q=aiuti%20di%20stato%20di%20natura%20fiscale&f=false
14. http://finanza.lastampa.it/notizie/1482,368333/news_feed.aspx
15. http://ir.gruppoiren.it/opencms/export/download/BilanciAnnualiIT/Bilancio_completo_2013.pdf
16. http://www.ilfattoquotidiano.it/2012/01/24/inceneritore-parma-richiamo-delleuropa-nascosti-costi-violata-concorrenza/186140/
17. http://ec.europa.eu/europe2020/europe-2020-in-a-nutshell/targets/index_it.htm
18. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-10-24/vertice-ue-raggiunto-accordo-pacchetto-clima-2030-nodo-costi-075303.shtml?uuid=ABzV4J6B
19. http://it.wikipedia.org/wiki/CIP6
20. http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/04/06/livorno-il-rigassificatore-forse-opera-strategica-cosi-le-bollette-saranno-piu-care/941508/
21. Cfr. Ministero per lo Sviluppo Economico, “Strategia Energetica Nazionale: per un’energia più comeptitiva e sostenibile”, marzo 2013 e Autorità per l’energia elettrica e il gas, “Relazione annuale sullo stato dei servizi e sull’attività svolta”, 31 marzo 2013.
22. Autorità per l’energia elettrica e il gas, “Relazione annuale sullo stato dei servizi e sull’attività svolta”, 31 marzo 2013, pagg. 137-140.
23. http://it.wikipedia.org/wiki/Greenstream
24. http://www.repubblica.it/esteri/2014/12/14/news/libia_combattimenti_chiuso_pi_grande_porto_petrolifero-102858514/
25. http://www.ilfattoquotidiano.it/2014/12/03/putin-ferma-gasdotto-saipem-impatto-variabile-perderemo-almeno-125-miliardi/1247866/
26. Per i dati sulle importazioni cfr. http://dgerm.sviluppoeconomico.gov.it/dgerm/bilanciogas.asp
27. Cfr. “World Energy Outlook 2013” http://www.worldenergyoutlook.org/publications/weo-2013/
28. http://www.treccani.it/export/sites/default/Portale/sito/altre_aree/Tecnologia_e_Scienze_applicate/enciclopedia/italiano_vol_3/057-084_ita.pdf
29. Cfr. Rogers H., “Shale gas, the unfolding story”, Oxford Review of Economic Policy, Volume 27, Number 1, 2011, pp. 117–143 (http://oxrep.oxfordjournals.org/content/27/1/117.short);
Kinnaman T. “The economic impact of shale gas extraction: A review of existing studies”, Ecological Economics, Volume 70, Issue 7, 15 maggio 2011, pagg. 1243-1249 (http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0921800911000590);
Asche F., Oglend A., Osmundsen P., “Gas versus oil prices the impact of shale gas”, Energy Policy, Volume 47, Agosto 2012, pagg. 117-124 (http://www.sciencedirect.com/science/article/pii/S0301421512003382);
Hughes J. David, “Energy: A reality check on the shale revolution”, Nature, 494, 20 febbraio 2013, pagg. 307-308 (http://www.nature.com/nature/journal/v494/n7437/full/494307a.html);
Berman A.E., Pittinger L.F., “U.S. shale gas: Less abundance, higher cost”, Resilience.org (http://www.resilience.org/stories/2011-08-05/us-shale-gas-less-abundance-higher-cost).
30. United States Evironmental Protection Agency, Study of the Potential Impacts of Hydraulic Fracturing on Drinking Water Resources, dicembre 2012, (http://www2.epa.gov/sites/production/files/documents/hf-report20121214.pdf).
31. Cfr. Ellsworth W.L., “Injection-Induced Earthquakes”, Science, Vol. 341 no.6142, 12 luglio 2013 (http://www.sciencemag.org/content/341/6142/1225942.short);
Copithorne B., Kitasei S., Zoback M., “Addressing the environmental risks from shale gas development”, Worldwatch Institute, luglio 2010 (http://blogs.worldwatch.org/revolt/wp-content/uploads/2010/07/Environmental-Risks-Paper-July-2010-FOR-PRINT.pdf).
32. http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-11-12/crollo-petrolio-e-debito-spazzatura-bolla-shale-oil-rischia-esplodere-210140.shtml?uuid=ABameCDC
33. http://www.peakoil.net/headline-news/barnett-shale-gas-production-on-its-way-downhill
34. http://www.bloomberg.com/news/2014-03-28/europe-seen-paying-twice-as-much-to-replace-russian-gas.html

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IRAQ: LA DISTRUZIONE DELLA MEMORIA

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Bombardamenti sulla storia, centinaia di scienziati deliberatamente assassinati, città devastate da attacchi con armi chimiche, esplosione improvvisa di mostruose malformazioni infantili, torture orrende e umilianti. Questa la realtà nascosta dell’Iraq di oggi, precipitato nel più nero abisso dell’umana miseria dall’ennesima “guerra di liberazione” statunitense. Intanto l’Occidente tace. E si prepara a celebrare la “Giornata della Memoria”.

 

I bombardamenti sulla storia

L’Iraq è un Paese unico al mondo. Una miniera ricca di tesori della cultura universale. Le prime scuole, il primo codice di leggi, la prima cosmologia, i primi archivi, tutto ebbe inizio a Sumer.
Fu in Mesopotamia che l’uomo, per la prima volta, raccontò se stesso attraverso la scrittura e raccolse i suoi testi in una biblioteca. Nella città di Ninive, nel VII secolo a.C., per opera di Assurbanipal, il re che sapeva leggere gli scritti anteriori al Diluvio, sorse la biblioteca più grande del mondo antico. Conteneva almeno diecimila testi; fra essi c’era l’Epopea di Gilgamesh, il primo poema epico della storia.
Ѐ dal 2003 che la storia dell’Iraq viene duramente bombardata. La memoria dell’Iraq e di tutto il genere umano è stata saccheggiata. Il Museo Archeologico di Baghdad, scrigno di tesori tra i più preziosi al mondo, custodiva millenni di storia, con reperti che risalivano alle origini della civiltà mesopotamica. I ladri e i militari lo hanno depredato ed i reperti sono stati venduti ai quattro angoli del mondo. Indimenticabile l’immagine dei soldati Usa che lasciano devastare il museo e ridacchiano di fronte allo scempio, mentre il solo Ministero del Petrolio viene protetto dai carri armati.
Sulle rovine dell’antica Babilonia, per lungo tempo, ha operato una base americana dei mezzi corazzati. Cosa significava Babilonia per i soldati occupanti? Cos’era per coloro che gli iracheni chiamavano i “nuovi mongoli”? Forse nient’altro che un mucchio di pietre, solo un riparo per cecchini.
La Biblioteca di Baghdad è stata incendiata, sotto lo sguardo indifferente dei soldati occupanti, mentre la ziggurat della favolosa città reale di Ur veniva deturpata dai volgari graffiti dei soldati nordamericani. Un dramma immenso, per l’umanità e per la sua memoria collettiva. “Ѐ la morte della storia”, ha titolato il quotidiano inglese The Independent, citando l’archeologa libanese Joanne Farchakh Bajjaly.

 

La distruzione dell’Iraq moderno

La distruzione della civiltà irachena è stata organizzata sistematicamente, al fine di cancellare la memoria del più avanzato sistema scientifico e culturale del mondo arabo. L’Iraq di Saddam Hussein prevedeva la laicità dello Stato, la tutela delle minoranze religiose e la parità fra uomo e donna. I pianificatori della guerra sapevano che nel Paese mediorientale c’era una forte identità nazionale, che con l’aggressione imperialista non poteva non rafforzarsi. Da ciò la necessità di eliminare coloro che questa identità nazionale avevano contribuito a costruire: gli scienziati, gli intellettuali e gli accademici. Secondo il Centro Studi Al-Ahram del Cairo, solo nei primi tre mesi di occupazione, sono stati eliminati più di 310 scienziati iracheni. Il Pakistan Daily, nel novembre del 2008, riporta un elenco di 283 accademici iracheni assassinati durante l’occupazione condotta dagli Stati Uniti d’America in Iraq. Un gran numero di loro lavorava nell’Università di Baghdad, una delle più importanti del mondo arabo. Prima dell’occupazione, c’era a Baghdad la più prestigiosa facoltà di medicina di tutto il Medio Oriente, ove si recavano centinaia di medici per la formazione avanzata. A questa facoltà è riferibile la più alta percentuale di docenti uccisi, seguita dalla facoltà di ingegneria e dalle facoltà di discipline umanistiche e sociali.
La violenta campagna contro gli accademici dell’Iraq è diventata uno degli argomenti principali degli appelli del Tribunale Russell, chiamato anche Tribunale internazionale contro i crimini di guerra, un organismo fondato nel 1966 da Bertrand Russell e Jean-Paul Sartre per indagare sui crimini di guerra commessi dall’esercito statunitense in Vietnam. Il Tribunale Russell riporta una lista di 479 accademici iracheni assassinati durante l’occupazione statunitense. La lista è aggiornata al 23 marzo del 2014. Le purghe sanguinose si sono verificate nelle più rinomate università, sparse in tutto il Paese: soprattutto a Baghdad, a Bassora e a Mosul, ma anche ad Anbar, Babilonia, Tikrit, Ramadi, Baquba, Dyala, Nahrain, Kerbala, Kufa, Falluja e Kirkuk. Sono stati eliminati centinaia di accademici di alto livello in tutte le branche del sapere: scienziati di rilievo, medici, direttori di istituzioni accademiche prestigiose, storici e studiosi di scienze sociali, fisici, biologi, ingegneri. L’obiettivo di questa campagna di terrore era quello di distruggere la nazione irachena, minarne la capacità di ricerca in ogni campo della scienza, impedire la capacità di educare il popolo; in una parola: distruggere una civiltà. Tale campagna criminale ha avuto come conseguenza la fuga all’estero di migliaia di scienziati, studiosi e professionisti. Risultato: l’Iraq è diventato un deserto culturale.

