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KOSOVO MONITO PER L’EUROPA

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KOSOVO MONITO PER L’EUROPA – Aviani & Aviani Editori, Udine 2014. Euro 15,00

Il presente libro apre la Collana “Geopolitica, Storia e Diritto”, dell’Associazione “Historia” Gruppo Studi Storici e Sociali Pordenone. Il materiale dell’Associazione, una raccolta di registrazioni video e audio e di testi, sono disponibili gratuitamente sul sito www.eurohistoria.eu (M. Cacciari, L. Caracciolo, A. de Benoist, I. Diamanti, F. Cardini…).

La storia dei Balcani e del Kosovo è stata lo spunto per una serie di riflessioni, che vanno oltre l’area balcanica, coinvolgono l’Europa intera e gli attuali equilibri geopolitici.

Il Kosovo, come capitolo del dramma balcanico, una miscela esplosiva di odio etnico-religioso e di nazionalismo totalitario: dalla dominazione turca alla dissoluzione della Jugoslavia, compreso il dramma delle “foibe”, che per decenni è stato rimosso dalla nostra memoria storica.
Il Kosovo, come guerra “umanitaria” quindi ipocrita. Infatti, tutte le guerre “umanitarie” che l’Occidente (Stati Uniti e Unione Europea) combatte e le pressioni politiche che lo stesso esercita, sono rivolti alla tutela di precisi interessi politici o al rovesciamento di governi che non si piegano all’egemonia occidentale: la Serbia, la Libia, l’Iraq, l’Afghanistan, la Siria, l’Ucraina e la Russia di Putin.
Il Kosovo, come precedente giuridico e politico per la secessione delle micro patrie: Veneto, Catalogna, Scozia, Ossezia e Crimea. Un effetto domino dagli esiti imprevedibili.
Il Kosovo e tutta la tragedia balcanica, rappresentano un monito per l’Europa, che potrebbero dissolversi per effetto dell’islamizzazione e della globalizzazione.

La globalizzazione genera una crisi ecologica, politica, sociale ed economica dagli esiti imprevedibili. In Europa la crisi politica e socioeconomica provocata dalla globalizzazione potrebbe minare l’unità dell’Europa e dei singoli Stati che la compongono, attraverso: l’ascesa dei partiti “euroscettici” (Francia, Grecia, Ungheria, Gran Bretagna, ecc.) le rivalità tra le nazioni (nazioni virtuose contro nazioni indebitate) il regionalismo separatista (veneto, catalano e scozzese).

Le crisi politiche, sociali ed economiche indotte dalla globalizzazione e lo scontro di civiltà tra Islam e Occidente, la rinascita della Guerra Fredda tra Russia e Occidente, tracciano uno scenario apocalittico, che non segnerà la scomparsa del genere umano, ma solo la fine del modello neoliberista, del primato degli Stati Uniti come unica superpotenza mondiale e forse la sconfitta dell’islamismo radicale che minaccia la pace mondiale. Tutto questo costerà milioni di morti, l’emergere di nuovi equilibri geopolitici e forse la nascita di una nuova civiltà. La nostra è un’epoca di profonde trasformazioni, quale sarà l’esito nessuno, può dirlo, troppi sono gli elementi in gioco e spesso i tempi della storia non coincidono con la nostra capacità di comprensione e di reazione. La caduta del comunismo, la dissoluzione della Jugoslavia, la Primavera Araba e la crisi economica che stiamo vivendo, sono eventi di cui nessuno aveva previsto i tempi e gli esiti.

Viviamo nell’illusione che la pace e il benessere di cui godiamo siano condizioni immutabili, convinti che la miseria e la guerra appartengano al passato o ad altri Paesi. Purtroppo non è così. La cronaca quotidiana, spesso riporta il suicidio di disoccupati e d’imprenditori che hanno visto fallire la propria azienda, o sono costretti a chiuderla per non fallire. Per la prima volta dal dopoguerra, le generazioni presenti sono condannate a vivere in condizioni peggiori di quelle dei loro genitori o nonni. Nell’ex Jugoslavia, ai confini della nostra “pacifica” Italia si è consumata la recente tragedia balcanica. La nostra terra porta i segni della fame e della guerra, basta soffermarci sulle migliaia di monumenti che ricordano le vittime delle guerre mondiali, oppure riflettere sulle testimonianze di miseria e di emigrazione, raccontate dai nostri padri e dai nostri nonni. I Balcani insegnano: la storia è maestra di vita, si ripete come l’eterno ciclo delle stagioni, anche se in modo imprevedibile e diverso dal passato.

Non dobbiamo temere la fine di questa Europa, asservita alle oligarchie politico-finanziarie (la Troika e le banche), complice della politica imperialista degli Stati Uniti; ma sperare nella nascita di una nuova Europa, federalista, rispettosa dei valori tradizionali (Dio, Patria e Famiglia) legata alla decrescita come modello economico (unica alternativa alla crisi generata dal modello neoliberista). Un Europa che guardi al mondo slavo-ortodosso come principale alleato e partner commerciale. Nascerà l’Eurasia?

Profilo dell’Autore

Giorgio Da Gai è nato a Conegliano (Tv) si è laureato in Scienze Politiche presso l’Università’ di Padova ed ha conseguito il master della Regione Veneto per Tecnico Amministrativo Polifunzionale con Competenze per l’Export in Europa Orientale. Nel 1994 ha pubblicato il libro: Immigrazione extracomunitaria tra realtà e demagogia, Zoppelli Editore, Dosson (TV). Negli anni 90 ha collaborato con le riviste Magnum Magazine e Armi Magazine, C.A.F.F. Editrice. Opinionista del periodico Il Piave, cura gli inserti dedicati alla geopolitica e collabora con l’Associazione Historia Gruppo Studi Storici e Sociali Pordenone. Attualmente lavora presso la Pubblica Amministrazione.