 

La catastrofe umanitaria

La distruzione dell’Iraq, con la sua storia millenaria, la sua scienza avanzata, la sua forte coscienza nazionale, non poteva non generare una forte reazione. La resistenza, diffusa in tutto il Paese, si è maggiormente concentrata nel triangolo sunnita: Baghdad, Baquba, Ramadi, Tikrit, ma soprattutto Falluja. E contro Falluja l’esercito statunitense si è accanito, devastandola con due attacchi, dove ha usato armi proibite: fosforo bianco, uranio impoverito, MK77, una variante del napalm. Si è poi cercato di impedire le indagini e di nascondere la tragedia di Falluja, una tragedia di dimensioni apocalittiche.
Il professor Chris Busby, un’autorità scientifica nel campo degli studi sull’uranio e le contaminazioni radioattive, ha deciso di indagare su quanto accaduto a Falluja nel 2004. Ma né a lui né ai membri della sua squadra è stato permesso di entrare nella “città proibita”. Il coraggioso scienziato, però, nonostante i pericoli, le minacce di morte e le enormi difficoltà, ha deciso di affidare le ricerche a un gruppo di iracheni di Falluja. Inizialmente, i locali hanno avuto paura, soprattutto dopo che una stazione televisiva di Baghdad aveva affermato che dei terroristi stavano effettuando un’indagine e che chiunque fosse stato sorpreso a parteciparvi sarebbe stato arrestato. Ma l’indagine, condotta su 721 famiglie di Falluja, è andata avanti e ha portato ad alcuni risultati su quanto è veramente accaduto nella città-simbolo della resistenza irachena. Fra le conseguenze delle armi chimiche usate dalle “forze di liberazione”, il professor Busby ha riscontrato un tasso di leucemia infantile più alto di 40 volte rispetto agli anni precedenti gli attacchi statunitensi, un aumento abnorme della mortalità infantile e un gran numero di malformazioni genetiche. Ecco solo qualche esempio delle deformità osservate fra i bambini di Falluja: bambini nati senza occhi o con un solo occhio, nati con due o tre teste, o senza orifizi, con tumori maligni al cervello, all’occhio e alla retina, bambini nati senza alcuni organi vitali, o nati senza alcune membra o con membra di troppo.
«La situazione a Falluja è spaventosa e orrenda, è peggio e più pericolosa di Hiroshima», è stato il commento del professor Busby. Intanto a Falluja i medici hanno ufficialmente sconsigliato alle donne di partorire, fatto commentato da Layla Anwar con le seguenti parole: «…l’Occidente, che ha tanto a cuore i propri figlioletti, non ha assolutamente nessuno scrupolo a riversare tonnellate di prodotti chimici letali sotto forma di armi di distruzione di massa sulle popolazioni di Basra e Falluja – per dirne una, armi chimiche come l’uranio impoverito o il fosforo causano l’aumento di cancro tra i bambini e producono le più mostruose malformazioni – prodotti geneticamente modificati dalla “Libertà e democrazia”…».
E Falluja non è il solo sito iracheno dove sono stati compiuti questi crimini. Ѐ solo il più colpito.

 

L’attacco al partito Baath

All’indomani dell’invasione del 2003, la tomba del fondatore del partito Baath, Michel Aflak, venne profanata. Il fatto è sorprendente, sia perché la tomba si trovava nella sicurissima Zona Verde, sia perché un fatto del genere è estraneo alla tradizione irachena. Scrive a tale proposito Gilles Munier: «La storia dell’Iraq – fin dai tempi più antichi –  è stata segnata da invasioni e massacri. Ma contrariamente a quanto è appena accaduto, il popolo iracheno ha sempre rispettato i morti, anche quelli dei suoi nemici.  Ad esempio, la tomba del generale Maude – conquistatore inglese di Baghdad dopo la prima guerra mondiale – non è stata mai violata, così come le tombe dei soldati britannici che la circondano. Essi sono ancora sepolti in bella vista, in uno dei principali quartieri della capitale. Altro esempio: anche se criticati o odiati a loro tempo dalla popolazione, le spoglie di Faisal I e Faisal III, re hascemiti d’Iraq, hanno l’onore di un mausoleo, abbellito per ordine del Presidente Saddam Hussein».
Un fatto simile a quello di dieci anni fa si è ripetuto alla fine di dicembre, quando è stata profanata la tomba del Presidente Saddam Hussein, situata a Al-Awja, suo villaggio natale presso Tikrit.
Qual è il significato di questi atti così deplorevoli? Distruggendo la tomba di Michel Aflak o di Saddam Hussein, fondatore e presidente del partito della rinascita araba, gli Stati Uniti pensano di cancellare ogni traccia del baathismo dall’Iraq, cioè ogni velleità di riscatto facente riferimento a un ideale di nazionalismo arabo.

 

Considerazioni finali

L’Iraq non potrà mai tornare ad essere ciò che era. Troppo grandi sono le sue ferite. Troppo profondo l’abisso in cui è precipitato. L’Iraq andrà in frantumi e il suo antico corpo sarà spezzato in più parti. Questa è da sempre la mira dell’invasore statunitense. Che ne sarà della memoria? Il popolo iracheno è un popolo tenace, un popolo di grande dignità. Cosciente della sua storia millenaria, difficilmente accetterà di essere sepolto dalle onde dell’oblio. Gli Stati Uniti non hanno mai mostrato rispetto per le culture dei popoli. Essi sono sempre stati interessati alla sola rapina delle ricchezze materiali dei territori conquistati, sempre ammantata dalla stessa vuota retorica sulla libertà. Forse non hanno nemmeno coscienza della grave perdita della memoria storica della Mesopotamia. O, semplicemente non gli interessa. L’Iraq ha una lunga storia di resistenza. Una storia a cui hanno attivamente partecipato i poeti. Perché l’Iraq è sempre stato terra di cultura e di poesia.

Vedo un orizzonte illuminato di sangue,
E molte notti senza stelle.
Una generazione viene e un’altra va
E il fuoco arde ancora.

Queste parole le scrisse il poeta Al-Jawahiri ai tempi dell’occupazione britannica. Ma gli Iracheni, popolo che ha messo la memoria al centro di tutto e guarda lontano, le ricorda ancora oggi.

Bibliografia
Robert Fisk: It is the death of history, in The Independent, 17- 09-2007
Elenco di accademici iracheni assassinati in Irak durante l’occupazione condotta dagli Stati Uniti d’America, dal Pakistan Daily del 26-11-2008 (fonte: uruknet.info);
List of killed, threatened or kidnapped Iraqi academics, A, 3-09-2012 (fonte: brusselstribunal.org);
James Petras, La guerra Usa contro l’Iraq, traduzione dall’inglese a cura del Centro di cultura e Documentazione Popolare, 16-09-09 (fonte: resistenze.org);
Layla Anwar, Fallujah worse than Hiroshima, 2-07-2010 (fonte: arabwomanblues.blogspot.com);
Layla Anwar, Geneticamente modificato, 11-05-2010, Arianna editrice (fonte: arabwomanblues.blogspot.com);
Gilles Munier, La distruzione della tomba di Saddam Hussein, 3-01-15 (fonte: come donchisciotte.org);
Tariq Ali, Bush in Babilonia, Fazi Editore, 2004.

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Alessio Mannino, Mare Monstrum. Immigrazione: bugie e tabù, Arianna Editrice, Bologna 2014

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Dopo aver letto un libro come quello di Alessio Mannino Mare Monstrum. Immigrazione: bugie e tabù (Arianna Editrice, Bologna 2014), la prima domanda che s’impone è questa: perché mai pubblicare libri come questo?

Non mi si fraintenda: non voglio dire che non è bene che libri del genere siano dati alle stampe. Tutt’altro. Ma è certo che nessuno, ma davvero nessuno di tutti coloro che hanno un qualche potere decisionale, un qualche ruolo di “responsabilità” in questo Paese, lo leggerà mai.

Parliamoci chiaro: questi sciagurati, trincerati nelle loro torri d’avorio e nei loro privilegi, non leggono nulla. Nulla di approfondito e documentato. E figuriamoci poi se esce dai binari del “politicamente” o “moralmente corretto”! Al limite, si prestano come attori e testimonial di una delle posizioni irreali e falsamente antitetiche che caratterizzano tutto quel che ruota attorno alla “questione immigrazione”.

Da un lato, circonfuso dell’aura del Bene Assoluto, chi si nutre di “pappa del cuore” appuntandosi la coccarda del “più buono del reame”; dall’altro, chi agita monotematicamente argomenti xenofobi scambiando alcuni spiacevoli effetti con le cause.

Vi è infatti chi critica (con argomenti il più delle volte obsoleti e spuntati) “il mercato” ma accetta “senza se e senza ma” l’immigrazione; e dall’altro capo di questo gioco delle parti – che ha fatto abbondantemente il suo tempo – abbiamo chi non trova nulla di sbagliato nel “libero flusso delle merci e dei capitali” (favola per allocchi) ma ne rifiuta un solo aspetto (e per giunta con argomenti-diversivo come quelli “culturali”): la tratta dell’“uomo merce”, che in realtà viene delocalizzato dove il sacro ed intoccabile “mercato” esige.

Tutti, indistintamente, tirano l’acqua al loro mulino, pensando di ricavarne qualche vantaggio. Per questo l’immigrazione fa comodo a tutti.
Ma l’immigrazione è per prima cosa una tragedia, al cui centro vi è l’alienazione dell’immigrato, sottoposto per primo ad una destrutturazione della propria personalità (cap. 1), alla quale farà seguito quella della comunità che lo riceve quando arrivano troppi immigrati.

L’immigrazione è difatti anche una questione di numeri sopportabili. Migrazioni ci sono sempre state, ma quella di tipo moderno generata dal capitalismo predatore e dalla sua way of life che alletta le moltitudini (e che vede partire individui e, al limite, i suoi familiari stretti, ma non popoli e clan interi come nei secoli passati), è diretta conseguenza del modello capitalistico, il quale alimenta a lungo andare un nomadismo globale e una tendenza alla deterritorializzazione di tutto e tutti, compreso l’essere umano. Che in base ai postulati della ‘filosofia’ d’accatto dominante finisce per essere concepito come un contenitore vuoto da riempire a piacimento, e non più anche l’esito della sua storia, dei suoi avi, della sua patria.

«Ecco, è nella dimenticata e bistrattata parola “patria” che si concentra il rimosso più profondo: il legame spirituale e affettivo con la terra dei padri costituisce l’esatta antitesi della rottura dei legami, essenza della migrazione. L’errante, l’affamato, la scheggia impazzita del mondialismo deve mettere la ricerca della felicità monetaria davanti a tutto. Deve trovare del tutto normale, ovvio, fisiologico volare da un capo all’altro dei continenti grazie alle linee aeree a basso costo, rimanendo in contatto elettronico grazie a Skype o Facebook. Deve capire che la libertà di fare le stesse cose a Milano, come a Londra o a New York, è più importante di rendere la madrepatria un posto migliore, per sé e i suoi figli. Deve pensare prima ad alzare il reddito d’acquisto e la capacità di spesa personale, e solo poi all’equilibrio psicofisico e all’identità del suo Io. E accadrà che ci penserà sempre meno, perché non ne avrà il tempo. Dovrà cedere via via ai compromessi con la cultura d’arrivo, perché gli conviene e perché ormai non ha scelta, se non intende tornare “sconfitto”. Dovrà fornire un esempio di integrazione, perché i privilegiati occidentali imparino che emigrare è una possibile, anzi allettante soluzione ai loro tormenti (lavoro che non c’è, mancanza di prospettive, sfiducia nella società e nello Stato). Tutti errabondi, errare disumanum est» (p. 13).

Per i fautori del mondo globalizzato, di Destra e di Sinistra, e a qualsiasi ideologia o religione facciano riferimento per darsi una “identità”, l’individuo è come un pezzo di ricambio di una macchina.

Questa è la cruda verità, e la grande tragedia che sta dietro la “filosofia delle migrazioni”: la disumanizzazione degli esseri umani.
Per questo, un libro che intende sfatare bugie e tabù, non può in alcun modo essere un’accusa contro l’immigrato, bensì contro l’immigrazione.

E sempre per questa elementare ragione, l’Autore di questo studio, che si articola in sei agili capitoli ed è arricchito da quattro interviste, stigmatizza anche la “fuga di cervelli” e di competenze in atto dall’Italia attanagliata dalla “crisi” verso un “altrove” che se all’inizio potrà assumere le sembianze di una “opportunità” alla fine si rivelerà per quel che è: la perdita della propria identità.

Invece, ribadisce con forza Mannino, la fuga è una sconfitta: bisogna restare qua, ‘in trincea’, a dare battaglia: contro questo sistema ingiusto perché non a misura d’uomo. Contro i corrotti e i traditori al governo che lo puntellano; contro i sindacati e le “agenzie umanitarie”, religiose o meno; contro l’imprenditore profittatore e, soprattutto, il finanziere, che speculano sullo sradicamento delle persone e la riduzione delle comunità umane ad enormi ed anonimi “mercati”.

Per “il mercato”, ogni cosa vale l’altra, purché costi di meno e faccia girare soldi. Per questo il sistema capitalistico, agli esordi, non poteva che cominciare con la Tratta dei neri (un vero tabù storico). E sempre per lo stesso motivo, ad oltre duecento anni dalla Rivoluzione Francese, viviamo in un’epoca nella quale il ‘mito’ dell’eguaglianza è ancora estremamente radicato nelle coscienze (cap. 5).

Ma le identità possono permanere solo se si mantengono le differenze, per cui si staglia in tutta la sua ipocrisia e dabbenaggine la posizione di chi elogia le differenze, il “multiculturalismo” e la “società multietnica” ma di pari passo odia le identità quando sono “troppo forti”.
Eppure, proprio il “paradigma differenzialista”, fatto proprio da uno degli intervistati, Alain De Benoist (che il solito sinistrume ignorante, belante e accusatorio bolla senza tanti giri di parole come “fascista”), potrebbe essere una delle vie d’uscita da questo dramma planetario al termine del quale, qualora venisse a compiersi definitivamente, vi sarebbe un’unica melassa di individui-consumatori indistinguibili nel loro appiattimento su un “modello unico” governato dalle leggi del Mercato e del Consumo.

Ovviamente, per giungere a tanto, bisogna che anche il mito della “crescita” infinita non sia mai messo in discussione. Ed è ciò che fa Maurizio Pallante, in una delle interviste che chiosano il volume.
Ma il nocciolo del problema, a mio avviso, se non vogliamo addentrarci in disamine filosofiche e metafisiche che esulano dagli intenti di questo libro, sta in quello che Diego Fusaro esprime al meglio quando, intervistato, connette essenzialmente il fenomeno delle migrazioni di massa contemporanee all’imposizione, in ogni dove, del Capitalismo predatore e sfruttatore, che passa come un rullo compressore sulle specificità dei popoli imponendo i suoi rapporti di forza.

Oltretutto, lo stesso Fusaro rileva che la Sinistra, che statutariamente a parole “difende i lavoratori”, va in totale contraddizione alimentando l’immigrazione di persone disposte a lavorare per meno soldi e minori tutele, danneggiando i “lavoratori” del Paese che accoglie. Con buona pace della “lotta di classe” che dovrebbe essere un suo cavallo di battaglia, perché come la storia ha dimostrato più volte anche la solidarietà tra “sfruttati” presuppone un’omogeneità etnico-culturale assente nelle “classi lavoratrici” arcobalenizzate.

La Destra, invece (e con Destra s’intende l’altra faccia della medaglia, complementare ed essenziale), se da una parte alimenta con le sue ali “estreme” le campagne allarmistiche e xenofobe (che hanno anche le loro “ragioni”, come rileva un altro intervistato, Massimo Fini), dall’altra è ben contenta di far arrivare individui da sfruttare più e meglio degli autoctoni. Anche se, a dire il vero, “i padroni” non sono solo “di Destra”… e, anzi, ne abbondano di radical chic. Ma quel che è certo è che tutti costoro hanno un gran bisogno di “schiavi a buon mercato” (cap. 3).

Purtroppo, dicevamo, questo libro non finirà sul tavolo di qualcuno che prende le decisioni, perché ne gioverebbe senz’altro, potendo capire, per esempio, che il problema principale non è “il clandestino”, vera foglia di fico di chi ha architettato lo “spettacolo dei barconi”. La stragrande maggioranza degli immigrati arriva infatti per altre vie, legali al 100%, ma sono certe scene pietose rovesciate nelle case degli italiani dalla televisione ad occupare completamente sia le cronache sia il dibattito sull’immigrazione. Che così resta ostaggio di un approccio moraleggiante e sideralmente lontano da ogni logica.

A questo si aggiungano i crescenti degrado ed insicurezza, che sono un dato di fatto – e non una “opinione esagerata” – nelle più grandi città italiane e non solo. Ma che fare in assenza di uno Stato degno di questo nome, con una classe politica imbelle ed incapace di praticare una politica estera nel nostro interesse di Paese posto al centro del Mediterraneo?

L’immigrazione fuori controllo e senza una seria pianificazione nell’interesse della comunità accogliente è figlia dell’assenza di una seria e coerente politica estera, così tutti i nostri partner europei non trovano di meglio che rimbalzarci la “patata bollente”, tanto noialtri italiani siamo diventati la burletta di questo simulacro di “Unione”.

Vengono imbastite “operazioni” tanto altisonanti quanto dispendiose ed inefficaci. Si vanno a colpire (quando si fa qualcosa) i “pesci piccoli” mentre i grandi trafficanti di “merce uomo” se la ridono. Non si sa nulla – aggiungo io – degli inconfessabili “accordi” tra i paesi di provenienza e quelli di destinazione…

«Anche volendo pigiare seriamente il tasto repressivo, l’andirivieni di sbarchi non si fermerebbe del tutto. Per un’azione di contrasto efficace, per prima cosa bisogna chiarirne il presupposto: uno Stato ha il pieno diritto e il preciso dovere di decidere se, come e quanti stranieri possano entrarvi. Lo Stato, qualsiasi Stato, non è né un’associazione di carità, né una protuberanza di una vagheggiata “umanità”, giuridicamente e politicamente inesistente. Uno Stato sovrano è sovrano a cominciare dal diritto di decisione sui propri confini; perciò, o riesce a farli rispettare prima che siano violati, intervenendo al di fuori di essi, oppure, se è costretto a farlo al di qua, non è più sovrano: subisce la pressione esterna e vi si adegua. Perdendo, con la sovranità, anche la dignità» (p. 48).

Insomma, «sull’immigrazione ci vuole poco cuore e più cervello». Dichiarazione di qualche esponente leghista? No, parola di Luigi di Maio, vicepresidente della Camera, il quale aggiunge che «è una follia, per le condizioni in cui è ridotto il nostro Paese» (p. 50); aggiungendo, per completare il ragionamento, che “preoccuparsi” per l’emigrazione dall’Africa sub-sahariana e, allo stesso tempo, collaborare alla distruzione dello Stato libico e sfruttare le risorse di quei popoli è quantomeno contraddittorio e controproducente…

E allora avanti così, perché questa situazione è davvero la Cuccagna per molti, troppi mestatori di professione. Come per quelli che ci devono spaventare con “gli immigrati che fanno più figli” e che perciò ci assorbiranno, ci sommergeranno, ci islamizzeranno eccetera. Quando basterebbe interpellare anche il sociologo più sfigato per sapere che la tendenza, una volta entrati nella spirale del “benessere materiale” e fatti propri modelli comportamentali alieni, è quella ad essere meno prolifici…

La verità è che quasi tutti si “occidentalizzano”, punto e basta.