SUD SUDAN. UNO STATO FALLITO GIÀ IN PARTENZA

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Nonostante l’ultimo accordo del 9 maggio scorso, nel Sud Sudan continua – come era prevedibile – la spirale di violenza. La popolazione seguita a scappare dalle città e la speranza sembra essersi infranta su uno spesso muro di interessi (nazionali e internazionali), particolarismi e constrasti. Quale potrebbe essere il cambiamento possibile? E cosa potrebbe concretamente fare la comunità internazionale per provare ad incanalare il giovane Paese verso un binario che lo conduca alla pace?

Il nove maggio scorso si era accesa una nuova flebile speranza sui cieli del giovane Stato del Sud Sudan. I due leader delle fazioni in lotta, il presidente Salva Kiir e il suo ex vice Riek Machar (oggi alla guida dei ribelli) avevano infatti sottoscritto un impegno per la cessazione delle ostilità. L’accordo, sottoscritto ad Addis Abeba, alla presenza del premier etiope, Hailemariam Desalegn, sottolineava che “un governo di transizione offre le migliori possibilità per il popolo del Sud Sudan” in vista di prossime elezioni, la cui data non è stata però specificata. Inoltre si auspicava “l’apertura di corridoi umanitari e la cooperazione con le agenzie e l’Onu per garantire gli aiuti in tutte le zone del Paese”.

La luce della speranza si è però subito spenta visto che a più di un mese dall’accordo di tregua, i fucili non hanno mai smesso di sparare mentre la popolazione continua a fuggire dai combattimenti. Il numero degli sfollati interni è aumentato di 46mila persone arrivando a 1.005.096. Nello stesso periodo, il numero di rifugiati sud sudanesi in Etiopia, Kenya, Sudan e Uganda è salito di oltre 20.000 persone raggiungendo quota 370mila.
Attualmente è l’Etiopia a ospitare la maggiore concentrazione di rifugiati sud-sudanesi (ben 131.051), prevalentemente donne e bambini. I nuovi arrivati riferiscono di essere fuggiti dai combattimenti che imperversano negli Stati confinanti di Jonglei e dell’Alto Nilo e in quest’ultimo, in particolare, nell’area di Mathiang nella contea di Longechuk. Le persone provenienti da altre zone hanno dichiarato di temere attacchi imminenti o una situazione di insicurezza alimentare.
C’è dunque una grave crisi umanitaria che rischia di far precipitare il Paese in una nuova guerra civile.

Durante una visita ufficiale ai primi di aprile a Juba, l’Alto commisario Onu per i diritti umani, Navy Pillay, ha denunciato i gravi crimini di guerra commessi dai ribelli e dai soldati governativi. Secondo Pillay, oltre 9.000 bambini combattono tra le fila delle due formazioni in campo che si affrontano da metà dicembre. Per di più, circa 32 scuole sono nelle mani delle truppe dei due schieramenti e numerose donne e ragazze sono state violentate o rapite. L’Alto commissario ha inoltre affermato che i leader di entrambe le parti sono indifferenti al rischio di carestia che minaccia il Paese. Pillay, che ha incontrato il presidente Salva Kiir e il suo ex vicepresidente Riek Machar, si è detta “inorridita” da questa indifferenza. “La prospettiva di infliggere la fame e la malnutrizione su larga scala a centinaia di migliaia di loro concittadini non sembra toccarli in modo particolare” – ha denunciato. Preoccupazione è stata espressa anche dal consigliere speciale dell’Onu per la prevenzione dei genocidi, Adama Dieng, che ha affermato che l’Onu non permetterà che un genocidio come quello avvenuto in Ruanda nel 1994 si ripeta in Sud Sudan.

L’incitamento all’odio” e le uccisioni per “motivi etnici” in Sud Sudan fanno temere che “questo conflitto sfoci in una grave spirale di violenza fuori controllo“. A sua volta, il segretario Ban Ki-moon ha affermato che “farà in modo che ciò che è successo in Ruanda non accadrà mai più su questo continente“.
Affermazioni che lasciano il tempo che trovano. La realtà è un’altra. L’Occidente, guidato dagli Stati Uniti, ha premuto per la creazione del Sud Sudan, ricco di petrolio, quando non ce n’erano i presupposti. E ora la comunità internazionale si trova a fronteggiare un nuovo conflitto civile in Africa.

Per meglio comprendere il quadro devastante di questo giovane Paese, è essenziale fare un passo indietro, estraendo dal fango della guerra le ragioni della sua attuale destabilizzazione.
Il Sud Sudan è nato il 9 luglio del 2011. Un’indipendenza sofferta, che ha lasciato molte questioni aperte: non solo i punti “caldi” con il vicino di casa – il Sudan – ma anche quelli “vitali” per promuovere reali prospettive di pace, sicurezza, sviluppo e democrazia nel Paese.
Per tanto tempo, l’attenzione del governo di Juba si è concentrata sul contenzioso con Khartoum: Abyei e la ripartizione dei proventi petroliferi nelle altre zone contese. E mentre si discuteva di “oro nero”, raffinerie, oleodotti, si trascuravano i reali problemi del Paese, come la povertà e l’emergenza umanitaria. Così, non ci è voluto molto tempo prima che la corda si spezzasse.

Oggi, l’economia del Paese è ad un passo dal collasso e il rischio di una nuova guerra civile dietro l’angolo.
Prossimo al fallimento, il Paese non ha altra scelta che rivedere le sue priorità politiche, economiche e sociali in una prospettiva di medio-lungo periodo. Ci sono tante cose da fare, come ad esempio concentrare più risorse nelle spese sociali. Oggi penalizzate da politiche di rigore e dall’assoluta priorità data alla politica di sicurezza e difesa. Oppure coinvolgere in maniera più attiva le principali parti sociali nei processi decisionali, rafforzando il processo di decentramento. E ancora porre maggiore attenzione al principio di sostenibilità ambientale che deve attraversare le diverse politiche di sviluppo (da quella oggi prioritaria legata al petrolio, a quella agricola – legata alla gestione delle risorse scarse come l’acqua e i suoli fertili, industriale e dei trasporti). In assenza di tale impegno, il rischio è che a pagare siano anzitutto le fasce più vulnerabili della popolazione: donne, bambini, migranti e popolazioni dedite alla pastorizia.