Gli immigrati “ci portano via il lavoro”? In parte sì e in parte no. Per cui falsificano la situazione, mestando nel torbido, coloro che rispondono solo affermativamente o negativamente in maniera perentoria ed apodittica.

«Il quadro è contraddittorio e a macchia di leopardo, ma uno è il dato fondamentale, l’elefante nella stanza di cui non si parla mai: l’avere compresso i salari e le condizioni di lavoro ha reso l’immigrato – che ha poco o nulla da perdere ed è disposto praticamente a tutto – il giocatore vincente di una partita in cui perdono tutti. Eccetto quello che una volta si chiamava “padronato”» (p. 23).

In pratica i flussi migratori aumentano solo quando il lavoro effettivamente c’è. Perché al momento è in corso anche un fenomeno di fuga dall’Italia, dove fra un po’ non ci sarà più nulla da fare nemmeno per gli italiani. Ed è vero che alcuni mestieri gli italiani non li vogliono più fare? In parte sì e in parte no. Si pensi alle “badanti”. Ma qui entriamo in un campo minato, quello della cura dei nostri anziani non più autosufficienti… Ah, il supremo “modello occidentale”, ah “i nostri valori”! Detto brutalmente: chi vuole più pulire il sedere ai genitori ormai vecchi e debilitati?

In altri casi, però, si potrebbe fare qualcosa per incentivare il ritorno degli italiani a determinate mansioni: ad esempio, cominciare a controllare che non si possa essere pagati due o tre euro all’ora, sgobbando per quattordici ore… Impedire per legge le “delocalizzazioni” della produzione di beni e servizi, propinanti però agli italiani a costi ingiustificabili. Tutti, una volta o l’altra, hanno potuto parlare con un operatore del call center che chiama dall’Albania, eppure le bollette continuano ad esser care…
E non sarebbe il caso di privilegiare chi in Italia c’è nato ed ha compiuto i suoi studi? Che senso ha, se non umiliare e scoraggiare le persone, attivare corsi di laurea e/o professionali e, contemporaneamente, far arrivare stranieri per metterli in “competizione” con gli autoctoni?

Ma dov’è la politica, che dovrebbe svolgere anche questo compito? Inesistente, del tutto appiattita sulla poundiana definizione di “camerieri dei banchieri” o, se preferite Marx, sui “comitati d’affari della borghesia”.

Senonché, oggigiorno non esiste nemmeno più la borghesia, coi suoi difetti e il suo egoismo sociale, ma anche coi suoi pregi e il suo senso del decoro, come avrebbe detto Costanzo Preve. Sia l’immigrato che l’autoctono si amalgamano così idealmente, sperando di far parte, a discapito di chi “non ce la fa”, di una global middle class che si trova ovunque a suo agio, da New York a Berlino, da Parigi a Dubai, perché tanto l’importante è che il sistema capitalistico-finanziario deterritorializzato, i suoi “valori” ed i suoi status symbol trionfino dappertutto, sommergendo “il passato”, da cui fondamentalmente anche l’immigrato meno fortunato vorrebbe affrancarsi per non doversi dire che “ha perso” in questa specie di roulette che è il “mondo globalizzato”.

È «la fine delle appartenenze di popolo, per fare posto all’individuo culturalmente apolide, magmatico, puntiforme, che si pretende avulso dalle proprie origini e nel diritto-dovere di rigettarle, reinventandosi un’immagine di sé cotta a puntino dalla fabbrica dell’Io narcisistico così caro e conveniente all’industria del consumo» (p. 55).

Ma può anche accadere il contrario: ossia l’abbarbicamento ad una “tradizione”, il più delle volte mal compresa perché ricostruita a posteriori, con i suoi elementi essenziali e vivificanti oramai persi per sempre. È il caso, di stringente attualità, delle “comunità islamiche” presenti nei paesi occidentali, che producono anche – in quantità fortunatamente minoritarie – i cosiddetti “jihadisti” e gli “odiatori dell’Occidente” cui contrappongono un’idealizzata quanto posticcia “purezza delle origini”, come se “il passato” potesse essere ricostruito attraverso i sermoni di qualche telepredicatore religioso. Ad ‘onore’ di costoro – rileva Massimo Fini col suo gusto per il paradosso – va comunque il fatto che cercano, combattendo in Iraq o in Siria, una esperienza forte, “liminale” e da “uomini veri”, che la mollezza e l’appiattimento del comfort moderno stanno per sradicare definitivamente dall’animo delle persone riducendole al livello di mansueti agnellini da “villaggio globale”.
Un “mondo globalizzato” dove la preoccupazione principale, specie per noi italiani che non abbiamo un preciso modello da proporre all’immigrato, sembra essere la “integrazione”, che sta diventando una vera e propria fisima da talk show.

Qualcuno dovrebbe finalmente spiegare com’è possibile “integrarsi” e, al tempo stesso, vivere in una società – quella italiana – che da un giorno all’altro sta svendendo, oltre a pezzi della sua economia, elementi essenziali della sua “identità”, a favore di un appiattimento acritico sugli stili di vita importati da Oltreoceano.

In che cosa si dovrebbe “integrare” un immigrato? Una domanda alla quale nessuno saprà mai dare una risposta sensata, perché semplicemente non c’è.

L’unica “integrazione” – che poi è puro e semplice “senso civico” – è il rispetto delle leggi vigenti (giuste o sbagliate che siano), come osserva Massimo Fini. Ma vaglielo a dire ai summenzionati mestatori di professione… Perché dovrebbero riconoscere che la maggior parte degli immigrati rispetta le leggi italiane, o quanto meno non le infrange in maniera più rilevante rispetto agli italiani stessi.
Per girare intorno al dramma umano posto dall’immigrazione, s’inventano “carte dei valori” dove è richiesto un surplus di “fedeltà” che contiene elementi sinceramente preoccupanti e degradanti: dissociarsi da una posizione “filo-palestinese” oppure, come in Olanda, sorbirsi anche qualche scena osé nell’esame di “olandesità” congegnato per chi vuole acquisire l’agognata nazionalità.
E stendiamo un velo pietoso sulla querelle riguardante lo ius soli e la concessione del voto amministrativo (vero mostro giuridico) per accaparrarsi qualche simpatia a breve termine. Il tutto somiglia a quegli escamotage – come il “registro delle unioni civili” – per introdurre artatamente altri tipi di “famiglia”. E poi sarebbero gli immigrati a non rispettare le leggi!

Non ci siamo proprio. O si entra nell’ordine d’idee che il “male originario” (cap. 2) è la globalizzazione, l’occidentalizzazione del mondo che provoca sradicamento in ogni dove, o ci dovremo rassegnare a convivere con questo squallido e degradante teatrino, dove s’inscena una storia che non prevede alcun lieto fine, perché tutti – mentre se ne escono con la loro “soluzione” o perdono tempo in una “guerra tra poveri” – finiranno nella pancia dell’unico mostro che li aspetta al varco.

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MINISTRO AFFARI ESTERI IRANIANO: L’IRAN PREOCCUPATO PER LE MANIFESTAZIONI DI ISLAMOFOBIA

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Lettera del ministro degli Affari esteri iraniano al segretario generale dell’Onu.
Zarif: l’Iran è preoccupato per le manifestazioni di Islamofobia

Il ministro degli Affari Esteri iraniano, Mohammad Javad Zarif, in una lettera destinata al segretario generale dell’Onu Ban Ki-Moon ha espresso profonda preoccupazione per la diffusione dell’Islamofobia e delle sue inquietanti manifestazioni in tutto il mondo.

L’intero testo della lettera, che risale al 29 gennaio, ha in allegato il messaggio, che risale al 21 gennaio, dell’Ayatollah Seyyed Ali Khamenei, leader della Repubblica Islamica Iraniana, rivolto ai giovani dell’Europa e del nord e recita:

“Nel nome di Dio, il clemente, il misericordioso,

Eccellenza

vorrei attirare la Sua cortese attenzione verso le manifestazioni piuttosto inquietanti e pervasive di Islamofobia, che si sono ulteriormente aggravate in seguito ai recenti attentati terroristici di Parigi. Le uccisioni ingiustificate da parte di membri del famigerato e violento gruppo terroristico – la cui ragione d’essere e il cui emergere come protagonista della nostra regione sono fatti ben noti a tutti – sono state condannate dai musulmani di tutto il mondo, in termini chiari ed inequivocabili, compresi i governi, le istituzioni e le autorità religiose, la società civile e le personalità di spicco. Il fatto che questi ricorsi alla violenza non occupino alcun posto nell’Islam e nei suoi insegnamenti, e tantomeno siano accettabili per i musulmani, non è in dubbio; nonostante la campagna dei responsabili promotori dell’Islamofobia cerchi di mostrare il contrario.

Il punto per noi, nella Repubblica Islamica, e nel mondo musulmano in generale, è il prevalere di un doppio standard quando entra in gioco la questione della proclamata difesa del principio universale della “libertà di espressione”. Potrebbe trovare interessante il fatto che nel 2008 ad un fumettista della stessa rivista è stato chiesto da parte dei suoi editori di scrivere una lettera in cui si scusava di tutto ciò che poteva essere percepito come anti-semita; ed è stato sommariamente licenziato per essersi rifiutato di farlo. Non è mai stato possibile vedere questo tipo di approccio o di decisione nel caso delle frequenti caricature frivole che diffamavano i musulmani e dissacravano i valori islamici che apparivano in quella rivista e in altre pubblicazioni simili in Europa, provocando un inasprimento della tensione con la comunità musulmana in Francia e nel mondo islamico. Come abbiamo mestamente notato, negli ultimi tempi, in varie società del mondo occidentale, gli ambienti politici o le singole personalità, i Media o il mondo virtuale, hanno apertamente attaccato i valori religiosi musulmani, sia in riferimento alla personalità del Profeta che al Corano o agli insegnamenti e i valori islamici, e questo è diventata una pratica ormai all’ordine del giorno. Il pericoloso fenomeno inerente a ciò costituisce una seria minaccia alla pace e alla sicurezza internazionale così come all’atmosfera fortemente bisognosa di relazioni umane e pacifiche sia tra stati che tra individui e al ricorso necessario al dialogo, alla comprensione e alla tolleranza tra le pluralità di comunità etniche, religiose e razziali del nostro mondo odierno.

Al di là delle immediate azioni necessarie a denunciare e condannare gli atti di violenza verbale e fisica l’Occidente, e l’Europa in particolare, necessita di intraprendere un esercizio unico di ricerca per sottolineare le ragioni per le quali un numero considerevole di individui e gruppi sposa delle ideologie estremiste e si impegni in atti di brutale terrore e atroce violenza, in Europa e in una scala più ampia, in Iraq e Siria, e spesso si tratta di europei di seconda generazione.

Questo fenomeno bizzarro e apparentemente inspiegabile non può essere una mera coincidenza, né può essere facilmente ignorato e nascosto sotto il tappeto; è parte integrante del panorama politico attuale europeo. Questo tradisce i segni di un profondo malessere socio-politico delle società in questione, specie nei confronti delle politiche messe in atto nei confronti delle minoranze musulmane, dei loro valori e delle loro santità.

Analisi recenti, indotte in larga misura dall’alto tasso di reclutamenti terroristici in Europa e Nord America, indicano un fallimento sistematico di queste società, che ha portato all’emarginazione, all’alienazione e alla privazione dei diritti di queste comunità e dei suoi membri, in particolare le seconde generazioni, nate, cresciute ed educate nelle società occidentali. È sconcertante ed egualmente spaventoso che i terroristi del Daesh, che decapitano civili innocenti e con depravata soddisfazione brandiscono le teste degli ostaggi uccisi, parlino lingue europee con accento nativo. Puntare il dito d’accusa verso gli altri, che siano stati musulmani o meno, da parte di alcuni governi le cui politiche e i cui politici possono essere considerati sgradevoli, o molto peggio, l’Islam come fede, anche se politicamente corretto a livello nazionale, di beneficio istantaneo o a breve termine, è semplicemente poco convincente ed incapace di affrontare seri problemi sia a livello societario che globale.

Scrivendo questa lettera, signor Segretario Generale, non voglio lamentare le ovvie manifestazioni di doppi standard o trovare delle colpe con politiche altamente sanzionate di questo o quel governo o società occidentale. Piuttosto vorrei condividere con lei questa preoccupazione per un obiettivo più serio. Considerando le capacità istituzionali delle Nazioni Unite, e come diplomatico multilaterale che crede ancora nel potenziale sostanziale dell’Organizzazione, tendo a rimanere fiducioso che l’ONU, le capacità e i suoi meccanismi possano essere sfruttati per una questione di grande impatto e riverbero internazionale. Due proposte iraniane, adottate dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite sul Dialogo tra le civiltà (A/Res/56/6) e sul Mondo contro la violenza e gli estremismi (WAVE) (A/Res/68/127) sono in grado di fornire un adeguato contesto istituzionale per tale sforzo. Di recente, in un messaggio che ho il privilegio di allegare, l’Ayatollah Khamenei ha assunto la guida nell’avviare un dialogo con i giovani in Occidente su questa fondamentale questione.

Credo fermamente che abbiamo un urgente bisogno di attingere alla nostra saggezza collettiva, a livello di tutta la comunità internazionale, per esplorare le modalità pratiche e mezzi utili al riguardo.

In attesa di essere informato sulle sue iniziative di risoluzione e rimarcando la mia disponibilità per un ulteriore scambio di opinioni su questo argomento, mi permetta, Signor Segretario Generale, di assicurarla della mia più alta considerazione.

Javad Zarif

29 Gennaio 2015

Hassan.Niazi
Primo Consigliere
Affari per la Stampa
Ambasciata della R.I. Iran
Via Nomentana, 361
00162 Roma – Italia
Email: hassan.niazi@ambasciatairan.it
Web: www.ambasciatairan.it

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LA CRUDA ‘FOTOGRAFIA’ DELLA “CIVILTÀ OCCIDENTALE”

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Quale potrebbe essere “la foto più bella dell’anno” secondo i giurati di un importante premio giornalistico che viene assegnato ad Amsterdam?

Con tutto quello che succede in giro per il mondo, e con tutti i bravi fotoreporter che ci sono, ci sarebbe solo l’imbarazzo della scelta, ma siccome al World Press Photo 2015 hanno deciso di premiare “l’amore”, si può star certi che lo scatto premiato non ritrarrà un uomo e una donna, ed il frutto di questo “amore” perennemente sulla bocca di tutti. Cioè i loro figli, sani e felici.

Non si può pretendere che in un contesto “mondano” del genere, per “amore” s’intenda il grado più elevato della Conoscenza. Tuttavia, anche un’accezione del termine limitata all’ambito familiare avrebbe ancora una sua ragion d’essere, visto che questo “amore” viene solitamente messo in relazione con la “vita”.

L’amore in quanto forza che vince la morte, prevalendo sul nulla e l’oblio.

Ma qui non vi è niente di tutto questo. Questo “amore” da premiare nulla ha a che fare con la filosofia e “alchimia della felicità”, né con un inno alla vita che perennemente si rinnova nelle nascite dei bambini.

E dopo questa premessa, cerchiamo d’indovinare il tema della “foto più bella dell’anno”.

È ambientata in Russia. La Russia del “nuovo Hitler” Putin, affetto da una “sindrome” che ne altererebbe la sfera emozionale e decisionale.

La Russia che, all’unisono e di concerto, tutta la cosiddetta “cultura occidentale” ha elevato al rango di nemico pubblico numero uno (assieme all’Islam, sfruttando le malefatte dei “fondamentalisti”, peraltro sostenuti dal potere occidentale stesso).

Non ci si attendano però un algido paesaggio siberiano o le meraviglie architettoniche di San Pietroburgo.

No, l’ambientazione della “foto più bella dell’anno” è una camera da letto.

Una camera tetra, che è tutto il contrario di un inno alla vita, dove “l’amore gay vince”. In Russia.

La Russia “omofoba” (perché Putin è “omofobo”, ovviamente) nella quale “la coppia gay russa diventa icona dell’amore globale e testimonial di passione intima ma anche civile”. Fa anche un certo effetto sentir parlare di “icone” in questo modo al riguardo della Russia… ma per certi depravati, le uniche “icone” da meditare sono le Pussy Riot e le Femen.

Ma… ragioniamo un attimo. Questa scena è presa in un momento di “intimità”.

Quindi, ritraendo la foto vincitrice una scena di omosessualità in privato, i signori giurati hanno scelto l’immagine sbagliata, perché la legge in vigore in Russia vieta solo la propaganda omosessuale, in particolare tra i minorenni.

Ora, pretendere la buona fede da dei militanti omosessualisti infilati in ogni ambito della “cultura” è una pia illusione. Quando prendono di mira qualcuno o qualcosa non c’è nulla che li possa far ragionare. Vogliono aver ragione al 100% e si daranno pace solo quando vedranno il nemico di turno nella polvere, umiliato e costretto alla resa incondizionata. E non è una loro caratteristica esclusiva… vi ricordano qualcun altro?

Finché non arrivano allo scopo, martellano incessantemente sempre sul solito tasto, sfruttando ogni pretesto e manipolando oltre ogni decenza la realtà. Lo abbiamo visto con le Olimpiadi invernali di Sochi e lo stiamo rivedendo coi premi fotografici. D’altra parte le lobby devono fare così se vogliono coronare il loro attivismo col successo.

La propaganda omosessuale, parte della più vasta “ideologia di genere” che sta producendo mostri come il “femminicidio”, ha preso di punta la Russia. Ma anche il mondo arabo e musulmano, dopo la cosiddetta “Primavera araba”, è insidiato dallo stesso soft power.
Bisogna fare molta attenzione alla manovra a tenaglia intentata contro due dei baluardi che si oppongono alla “globalizzazione”: l’Ortodossia e l’Islam.

Che nel loro “cuore” hanno molto più in comune di quanto possono comprendere, stante la loro limitazione intellettuale, tutti i “jihadisti” del mondo. Ne abbiamo visto un esempio nella guerra nell’ex Jugoslavia, quando per ammazzare i serbi ortodossi, adducendo scuse da “guerra santa”, sono arrivati da tutto il mondo islamico i peggiori tagliagole già all’opera in Algeria.
Putin ha più volte fatto riferimento ad una “alleanza” tra Ortodossia e Islam, alla faccia di tutti quelli che vorrebbero tirare la Russia dalla parte dell’Occidente (e lasciando perdere certi assiomi tipici della “destra” più occidentalista).

Che cosa si ritroverebbe la Russia sbilanciandosi in questo modo? Perdendo, per l’appunto, il suo baricentro e tradendo la sua vocazione “eurasiatica”? Le “radici giudaico-cristiane” che vediamo inadeguate a contenere l’ondata dissolutrice che investe tutti i paesi fagocitati dall’occidentalismo come ideologia e modo di vita?

Per questo viene portata continuamente all’attenzione di un pubblico che non sa nulla di Islam “l’omofobia” del preteso Califfato dell’ISIS, come se quello rappresentasse la genuina tradizione islamica.

Certo, un conto è pretendere un minimo di rispetto, nell’ambito intimo e privato, ma da qui – con tutto quel che succede – a propinarci ogni santo giorno occasioni per riflettere sul problema della “omofobia” ce ne corre; al che, il fondato dubbio che si tratti solo di propaganda sta toccando anche molti che, all’inizio, non erano ostili ai cosiddetti “gay”. Basta scorrere i commenti alle “notizie” delle agenzie ufficiali, per rendersi conto che chi è un minimo informato e ragionevole non si beve più le panzane anti-russe e pro-omosessualiste.