Ma quali possono essere le prospettive per un futuro più roseo per il Sud Sudan?
L’Africa Growth Initiative (AGI) della Brookings Institution ha recentemente promosso una discussione sul tema, avanzando una serie di priorità da considerare per l’immediato futuro (1) .
In un Paese in cui meno di 400 bambine all’anno completano la scuola secondaria, è necessario un grande sforzo (la “grande spinta”) sul fronte dell’investimento socio-sanitario, oltre che economico: si tratta di dare risposte immediate al fabbisogno non soltanto di infrastrutture fisiche, ma anche sociali. Secondo i dati 2011 dell’UNESCO, c’è un solo insegnante qualificato ogni 117 studenti, mancano aule e libri scolastici e non investire – da parte del governo ma anche con la cooperazione allo sviluppo – significa perdere una generazione, indipendentemente dalla ricostruzione post-bellica. L’alfabetizzazione e l’istruzione sono strumenti nelle mani del popolo per la sua emancipazione. Spesso, i regimi africani e non solo vedono nell’ignoranza delle masse lo strumento privilegiato del loro potere.
Secondo il piano di sviluppo del 2011-2013 (South Sudan Development Plan 2011–2013), nel 2011 ben il 28% del bilancio pubblico è stato allocato alla sicurezza, contro il 4% alla sanità e il 7% all’istruzione. Nel 2012 – a seguito delle misure di austerità – sicurezza e difesa dovrebbero arrivare a pesare per il 50% del totale, mentre salute e istruzione scendere rispettivamente al 2 e al 5% del bilancio, come pure perde priorità l’impegno, invece strategico, per la finanza locale e il decentramento.

La comunità internazionale ha più volte sollecitato il governo di Juba a investire i proventi del petrolio nello sviluppo sociale ed ambientale. Alla fine del 2011, il presidente del Sudan meridionale, Salva Kiir Mayardit, aveva addirittura annunciato l’imminente adesione del Paese, su base volontaria, all’iniziativa internazionale per una maggiore trasparenza e responsabilizzazione in materia di gestione dei proventi petroliferi, l’EITI (Extractive Industries Transparency Initiative) promossa in particolare da Tony Blair a inizio degli anni Duemila. Nell’aprile 2012, però, il parlamento di Juba votò contro la trasparenza e l’accesso pubblico alle informazioni relative ad appalti e contratti petroliferi.
La corruzione è un grave problema, ma non c’è alcuna volontà a porne un freno. Né da parte delle autorità sud-sudanesi, che si intascano le mazzette delle multinazionali, né da parte dei Paesi occidentali, che usufruiscono e comprano a prezzi irrisori il greggio.

In particolare, in Sud Sudan si gioca la partita tra Stati Uniti e Cina, in competizione per la spartizione del continente nero. Pechino è in vantaggio, Washington arranca e cerca di oltrepassare l’avversario con sgambetti e quant’altro. La Cina assicura al governo di Juba l’ 80% delle esportazioni di greggio, quantità considerata vitale per lo sviluppo industriale ed economico dell’ “Impero di mezzo” e per il sostegno finanziario del governo africano. Le esportazioni di petrolio rappresentano il 97% delle entrate sud sudanesi.
Gli sforzi fino ad ora attuati da Pechino per assumere il ruolo di mediatore tra le parti in conflitto sono stati sistematicamente neutralizzati dalla diplomazia occidentale, in primis quella nordamericana, con il chiaro intento di spazzar via la l’Impero d’Oriente da questo importante Paese produttore di petrolio. Pechino all’epoca pensava di replicare i successi ottenuti grazie alla mediazione svolta nel 2012 tra Sudan e Sud Sudan che aveva riappacificato i due Paesi ed evitato l’ennesimo conflitto.
Oltre al problema della corruzione e della cattiva gestione dei proventi del petrolio, il Sudan meridionale soffre di un altro male: lo spinoso problema del “land grabbing” (la corsa all’accaparramento di terre in Africa). La competizione per le risorse naturali è stata tra le cause principali delle guerre civili e della destabilizzazione in Africa e oggi, nel Sudan del Sud, è molto semplice ed economico per investitori stranieri ottenere in concessione per 99 anni larghi appezzamenti di terra per l’agri-business, mentre mancano politiche di diversificazione in campo agricolo, come è stato recentemente evidenziato da rapporti e articoli.

Un altro nodo da sciogliere affinché il Sud Sudan possa finalmente imboccare la strada dello sviluppo riguarda la scelta della forma di Stato che meglio interpreta e sintetizza le svariate anime presenti nel paese. In poche parole, è meglio andare verso uno Stato Federale o Unitario?
Su questo punto, per esempio, Lo Stato dell’Equatoria, parzialmente intaccato dal conflitto, ha lanciato una proposta federalistica sottoponendo al IGAD (Intergovernamental Authority on Development) un documento intitolato: Equatorians’ Position on the Ongoing Peace Talks (La posizione dell’ Equatoria sui colloqui di pace in corso).(2) La proposta, preparata il 24 maggio scorso con il pieno supporto del clero cattolico sud sudanese, prevede la trasformazione della Repubblica del Sud Sudan in una Federazione di Stati in cui il governo manterrebbe il controllo delle finanze, difesa, sicurezza, alta corte di giustizia e affari esteri, mentre i vari Stati gestirebbero le risorse naturali, con pieni poteri decisionali nella amministrazione pubblica, settore giudiziario, polizia, telecomunicazioni e posta indipendenti. Il 40% delle entrate sarebbe destinato a Juba per il funzionamento del governo federale.