E non siamo ipocriti: lo “scandalo” non è mai stato digerito da nessuno (persino da Gesù), ad eccezione dei moderni occidentali, che a ben vedere hanno solo spostato la mira, coerentemente con gli assunti di base di questa nuova pseudo-civiltà, avvertendo come “scandalose” altre manifestazioni pubbliche del pensiero e della propria visione del mondo.

Si fa un gran parlare di “libertà” e “diritti civili”, ma mentre si giustifica e si “legalizza” ogni perversione o follia pura e semplice, si rende “legale” la repressione giudiziaria degli storici non conformisti e s’invoca pari trattamento per gli “omofobi”, senza che, per un’evidente impossibilità a circoscrivere la materia, si riesca a capire bene quali siano i comportamenti sanzionabili.

Tutto ciò è davvero ridicolo e tragico al tempo stesso, perché si vuol coinvolgere la gente in questioni che, di fatto, riguardano infime agguerrite e potenti minoranze spalleggiate dai “poteri forti”, ma allo stesso tempo bisogna approvare entusiasticamente una limitazione alla libertà di ricerca, d’insegnamento e di pensiero, tra l’altro riconosciuta nella “Costituzione più bella del mondo” (artt. 21 e 33). Libertà che riguardano tutti quanti, è bene ricordarselo.

Siamo a tutti gli effetti di fronte ad un inversione dei significati che hanno dato un senso alla vita dell’uomo perlomeno da quando sono misurabili i cosiddetti “tempi storici”. Si proclama la “libertà” ma si studiano nuove “leggi” per reprimerla. Si loda la “bellezza” ma si va in estasi per il brutto (e l’arte moderna è la riprova di ciò). Si eleva “l’amore” nell’empireo delle aspirazioni umane ma si scade nella passionalità e nella carnalità, sulla quale, non a caso, tutte le tradizioni concordano nel definirla come il peggior pericolo per l’essere umano. Sempre che abbia capito che l’unico senso di questa “vita”, tanto declamata a sproposito, non è sguazzare indefinitamente nelle paludi di un “ego” mai sazio di “piaceri”.

Questa è la triste e cruda fotografia della “civiltà occidentale” e dei suoi apologeti. Che – c’è da starne sicuri – quando alla fine si presenteranno a rendere conto del loro operato, non vinceranno alcun Premio.

Enrico Galoppini

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UNO “SBARCO A TRIPOLI” NEL 2015?

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Se il ministro degli Esteri Gentiloni ha ventilato pubblicamente la possibilità di un intervento militare italiano in Libia, un motivo ci sarà.
Questo motivo, proprio mentre avviene nel Canale di Sicilia l’ennesima “strage di migranti”, parrebbe essere il contenimento dei flussi migratori illegali che, da quando è stata spazzata via la Jamahiriyya, sono ripresi a ritmi sempre più intensi.

Per la verità, i “migranti” arrivavano via mare anche quando era in sella il Colonnello Gheddafi, ma è innegabile che, con la Libia sempre più ridotta ad una sorta di Somalia, la situazione, anche per quanto riguarda il traffico di esseri umani, sia diventata praticamente insostenibile.
Oltretutto, con la proclamazione dell’affiliazione di parte della Cirenaica al preteso “califfato” del Levante islamico, i motivi di preoccupazione, dal nostro punto di vista, non possono che aumentare. Non perché i “jihadisti” s’insinuerebbero tra coloro che sbarcano illegalmente in Italia (anche se pure su quest’aspetto è bene non sottovalutare il pericolo), bensì perché essendo il cosiddetto “fondamentalismo islamico” una creatura dei servizi d’intelligence occidentali, bisogna assolutamente tenere d’occhio gli sviluppi in quella che non ha mai smesso di essere, per noi, la “Quarta sponda”.

Intendiamoci, le milizie “islamiste” che hanno preso il controllo di parte della Libia non costituiscono alcun problema dal punto di vista strettamente militare. Per dirla con una battuta, non sono nemmeno in grado di fare il buco nell’acqua del famoso missile lanciatoci da Gheddafi in uno dei momenti di tensione che caratterizzarono le nostre relazioni con quello che, in definitiva, si dimostrò a conti fatti un buon contraente per l’Italia.

E veniamo allora al perché, cent’anni dopo lo “sbarco a Tripoli”, si ricomincia a pensare di riconquistare la Libia o, perlomeno, di far sì che non vi si crei una situazione troppo negativa per i nostri interessi laggiù.

L’attacco proditorio alla Jamahiriyya, che aveva stipulato con l’Italia un accordo magnifico dopo anni di faticose trattative, venne portato unilateralmente dagli Usa e dalla Francia, soprattutto, che utilizzando sul terreno armati locali e reduci da altre “guerre sante” per procura ebbero la meglio dell’esercito regolare. Sullo sfondo, la Turchia, che storicamente non ha mai smesso di puntare al controllo della Tripolitania e della Cirenaica (infatti la guerra del 1911-12 è chiamata “Italo-turca”, ed è bene ricordare che, all’epoca, tutto il resto dell’Africa del Nord era colonizzato da Francia e Inghilterra).

Ora, l’Italia afferma timidamente di voler far qualcosa, “sotto mandato dell’Onu”, perché sa benissimo chi e perché ha voluto fare della Libia un campo di battaglia.
La nostra politica estera è inscindibilmente legata ai successi dell’Eni, che in Libia rischia di essere sempre più estromesso qualora essa finisse nelle mani di un “califfato” made in England.

Dunque, bisogna far qualcosa, su questo non c’è dubbio. Specialmente perché la crisi ucraina e la chiusura del South Stream non inducono all’ottimismo energetico. E se ci aggiungiamo i tentativi di scatenare una “primavera” o una “ribellione” in Algeria, tutti prontamente sedati dall’esercito, il quadro è sufficientemente preoccupante.

Ma la domanda principale che a questo punto dovremmo porci è la seguente: se non siamo stati in grado, nel 2011, quando eravamo in una posizione di forza, di far valere il nostro punto di vista, come faremo, questa volta, ad imporre la nostra linea contro chi – è sempre bene ricordarselo – detiene sul nostro territorio oltre cento basi ed installazioni militari?
Dio non voglia che, sotto gli squilli di tromba di un ostentato “orgoglio nazionale”, l’Italia si accodi, un’altra volta, ad un ruolo da comprimario, dilapidando soldi e, chissà, pure vite umane, per realizzare l’ennesimo autogol.

Enrico Galoppini

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UCRAINA

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Quanto accaduto nell’ultimo anno in Ucraina rappresenta essenzialmente una manifestazione storica del paradigma dialettico fra i tre principali attori dello scenario geopolitico che ha fatto seguito alla Guerra Fredda: la Russia, il Nordamerica e l’Unione Europea. Comprendere le vicissitudini politiche e militari che stanno attualmente interessando le regioni ucraine, soprattutto quelle bagnate dal Mar Nero e confinanti coi territori russi, significa in primo luogo dover ricercare un nesso logico tra le vicende storiche, politiche e sociali che caratterizzano l’ontologia di tutti gli attori coinvolti, prima fra tutti l’Ucraina.

Le manifestazioni e i tumulti di piazza esplosi circa un anno fa nel centro di Kiev, utilizzati (e in buona parte ispirati) dall’Occidente al fine di estendere la propria influenza egemonica, altro non sono che la più recente manifestazione politica di una convivenza difficile, durata anni, per non dire secoli, tra popoli e culture eterogenee. Per secoli infatti il territorio ucraino, in relazione al quale troppo presto e troppo disinvoltamente si è parlato di “nazione ucraina”, è stato attraversato da popoli appartenenti a diverse culture: Mongoli, Polacchi, Austriaci e infine Russi. D’altronde l’etimologia ci ricorda che il toponimo Ucraina significa “terra al limite” o “terra di frontiera”. Inserita nel contesto sovietico, l’Ucraina fece parte di una realtà geopolitica ben definita e si vide assegnato un ruolo di avamposto naturale dell’URSS. In seguito alla Seconda Guerra Mondiale, lungo lo spiegarsi degli eventi della Guerra Fredda, Stalin intraprese una serie di deportazioni di gruppi di popolazione russa per concentrarli nella parte orientale e sudorientale del territorio ucraino. Si trattava in sostanza di un’operazione di rafforzamento della frontiera sovietica, mediante la creazione di un fronte russofono in grado di proteggere l’URSS dal potenziale invasore occidentale. Così anche l’Ucraina, come tutti i paesi dell’Europa dell’Est, riuscì a trovare una sorta di stabilità e di equilibrio.

Oggi l’Ucraina costituisce per la Russia un’occasione storica per affermare la sua sovranità. La questione ucraina rappresenta infatti la fase più recente dell’avanzata della NATO nella parte d’Europa che si era trovata sotto il controllo sovietico. Putin deve tracciare la sua linea rossa, per recuperare alla Russia quella dignità e quella sovranità che i suoi predecessori negoziarono con l’Occidente, confidando con eccessivo ottimismo nelle sue promesse.

Un’Ucraina all’interno dell’Unione Europea significa un’Ucraina perfettamente inserita nella NATO, ossia nelle trame della politica statunitense. Come si può permettere che al nemico storico del Patto di Varsavia vengano concessi oltre duemila chilometri di frontiera indifendibile? Scendere in piazza per stringere trattati con l’Unione Europea allentando i rapporti con Mosca significa aderire al progetto di allargamento della NATO ad est, che gli Stati Uniti stanno attuando fin dal 1991.

“Il rapporto USA-Russia è fallito perché l’Occidente non ha mai capito che non poteva trattarci da sconfitti. Primo, i russi non hanno mai creduto di essere stati sconfitti. Secondo, è il nostro carattere nazionale. Noi siamo una delle pochissime nazioni al mondo che non sono mai state sconfitte”. Questo è quanto afferma lo stratega russo Sergej Karaganov per spiegare l’atteggiamento di Putin nei confronti di Jevromajdan.

Per capire a fondo la posizione di fermezza assunta a riguardo della Crimea occorre ricordare le considerazioni del politologo russo Sergej Mikheev: “I Russi – dice Mikheev – sono delusi dall’Occidente. I Russi hanno distrutto l’URSS e si aspettavano maggiore riconoscenza. L’Occidente si è invece comportato come se avesse vinto la guerra fredda e come se noi fossimo un paese sconfitto, i cui interessi nazionali non avevano alcuna importanza”.

Si aggiungano le parole di Putin: “Ci era stato promesso che dopo l’unificazione della Germania la NATO non si sarebbe espansa verso oriente.(…) La nostra decisione sulla Crimea è stata in parte prodotta da questo”.

Il 16 marzo 2014 la Crimea, regione a schiacciante maggioranza russa e legata a Mosca da storia, radici, interessi economici, ha votato quasi all’unanimità la secessione dall’Ucraina. Questo è un fatto, a prescindere dagli interrogativi attinenti la legittimità giuridica del referendum che lo ha determinato. Il diritto internazionale, questione di prassi più che di leggi scritte, è abbastanza chiaro nello stabilire che un cambio di governo è un dato di fatto dal momento che ha avuto successo. Quello che appare meno chiaro è se l’intervento russo in Crimea e il successivo referendum siano stati legittimi oppure no. A conti fatti importa poco, dal momento che essi hanno provocato una situazione di fatto.

In ogni caso, dopo ventiquattro anni di appartenenza della Crimea all’Ucraina, il 96% degli abitanti della penisola ha scelto il ritorno alla Russia. Secondo molti, tra cui il politologo russo Fedor Lukjanov, una Crimea annessa all’Ucraina rappresentava un “tragico errore storico” e così sembra pensarla oltre il 40% dei diretti interessati.

Sembra opportuno interrogarsi a questo punto sugli effetti che produrranno le sanzioni imposte alla Russia. Anche ammettendo che il Cremlino neppure immaginasse quali sarebbero state le ritorsioni dell’Occidente alla sua decisione di annettere la Crimea e sostenere la popolazione russa dell’Ucraina, chi colpiscono realmente queste misure sanzionatorie? Si tratta di penalizzazioni essenzialmente economiche che provocano la svalutazione della moneta russa e che hanno come unico vero effetto quello di costringere la Russia ad avvicinarsi ulteriormente a Pechino. I sondaggi mostrano che negli anni Novanta circa il 90% dei Russi ammirava gli Stati Uniti e che la Russia unita puntava a diventare il terzo pilastro in Occidente dopo Europa e Stati Uniti. Oggi neppure il 10% del popolo russo vede di buon occhio gli USA e, mentre la popolarità di Barack Obama è in calo vertiginoso, quella di Vladimir Putin in Russia è in netto rialzo.

Alessandro Gatti

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LA GUERRA POST EROICA E COGNITIVA NEI SOCIAL NETWORK

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Nel mondo multipolare ed iperconnesso si sono sviluppate forme diverse di contrasto agli avversari, ingenerando nuovi terreni di scontro. Uno di questi sono i social network, inizialmente luoghi virtuali di incontri e scambi di opinione, ora assurti al ruolo di informazione ma anche di controinformazione. Distinguere i tratti corretti da quelli che intendono sviare la realtà è estremamente complesso, soprattutto se l’inganno è architettato da professionisti. La negazione dei dati, intesi come territorio inviolabile di uno Stato sovrano, piuttosto che di una organizzazione transnazionale quanto di una azienda privata, passa per la guerra cognitiva, od anche per la guerra post-eroica. Le operazioni psicologiche saliranno di livello con i Facebook Warriors voluti dallo spionaggio britannico. I nuovi soldati della disinformazione sono inquadrati nel 77° Battaglione dell’esercito inglese come unità delle Forze Speciali. Si tratta di personale altamente addestrato per operazioni complesse e coperte che tendono allo sviluppo di strumenti adatti all’inganno, ma anche alla distruzione, alla degradazione ed all’usurpazione delle reti di mappature, come precisato in un documento dell’USAF. Una delle tattiche con la quale combatteranno è definita “controllo del riflesso” e consiste nel confezionare ad arte informazioni false, in tal modo da indurre il bersaglio a reazioni già previste e programmate. Una sorta di battaglia combattuta su Facebook e Twitter, dove verranno diffuse disinformazione e verità abilmente mescolate tra loro, in modo che gli utenti non possano capire dove è celato l’inganno. I Chindits del 77° Battaglione, così denominati a ricordo dell’unità partigiana che operò in Birmania dal 1942 al 1945, diverranno operativi dall’aprile 2015 ed il raggruppamento sarà composto da 1500 guerrieri dello spazio virtuale.

La guerra cognitiva è un passaggio da quella di annientamento al nuovo concetto di operazioni diverse dalla guerra classica; i rischi di tale passaggio, che potrebbe ingenerare effetti psicosociali imprevedibili in cui la sicurezza dell’individuo non sarebbe garantita, sono paragonabili a quelli di un conflitto nucleare. Una non-guerra combattuta nello spazio virtuale, dove la vittoria è più rappresentativa di uno scontro militare, oppure, citando Luttwak, guerra post-eroica. Quest’ultima probabilmente non potrà prescindere dal sistema finanziario e dallo sviluppo tecnologico, in particolare da quello applicato al commercio ed ai servizi. Le armi informatiche potranno essere le capacità e le identità civili. L’obiettivo della disinformazione si prefigge non la distruzione dello Stato avversario, ma un’azione psicologica contro il nemico nel suo stesso territorio. Una politica della comunicazione volta a demotivare il competitore, ma a lasciare intatte le loro risorse. Un concetto antico, che risale a Sun Tzu, ignorato nelle guerre convenzionali, ma ripreso nel mondo contemporaneo, dove salvaguardare le risorse tecnologiche e naturali dell’antagonista rappresenta la nuova filosofia della conquista. La guerra dell’informazione del 77° Battaglione si prefigge operazioni sulla psicologia sociale, ossia intende influenzare emozioni e motivazioni dell’antagonista in modo da poterne controllare e prevenire i comportamenti. Questo scenario avrà come risultanza una necessaria crescita del controllo della sicurezza interna, rendendo sovrapponibili i concetti di sicurezza e difesa. L’obiettivo del controllo dell’informazione è ledere il sistema cognitivo, dunque non più il corpo ma la mente, e quindi instaurare una percezione dell’identità alterata di una persona o di una organizzazione. La risultanza sulla distribuzione di immagini, simboli od informazioni, che produrranno i Facebook Warriors, rappresenta una forte incognita; infatti è prevedibile, ma non certa, la decodifica che i ricettori assegneranno ai singoli eventi creati dalle Forze Speciali britanniche: in base al retaggio culturale, alle credenze religiose, al ceto sociale di appartenenza, alla condizione economica personale ed alla società in cui vive, ogni singolo soggetto bersaglio avrebbe una diversa percezione della falsa realtà mediatica che gli verrà imposta, dunque le reazioni potrebbero non essere quelle pianificate dagli inglesi e le implicazioni sarebbero imperscrutabili. Di fatto, gli effetti alle azioni di manipolazione cognitiva occasionerebbero risvolti molteplici e non determinabili. Una minaccia che si estenderebbe a tutte le Nazioni, anche a quelle dalle risorse economiche e tecnologiche non sviluppate. Pericolo che aumenta esponenzialmente in quei Paesi dalla scarsa omogeneità nazionale o fortemente divisi fra etnie culturali e religiose. Con l’ausilio della guerra cognitiva si può tendere anche a rallentare lo sviluppo di una Nazione evoluta distruggendo le sue tecnologie, un vantaggio competitivo di peso specifico importante nel contesto della guerra post-eroica. Per bilanciare gli squilibri regionali e globali, è stata ipotizzata anche la deterrenza nucleare: ossia creare una compensazione fra Stati basata sulle armi di distruzione di massa che possa trasmutarsi in un equilibrio cognitivo. La parificazione nucleare non escluderebbe in ogni caso le ingerenze della disinformazione, ma si annullerebbe nelle micro conflittualità regionali, le cui cause a volte sembrano distanti dalle logiche dominanti dei Paesi tecnologicamente ed economicamente avanzati. La proliferazione nucleare di un singolo Stato, avrebbe un forte impatto sulla società della Nazione stessa, con il rischio della nascita di gruppi dalla forte identità, pervasi da un super-io tale da indurli ad accettare la distruzione totale e dunque di loro stessi, come strumento razionale per raggiungere il fine prefissato.

Nella guerra cognitiva della disinformazione, non dovrebbero verificarsi perdite umane, da qui il concetto di post eroica, ossia l’assenza di forze militari sul campo non ingenererà vittime, ed ovviamente non potranno essere perpetrati atti di eroismo che condurranno al sacrificio gli eroi stessi. Pertanto si configurerebbe la possibilità di etichettarla come guerra giusta. Tale concezione è ricordata da Roland Bainton nel citare Platone: per poter essere considerata giusta, deve avere come obiettivo la rivendicazione della giustizia ed il ristabilimento della pace. Dove, però, l’applicazione della giustizia sia equa, i diritti dei vinti non siano lesi e la pace non sia negativa. Come descritto dal giurista Carl Schmitt, la “justa causa”, non deve prescindere dallo “justus hostis”. Il nemico non è inumano e non può essere combattuto con ogni mezzo, perciò dovrà essere affrontato come un individuo fornito di pari diritti, contro il quale è necessario limitare l’uso della forza, sia fisica che mentale. Inoltre, la dottrina dello “jus in bello” contempla la discriminazione degli obiettivi, in quanto ledere il commercio e l’economia dell’avversario coinvolge non solo l’Industria della Difesa, bensì i cittadini e non ultimo il Paese neutrale che intrattiene rapporti commerciali con il nemico. Anche Norberto Bobbio ha affrontato la teoria della guerra giusta nel profilo della giurisprudenza, sottolineando che in tal caso è necessaria una distinzione fra un processo di cognizione ed uno di esecuzione. Nel secondo caso, la guerra è intesa come pena o come sanzione da comminare al nemico, e l’atto di belligeranza è esaltato nella forza che dunque si pone al servizio del diritto. Nel processo di cognizione, le operazioni militari trovano il loro limite in quanto non adatte a discriminare il giusto dall’ingiusto; manca infatti un attore al di sopra delle parti che possa giudicarne i criteri di esecuzione, in quanto la guerra è giusta per entrambi i contendenti. Di fatto, la non discriminazione dei soggetti bersaglio tende a discostare la guerra giusta da quella cognitiva.