La proposta è stata ripresa dal leader della ribellione, Riek Machar, durante un incontro con il presidente keniota Uhuru Kenyatta, avvenuto a Nairobi il 28 maggio scorso. Durante l’incontro Machar ha presentato la proposta federalistica dello Stato di Equatoria proponendo che il governo transitorio lavori per la sua realizzazione. L’ex vice presidente si è dichiarato disposto a non partecipare al governo transitorio a condizione che questo sia composto da una larga intesa creata dalle varie realtà sud sudanesi e che a Salva Kiir sia vietato di ripresentarsi alle elezioni del 2015. Tralasciando le strumentalizzazioni più o meno evidenti intorno a questo tema, è innegabile che la questione resta apertissima. Senza ombra di dubbio pesano posizioni ostili alla concessione di ampi spazi di potere ai governi locali, come quelli auspicati dalla Costituzione transitoria, in nome della coesione e del freno alla competizione tra Stati e della contrapposizione tra Stati ricchi e poveri. Occorre ricordare, tuttavia, come le esperienze concrete di Stati unitari nel continente africano siano spesso state poco edificanti, laddove hanno favorito centralismo e corruzione. Lo scandalo finanziario che ha coinvolto il rappresentante del governo di Juba per i negoziati di pace Nhial Deng Nhial e Bol Kornelio Koryom Mayik, il figlio del Governatore della Banca Centrale Kornelio Koryom Mayik, ne è un vivido esempio. (3)
La truffa – realizzata dal 2008 al 2011 – riguarda l’acquisto di camion e attrezzature logistiche per l’esercito sud sudanese e ammonta a 227 milioni di dollari. I costi originariamente proposti da una ditta russa di cui il nome rimane ancora protetto dalle indagini avrebbero subito un aumento del 185% assicurando un profitto di 205 milioni di dollari a Nhial che all’epoca ricopriva il ruolo di Ministro della Difesa. Altri 22 milioni di dollari sono finiti in conti bancari offshore del figlio del governatore della Banca Centrale, in qualità di provvigioni.
La sfida di fronte al Paese è quella della costruzione di uno Stato unitario che sia fondato sulla partecipazione attiva della popolazione, che significa riconoscere spazi di potere al decentramento politico-amministrativo e finanziario, e stabilire rapporti di buon vicinato con il Sudan ma anche promuovere processi di integrazione regionale. E, soprattutto, rivendicare la propria sovranità, emancipandosi dal giogo degli Stati Uniti che hanno tutto l’interesse di mantenere il Paese destabilizzato e debole.

*Antonio Coviello, laureando in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha cominciato la sua avventura giornalistica collaborando con La Nuova Basilicata. Ha scritto per alcune testate on line e cartacee occupandosi in particolar modo di politica interna ed estera. E’ appassionato di storia araba e di relazioni internazionali.

NOTE

1) Osservatorio di politica internazionale “Il Sudan Meridionale ad un anno dall’Indipendenza” n.64, ottobre 2012
2) http://www.lindro.it/politica/2014-06-04/131002-sud-sudan-la-proposta-federalista
3) http://www.lindro.it/politica/2014-06-16/132109-sud-sudan-tra-scandali-finanziari-e-diserzioni

THE FAULT LINE WAR IN UKRAINE

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The ongoing Ukrainian crisis is undoubtedly the worst period in Russian-Western relations since the end of the Cold War. What happened during the last few months in Ukraine is well-known; likewise, it is almost useless to mention the support both Russia and the West have awarded to “their” sides, with a substantial role change when, in Kiev, the government became opposition and vice-versa. Russia and the West are now often waging against the other a Cold War language, and many commentators have talked about a “new Cold War”. Nevertheless, in spite of some similarities, we have not returned to the past. Nowadays, the struggle between Russia and the West is not ideological, but civilizational; Ukraine is not Vietnam, but a country torn by the invisible border which separates the West and the Russo-Eurasian civilization, and the best term to define the Crimean crisis and the ongoing guerrilla war in the Donbas region of Eastern Ukraine is “fault line war”, an expression coined by Samuel Huntington to define “a war between two or more groups from different civilizations”(1).

This makes the ongoing Ukrainian crisis particularly dangerous, at least for the nations and the people directly involved in it. Fault line wars are indeed far longer and more dangerous than ideological wars and conflicts between interest groups, especially when they involve third parties who can claim cultural, ethnic, linguistic and – even worse – religious ties with the participants. The reason is in the same roots of these conflicts. Ideologies are not targets in itself, but means to achieve them, and ideological debates are not around “who we are”, but rather about issues such as “how to make a government function better” or “how to ensure equal opportunities to all citizens”. A Marxist-Leninist and a Liberal Democrat can usually debate without problems, last but not least because they share most of their vocabulary: words like “democracy”, “freedom” and “liberation” are very common among both of them (2). Moreover, switching from an ideology to another is not very difficult, and this explains why the main Western European far-left terrorist movements of the 70’s, like the Italian Brigate Rosse (Red Brigades) and the West German Rote Armee Fraktion (Red Army Fraction) were easily crushed once the myth of the proletarian revolution began to dissolve. Most ethnic, cultural, linguistic and religious conflicts, on the other hand, are not rooted in some form of social disease, but rather in identity. This helps to explain why it was very difficult to crush, for instance, the Basque ETA, the Northern Irish IRA and the various separatist, irredentist and autonomist movements which have been affecting many regions in the former Yugoslavia and the post-Soviet Eurasia.