Giovanni Caprara

Bibliografia:
Emilio Marco Piano, “L’esercito UK arruola migliaia di Facebook Warriors per disinformare”. The Globalist, 2015
Roberto Di Nunzio: “Conseguenze sulla sicurezza interna della guerra dell’informazione”. Gnosis.
Luca Bellocchio: “Relazioni internazionali e politica globale”.
Michael Walzer, “Just and injust war”- New York Basic Books, 1977.
Giuseppe Pili, “La guerra come attività culturale” – Polemos, 2014.
Andrea Salvatore, “Schmitt e la teoria della guerra giusta” – Behemoth, n. 40 (2009)
Norberto Bobbio, “Il problema della guerra e le vie della pace” – Il Mulino, 2009.

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L’ORIENTALISTA GUERRIERO. OMAGGIO A PIO FILIPPANI-RONCONI. A CURA DI A. IACOVELLA, IL CERCHIO, RIMINI 2011

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Se c’è una cosa che non viene perdonata ad un docente universitario di Storia delle Religioni è questa: avere una visione spirituale della vita, che si traduce in un’immedesimazione simpatetica con l’oggetto di studio.

Se a questo si va a sommare l’essere “dalla parte sbagliata”, il quadro è completo. La demonizzazione e l’ostracismo di gran parte dei colleghi – per giunta invidiosi – e di gran parte del cosiddetto “mondo della cultura” sono assicurati.

E cosa importa se il reprobo conosce decine di lingue, alcune tra le più ostiche ed impenetrabili, sapendosi tra l’altro esprimere oralmente in idiomi assai lontani in occasione di convegni e conferenze internazionali…
Roba da lasciare di stucco gli astanti, per non parlare degli studenti, naturalmente i meno superficiali, letteralmente ammaliati dal “sacro fuoco” della Conoscenza che promanava dal conte Pio Filippani-Ronconi.

Filippani-Ronconi (1920-2010) non era uno semplice studioso delle religioni, o meglio delle dottrine e, soprattutto, delle discipline orientali come tutti gli altri.

Era L’Orientalista guerriero, come viene ricordato in un “omaggio” curato da Angelo Iacovella e pubblicato dalle Edizioni Il Cerchio di Rimini.

“Orientalista”, perché stiamo parlando dell’autore d’importantissimi studi sul Buddismo, l’Induismo, lo Yoga, il Pensiero cinese, l’Ismailismo, lo Zoroastrismo… Nonché di traduzioni di testi sacri e sapienziali delle suddette tradizioni. Ma non solo.

Proprio perché in Filippani-Ronconi era costantemente presente l’anelito a rivitalizzare – penetrando l’oggetto di studio – un’esperienza “mistica” alla portata dell’uomo occidentale contemporaneo e a riprodurre quindi la condizioni adatte per una sua specifica “via realizzativa”, egli si dedicò anche alla comprensione della spiritualità, della visione del mondo, dei popoli italici pre-romani, come gli Umbri. E, osserviamo di passata, non è senza significato che proprio l’Umbria, abbia dato i natali al Santo patrono d’Italia…

In altre parole, lungi dal voler confinare l’attività di “orientalista” nella palude dell’erudizione fine a se stessa, Filippani-Ronconi ne fece lo strumento per indagare – senza “orientalizzarsi” – le possibilità che le stesse dottrine e discipline orientali potevano offrire a chi, come lui, anelante all’Assoluto, non se la sentiva di “convertirsi”.

In realtà, da quanto emerge anche solo da questa raccolta di saggi e ricordi di chi ebbe la ventura di conoscerlo (1), il Conte, nato in Spagna da antica famiglia aristocratica italiana, seguiva una “sua” via, segnata essenzialmente dall’Ortodossia cristiana e da un ‘sodalizio dell’anima’ con Massimo Scaligero, che aveva – a suo avviso – mostrato delle possibilità più congeniali allo specifico “sentire” degli occidentali, interpretando a sua volta la lezione di Rudolf Steiner.

È noto che – pur non esprimendo giudizi trancianti come per altre correnti “spiritualiste” – Julius Evola non aveva un’eccessiva stima dell’Antroposofia (2), mentre Filippani Ronconi nutrirà sempre un grande rispetto per il Barone, tributandogli un bello scritto nel volume collettaneo Testimonianze su Evola, pubblicato nel 1973 (3).

Quanto a Guénon, prediligendo “la via dell’azione” l’orientalista guerriero si doveva sentire in un certo qual modo distante dalla via tracciata dal metafisico francese entrato in Islam, ma non “convertito” (punto, questo, essenziale per capire la sua “equazione personale”, per dirla con Evola).

Ma al di là di questo, oltre il sentiero indicato da questo o quel Maestro contemporaneo del filone “tradizionale”, resta il fatto che Filippani-Ronconi non diventò mai, pur conoscendolo profondamente e direttamente, un “patito dell’Oriente”, se con “Oriente” s’intende la pura e semplice assimilazione di un’altra “mentalità”. Anche perché – e qui gli non gli si può dare torto – uno non può diventare quello che non è.

Dunque, se occidentali siamo, e tali resteremo, Filippani-Ronconi, abbeverandosi alle fonti della “filosofia perenne” ancora accessibili in Oriente, intendeva trasfondere nuova linfa ad una Tradizione occidentale ancora riattivabile, naturalmente in forme nuove, “sintetiche”, e non seguendo certe mode “neopagane” al limite della ‘archeologia spirituale’ (con tutti i pericoli che ne derivano).

In fondo, il problema se l’era posto anche lo stesso René Guénon, se solo ci si va a rileggere la raccolta di scritti per le riviste “Atanòr” e “Ignis”, pubblicati tra gli anni 1924 e 1925, e che testimoniano – attraverso la collaborazione con Arturo Reghini – la plausibilità della ‘ipotesi di lavoro’ perseguita da chi non vede per gli occidentali altro che l’assorbimento puro e semplice da parte dell’Oriente (4).
Stabilito che per “occidentale” qui non s’intende un equivalente di “moderno”, la ricerca d’una “realizzazione” più adatta alla situazione psichica dell’uomo moderno occidentale è un problema tragicamente concreto che non può essere risolto adottando acriticamente e pedissequamente persino gli usi e i costumi d’altri popoli…

Si tratta in poche parole di trovare un equilibrio, consci tuttavia che gli occidentali (e qui il termine è da intendersi in ogni accezione) versano in un disperato bisogno di aiuto.

Di qui l’interesse di Filippani-Ronconi per l’Oriente e le sue forme del sacro, sempre considerate dal punto di vista archetipico, allo scopo di assorbire gli aspetti vivi ed operativi delle relative dottrine e discipline.
Il problema della rivivificazione dell’Occidente, che da tempo versa in uno stato comatoso e, addirittura, sta contagiando anche l’Oriente, è forse uno dei dilemmi più cogenti della nostra epoca. Se non vi si metterà mano assisteremo infatti ad una china sempre più dolorosa e distruttiva, al termine della quale vi sarà la nostra scomparsa pura e semplice di questa umanità.

Con ogni probabilità, il “problema dell’Occidente” sta iscritto nel destino di Roma. Per questo motivo, Filippani-Ronconi, che considerava l’estinzione del Fuoco Sacro dell’Urbe il prodotto d’un malinteso “Cristianesimo”, esordì nella pugna spiritualis proprio alle porte di Roma, sul litorale di Anzio, inquadrato, giovane volontario, nei reparti d’assalto germanici più spericolati e sprezzanti della morte. Pugnale tra i denti e via, contro i barbari invasori.

L’orientalista”, dunque, nasce come “guerriero”, non smettendo praticamente mai di combattere. Lo s’intende benissimo dallo scritto, di suo pugno, che chiude il presente libro, intitolato La guerra.

Chi non s’accontenta di una conoscenza superficiale da ostentare in pubblico sa benissimo che “si può affermare di conoscere veramente soltanto ciò che si diventa o ciò in cui ci si trasforma, in virtù di un moto interiore che conferisce alla realtà, altrimenti disanimata, un significato conforme all’io che con essa si congiunge e la fa propria” (5).

Di Filippani-Ronconi, conoscendo egli e l’Oriente e la guerra, si può dire, come minimo, che è stato fedele a questa aurea ed essenziale regola di vita.

Enrico Galoppini

NOTE
1) Per i dettagli dei contenuti del libro si rimanda alla scheda del sito delle Edizioni Il Cerchio: http://www.ilcerchio.it/l-orientalista-guerriero-omaggio-a-pio-filippani-ronconi.html.
2) Cfr. J. Evola, Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo, Ed. Mediterranee, Roma 1990, pp. 91-105 (ed. or. 1932).
3) P. Filippani-Ronconi, Julius Evola: un destino. In: AA. VV., Testimonianze su Evola, Ed. Mediterranee, Roma 1985, pp. 118-124 (ed. or. 1973).
4) Cfr. R. Guénon, Il risveglio della tradizione occidentale. I testi pubblicati in Atanòr e Ignis, a cura di M. Bizzarri, Atanòr, Roma 2003.
5) A. Iacovella, Materiali per servire a una “biografia immaginale” di Pio Filippani-Ronconi, a p. 15 del libro che stiamo recensendo.

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