The irrationality involved in these conflicts makes the search for a win-win compromise very difficult. Most of them do not know long-lasting peaces, but only temporary truces whose main function is to allow the parties to “breathe again” before starting fighting again, while perennial peace, in many cases, is consequential of forced assimilations, population exchanges, ethnic cleansing or even genocide. The historical German communities of Silesia, the Sudetes, Prussia and Eastern Pomerania have almost completely disappeared, and the only visible mark of their former presence is the unmistakable mark of their genius loci in cities like Wroclaw (formerly Breslau), Szczecin (formerly Stettin) and Kaliningrad (formerly Königsberg). The Armenian Genocide, the collapse of the Ottoman Empire and the population exchanges with Greece in the beginning of the 20th century, made Istanbul, known for centuries as a hub of populations and religions, become overwhelmingly Turkish.

One of the worst mistakes of the West in the Ukrainian crisis has been the failure to recognize the “civilizational” nature of the Ukrainian conflict, with many preferring to see it as an episode of the Great Game between Russia and the West for Eastern Europe, or even as an attempt by Putin to divert the Russian public opinion from the long-standing problems of the country through a patriotic revival. Like Kosovo Polje for the Serbs, the Mount Ararat for the Armenians and Kashmir for Pakistan, Kiev is one of those places where nationalism meets spirituality. Chokan Laumulin, a prominent Kazakh political scientist, named it “the Eastern Slavs’ Jerusalem” because of its strong symbolical value for the Russians, the Ukrainians and the Belarusians (3). Such metaphor is successful for two reasons. On the one hand, both cities have a sacred value: it was in Kiev, after all, that the Eastern Slavs adopted Orthodoxy from Constantinople. On the other hand, like the Holy City, the Ukrainian capital is also a place of divisions. Does the Kievan Rus’ heritage belong to all Eastern Slavs, as most historians agree, or only to the Ukrainians, as the Ukrainian nationalists state? Is it possible to talk about a greater Russian people, with Russians, Ukrainians and Belarusians being its sub-ethnoi? Are the Russians a “big brother” of the Ukrainians and the Belarusians, or are they a mere former colonial oppressor? The answers could be very different on each side of the Dnieper river.

If Ukraine did not become either a second Poland or a second Belarus, but it has remained stuck at a crossroad for over twenty years, this is due namely to the differences between the West-Central regions on the one hand and the South-Eastern ones on the other, with the two extremes being Galicia and Donbas. In the last twenty years, the interregional differences has somehow decreased, last but not least because of the consciousness of living under a single State, but the Crimean crisis and the Donbas War risk to create die-hard grudges both between the “two” Ukraines and between most of the latter and Russia. This puts Russia between the devil and the deep blue sea. On the one hand, Ukrainian nationalism is acquiring a distinct anti-Russian nature, and both the European Union and the USA have not given up threatening Russia with real economic sanctions. On the other, the rise of Russian nationalism, which so far has helped Putin to reach an unprecedented popularity level, could turn against Putin itself in case he would accept an unequal compromise over Ukraine. And, in this case, Putin will no longer be the champion of the Russian national revenge, but, like Milošević over Dayton, he would be accused of the worst war crime: treason.

It is virtually impossible to demonstrate that the Western leaders, and in particular their foreign affairs supervisors, took this into account when fixing their policy towards Russia. This, nevertheless, should not be excluded, last but not least because of their aversion towards Putin. History clearly shows how difficult is constraining nationalisms, and how it becomes almost impossible in the event of a war or a revolution. As the sanctions against many Russian oligarchs of the “inner circle” clearly show, the West aims at ousting a President it never liked, be it through a “Moscow Euromaidan” or some behind-the-scene coup. Even those who have a basic knowledge of Russia and its culture know very well that Putin – as any Russian leader – is very unlikely to acquiesce to what was actually a Western-supported coup whose main aim was to deprive the fledgling Eurasian Union of its most important potential member after Russia and (possibly) Kazakhstan. Geopolitics and culture go hand-in-hand once again, and in the rhetorical clash between Russia and the West identity plays a very important role, as clearly shown by the references to the “European values of freedom and democracy” on the one hand and those to the “moral decay of the West” and the “defence of traditional values” on the other.

There is therefore no doubt about the fact that the clash between Russia and the West is also a “civilizational” one; and, even worse, such consciousness is much stronger in the former than in the latter. The overall benefit-cost ratio of clashing with Russia over Ukraine is dubious, especially for Europe, the support of America’s hard line coming from the main European leaders is more rhetorical than real, and several forces expressed themselves overtly against the sanctions. These are not only the European nationalist and euroskeptic parties, many of them admire Putin for his pro-family stances and the role played in averting a possible American intervention in Syria, but also and more importantly some of the main Western multinational companies (note: I referred to them by calling “political forces” because their role in shaping policy can be crucial). Dissent is obviously present also in Russia, as shown by the stances of some liberal and pro-Western political forces such as Solidarnost’(4) and the Civic Platform (interesting enough, another Polish-sounding name) of the businessman Mikhail Prokhorov. Their role in the Russian political panorama, nevertheless, is very limited, and their influence is virtually absent outside the West-leaning elites and the main cities. On the contrary, most Russians see the ongoing clash as a kind of new Patriotic War, like those of 1812 against Napoleon and of 1941-1945 against Hitler, and it is often those educated Russians who speak English fluently and read the Western press regularly who are developing highly anti-Western (and in particular anti-American) feelings (5). Putin’s approval rate peaked 86% in the last June (6).
Did the anti-Putin hardliners expect this? There is little doubt that many Western politicians and diplomats have hardly any grasp of what the “real” Russia is, as they spend most of their time with the scant pro-Western minorities in the high-level social gathering of Moscow or Saint Petersburg, far away from the “khrushchyovki” and the high-rise buildings where the average Russian lives. “This also happened for practical reasons: they were often the ones who could speak English”, wrote a Der Spiegel’s correspondent (7). Nor they were able to do any parallel between the crises in Crimea and Donbas with some episodes of the Russian history, instead of recurring to the “usual” Hitler. The West has dealt with Russia in the wrong way, and it should not be surprising if the underlying question among Russians about its attitude in the Ukrainian crisis is not “what did we do wrong?”, but rather “why do they hate us?”. Anti-Americanism in Russia has soared after the beginning of the Ukrainian crisis, and the risk that the West, and in particular America, will become an easy scapegoat for Russia’s internal problems is rather high.

From a Western point of view, Russia’s behaviour and attitude seems even more inexplicable while taking into consideration how history was going on only three years ago. Russia was then led by Dmitry Medvedev, a Westernized technocrat with an excellent personal relation with Barack Obama; USA and Russia had just signed the New START agreements around nuclear weapon reduction; Russia and the main European countries were signing hundreds of commercial treaties. There were some divergences, from Syria to the NATO anti-missile shield. The latter, in particular, was a particularly sensitive issue: the NATO proposed an active role for Russia in its realization, but in fact was hesitant in meeting Russia’s demands to be included in it, with Medvedev threatening to build its own anti-missile shield in case his request would be refused. Nevertheless, these looked like secondary issues, and the “reset” seemed to work. History seemed to go on, and Russia seemed to be on the right path towards building a democratic system.

The seeds of the ongoing crisis, on the other hand, were already present, and the problem was not if they would have sprouted, but rather when. The strategic plans of Russia and the West for the former Soviet area are naturally incompatible indeed. After the dissolution of the USSR, the former Soviet countries were declared Russia’s zone of privileged interest, to be shielded from outside (especially Western) influences. The only exception were the Baltic Republics, culturally Western and whose annexation by the Soviet Union after the Second World War was not recognized by many Western Bloc countries. On the other hand, as put by the American columnist Walter Russell Mead, “Western policy towards Russia has been dictated by two vetoes. The West had two grand projects for the post-Soviet space: NATO and the EU would expand into the Warsaw Pact areas and into the former Soviet Union, but Russia itself was barred from both. There would be no Russian membership in NATO and no Russian membership in the EU”(8). According to the Russian political scientist Dmitri Trenin, “Washington’s prevailing policy preoccupation was to prevent the restoration of the USSR, however fanciful that might have seemed, including to some senior American diplomats” (9), while the attempts to include Russia into a Greater Europe “from Lisbon to Vladivostok” have been rather fruitless so far. Moreover, there have been several cases of misunderstanding and overreliance on a “democratic transition” for Russia. A clear example was the attitude towards Putin during Medvedev’s presidency: Angela Merkel, for instance, tried to limit meetings with the then-Russian Prime Minister in order to make it clear that she supported the “new modernizing Russia” rather than the “old Putin Russia” (10). Barack Obama went even further, and did not meet Putin for over three years since July 2009 (11). Last but not least, the euphoria caused by the dramatic movement eastwards of the European eastern borders after the end of the Cold War has inevitably led the West to an overreliance on its strength. It should not be forgotten that in 1990 Europe ended in Lübeck, but fifteen years later it arrived at around 150 km from St Petersburg.

The outcome of the contraposition between Russia and the West is likely to be indecisive. In the most likely outcome, Donbas will become an autonomous region, but without an autonomous foreign policy (or, at least, without the power to join the Eurasian Union without Ukraine); Russia’s control of Crimea will be tacitly accepted, but not recognized; Ukraine will establish more tight relations with the West, but it will not join both the EU and the NATO and will keep a free trade regime with the Eurasian Union. Ukraine, meanwhile, will partially overcome its traditional divisions “thanks” to displacements. According to the latest UNHCR estimates, around 110,000 people escaped Eastern Ukraine to neighbouring Russia since January, and other 42,000 moved westwards towards other Ukrainian regions. The number of refugees from Crimea to Ukraine is about 12,000 (12), while around the same number of people have moved to Crimea from Eastern Ukraine (13). Not only most of them are unlikely to come back, but the number of Eastern Ukrainian refugees is likely to further increase.

The strategic consequences of the crisis are more difficult to predict and will be clear only in some years. They will depend not only on Ukraine’s future political course and on the foreign policy priorities of the West, but also on the ability of Russia to modernize itself and its economy and, in particular, on the country’s ability to play its card between China and the West. In the 90’s, Huntington noted that Russia’s position in the post-Cold War era is similar to the Chinese one during the Cold War. According to him, while a Russo-Chinese alliance would make the Western fears of the 50’s arise again, a Russo-Western alliance would reawaken the long-standing Chinese worries for a possible invasion from the north (14). Given its Euro-Pacific dimensions, neither a definite pro-Western orientation nor a definite pro-Chinese one is convenient for Russia. Nevertheless, a Western-leaning Russia or a Chinese-leaning Russia could still be crucial in slowing down – or even stopping – the decline of the Western power or, on the other hand, hastening the ongoing rise of China towards a global superpower status.

The real stakes, so, are not in Ukraine, but in Asia. It is indeed here that Moscow will face its main challenges for the future, and its priorities in the region should be:
– strengthening its relations with China without compromising those with India and Vietnam, two traditional Russian allies whose relations with Peking are rather tense (in particular in the case of the latter);
– strengthening the transport infrastructures of the Russian Far East and favouring the influx of export-oriented investments towards the region, in particular from Japan and South Korea;
– solving the long-standing Kuril Islands Dispute with Japan and promoting a tripartite forum between with Japan and China, also in order to reduce the possibility of third powers to play it off with China or Japan;
– strengthening the commercial ties with the countries of South-Eastern Asia, possibly through the promotion of free-trade agreements with countries such as Malaysia and Indonesia;
– keeping a balanced position between China and the United States.

A truce with the West and a serious engagement in reforming the economy and making the country an attractive destination for foreign investments, nevertheless, are two main prerequisites for such balanced policy. In the absence of these conditions, there would be an exponential increase of the risk that Russia would become a mere Chinese vassal state and, in turn, would be embedded in the disputes between China and many of its neighbours (15), with an inevitable burst of new tensions and a worsening of the good relations Russia enjoys with some Chinese foes, first of all Vietnam.
This, of course, is not a desirable outcome for anyone, and it is not surprising that the last weeks have been characterized by a moderate de-escalation. On the one hand, Putin has retired its troops from the Ukrainian border and has officially relinquished the possibility of an armed intervention in Ukraine; on the other hand, Poroshenko has accepted to introduce a ceasefire – although it exists more on paper than in reality – and to negotiate with the representatives of the separatists. Economic sanctions are continuously threatened, but in fact they are unlikely to be introduced, and the Association Agreement between Ukraine and the EU was signed without any particular reaction from Moscow’s side. It is obviously too little to talk about an end of the Donbas War, and a climate of trust between Russia and the West – which actually never existed – is unlikely to be established in the near future. There will not be a “new Cold War”, but rather a cold peace, at least so far there is no government change in either Russia or the US, or no powerful crises somewhere else. Resentments on both sides will continue to play an important role for still a long time. Last but not least, the peace which will be reached in the future will more likely be a kind of truce, as in the tradition of fault line wars. The desire to stop the bloodbath in Donbas and to avoid further tensions, nevertheless, seems real.

In the meantime, we should carefully watch the situation in another country that is likely to become another battlefield between Russia and the West: Kyrgyzstan. This little Central Asian republic is important not so much for its economic resources – it is the second poorest country in the former Soviet Union –, nor for its population, whose cultural distance with both Russia and the West is great, but rather for its geographical position. The country, indeed, lies between Kazakhstan – and so Russia –, China, Tajikistan – and so Afghanistan and India – and Uzbekistan – and so Iran and the Caspian Sea. If Kyrgyzstan joined the Eurasian Economic Union (ECU), the perspective to create new transport corridors which bypass the ECU or Russia would greatly diminish: the only “free” nation between China and the West would then be Tajikistan. The Kyrgyzstani President Almazbek Atambayev is a great supporter of his country’s adhesion to the ECU, and in May he declared that he hopes to “celebrate New Year’s Day in the Eurasian Union” (16). Nevertheless, there are still some obstacles to the adhesion. The most important is economic: the country needs a modernization programme and has asked for grants to Russia and Kazakhstan. Nevertheless, there is also another issue: the American influence in the country. In the last April, the U.S. Assistant Secretary for South and Central Asian Affairs Nisha Desai Biswal visited the country together with a delegation in order to stand for the right of territorial integrity of the Central Asian states; and, during the visit, the delegation met also some members of the anti-Eurasian opposition. Regarding the ECU, her position is rather ambiguous: on the one hand, she stated that “its terms and its conditions are still quite unclear to us”, on the other that “our Kazakh friends…have made it clear they don’t see this as an exclusive relationship, and that they intend to pursue WTO accession and that they would like to see increasing trade with the United States, with the West, with South Asia” (17). Are the USA organizing a new Maidan in Bishkek? The possibility exists, although it is not certain. After all, while on the one hand it would be helpful to further shrink Russia’s sphere of influence, on the other one there is a risk that a de-Russified Kyrgyzstan will move towards China or, even worse, become a free haven for the international terrorism. What will happen in Kyrgyzstan in case it will join the ECU may be indicative of the US foreign policy priorities.

NOTE
1) S.P. Huntington, Lo Scontro delle Civiltà e il Nuovo Ordine Mondiale, Garzanti, Milan 2000, p. 374.
2) Some examples of the use of the word “democracy” among Communists are the German Democratic Republic, the Democratic Army of Greece (the Communist Greek guerrilla) and the World Federation of Democratic Youth.
3) http://tengrinews.kz/opinion/482/
4) Not to be confused with Solidarność, although its name is an obvious reference to the Polish trade union.
5) As an example, it is enough to read the comments to the article Why Putin says Russia is exceptional, published by the Wall Street Journal on 30th May (link: http://online.wsj.com/articles/why-putin-says-russia-is-exceptional-1401473667).
6) http://www.bloomberg.com/news/2014-06-26/why-putin-is-in-trouble-with-86-approval.html
7) http://www.spiegel.de/international/europe/why-it-is-time-for-germany-to-stop-romanticizing-russia-a-963284.html
8) http://www.the-american-interest.com/wrm/2014/04/06/can-putins-ukrainian-strategy-be-countered/
9) D. Trenin, Post Imperium, Carnegie Endowment for International Peace, Washington DC 2011, p. 16.
10) S. Meister, An alienated Partnership: German-Russian relations after Putin’s return, The Finnish Institute of International Affairs 2012,p. 4.
11) http://www.washingtonpost.com/world/europe/us-relations-with-russia-face-critical-tests-in-2014-as-putin-obama-fail-to-fulfill-expectations/2014/01/02/a46c880c-4562-11e3-95a9-3f15b5618ba8_story.html
12) http://www.unhcr.org/53ad57099.html
13) http://en.ria.ru/russia/20140701/190770911/Crimea-Takes-in-About-12-000-Refugees-From-Ukraine.html
14) S.P. Huntington, p. 357.
15) These are namely the Senkaku Islands Dispute with Japan, the Paracel Islands Dispute with Vietnam, the Spratly Islands Dispute with Vietnam, the Philippines and Malaysia and the Aksai Chin and Arunachal Pradesh disputes with India. There is also the eventuality of an armed conflict with the Republic of China (Taiwan) – which is also a claimant to the territories formerly mentioned – in case the latter proclaims its independence. It is not unlikely that China will ask Russia to support its positions on the aforementioned claims.
16) http://inform.kz/rus/article/2662938
17) http://in.reuters.com/article/2014/04/02/ukraine-crisis-usa-centralasia-idINDEEA310EK20140402

CLAUDIO MUTTI (DIRETTORE DI EURASIA) INTERVISTATO DA GEOPOLITIKA DI BELGRADO

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Il testo dell’intervista del direttore di Eurasia, Claudio Mutti, rilasciata al periodico di studi internazionali e geopolitica Geopolitica di Belgrado.

Mutti

L’ONDATA ÀVARA

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Ahi! Ahi! Procella d’ispide polledre

àvare ed unne e cavalier tremendi

sfilano: dietro spigolando allegra

ride la morte.

G. Carducci

Avares sive Huni

La nomenclatura toponimica italiana ha conservato le tracce di tutte le migrazioni di popoli che interessarono la penisola nel periodo della caduta dell’Impero d’occidente e nei secoli successivi. Nella stragrande maggioranza si tratta ovviamente di località originate da arimannie germaniche (gotiche, longobarde, franche, normanne ecc.); ma non mancano alcuni toponimi che corrisponderebbero addirittura a stanziamenti di Sarmati, mentre l’insediamento di nuclei protobulgari è testimoniato dalla denominazione di parecchie località (1), tra cui la maremmana Bolgheri, resa celebre da quello stesso Carducci che nel Comune rustico e nella Chiesa di Polenta rievocò le scorrerie di popoli affini ai Protobulgari, quali gli Unni e gli Avari. Quanto agli Avari, se pure non si può escludere “che qualche relitto avaro possa essere realmente individuato anche in Italia” (2), le tracce da loro lasciate nella toponomastica italiana sono “ben poche ed incerte” (3), mentre più sicure sono quelle presenti nella penisola balcanica. Infatti questo popolo, che andò ad occupare le terre del grande Bassopiano ungherese ed estese il proprio dominio fino alla Boemia, alla Carinzia e alla Dalmazia, fece numerose incursioni a sud del Danubio, arrivando nel 626 ad assediare Costantinopoli.

Gli Avari erano originari dell’Asia centrale, dove per tutto il sec. V avevano egemonizzato uno spazio compreso tra la Corea e il lago Balkhash. Sollecitati da una mutazione climatica (4), sospinti e incalzati da altri popoli lungo la Via della Seta, erano giunti al corso meridionale della Volga (5); presso il Don avevano sconfitto i Protobulgari, una parte dei quali si spinse a nord e si stanziò sulle rive della Volga, mentre un’altra parte andò a insediarsi nella regione del basso Danubio. Dopo aver preso stanza tra il Caucaso e la Crimea, proseguirono la marcia verso ovest; sottomessi gli Slavi stanziati tra il basso Dnestr e il basso Danubio, nel 561 erano si erano già attestati sul corso inferiore del Danubio, da dove minacciavano l’Impero Romano d’Oriente e il regno dei Franchi.

I nuovi arrivati furono ritenuti i diretti discendenti degli Unni (6), tanto il loro aspetto ricordava quello della gente di Attila. Per quanto fosse presente tra gli Avari il tipo antropico europide, nella maggior parte di loro erano evidenti i caratteri mongolidi: bassa statura (in media 165 cm. i maschi e 155 le femmine, con un successivo aumento di 6-8 cm.), carnagione giallastra, volto piatto, occhi scuri e a mandorla, capelli neri – che però, diversamente dagli Unni, gli Avari raccoglievano in due trecce ricadenti sulle spalle. Emanavano una puzza tremenda, perché non si lavavano mai. Indossavano mantelli di pelliccia o cappe di cuoio; e di cuoio avevano le corazze, gli stivali, le selle. Usavano staffe di ferro, che furono i primi a introdurre in Europa. Maestri nel tiro con l’arco, nel combattimento ravvicinato adopravano una spada ricurva. Al termine della battaglia, il loro khan (khâqân) raccoglieva in un sacco gli orecchi dei nemici uccisi, mentre i prigionieri di rango erano impalati con una tecnica raffinata. Donne e bambini venivano portati via. Abitavano in tende simili alle yurte mongole, adornate con nastri multicolori, code di cavallo, corna di bufalo, teschi umani. La lingua che parlavano apparteneva, come quella degli Unni, ad un ramo turco (7); la grafia di cui si servivano era quella “scrittura a tacche” usata dai popoli turchi che fu usata successivamente dai Magiari e che presso i Székely dei Carpazi si è conservata fino a tempi recenti (8).

Il basileus Maurizio (582-602) dedicò ai costumi militari degli Avari – e dei Turchi in genere – un capitolo intero (XI, 2) del suo Strategikon:

(…) Sono armati con cotte di maglia, spade, archi e lance; in battaglia la maggior parte di loro porta con sé due tipi di arma, le lance portate a tracolla e l’arco in mano, ed usano l’uno o l’altro secondo la necessità. Non solo indossano essi stessi delle armature, ma anche i cavalli dei loro uomini più nobili hanno una protezione frontale fatta di ferro o feltro. Dedicano particolare attenzione all’addestramento al tiro con l’arco dal cavallo. Un consistente branco di animali, maschi e femmine, li segue, sia per fornire alimento che per dare l’impressione di un esercito enorme. Essi non pongono il campo all’interno di fortificazioni, come fanno i Persiani e i Romani, ma, rimanendo divisi per gruppi o tribù fino al giorno della battaglia, lasciano pascolare i cavalli sia in estate che in inverno. Quindi prendono i cavalli che servono, li tengono impastoiati vicino alle loro tende e li sorvegliano fino al momento di formare lo schieramento di battaglia, che cominciano a fare durante la notte. Piazzano le sentinelle ad una distanza tale l’una dall’altra, che non è facile coglierle di sorpresa. (…) Preferiscono le battaglie combattute da lontano, le imboscate, gli accerchiamenti degli avversari, le finte ritirate e gli improvvisi contrattacchi, le formazioni a cuneo (koùnas), ovvero i gruppi sparsi. Quando mettono in fuga i nemici, essi mettono da parte ogni altra cosa e non si accontentano, come i Persiani, i Romani e gli altri popoli, di inseguirli semplicemente e di saccheggiare i loro beni, ma non desistono fino a quando non hanno ottenuto la loro completa distruzione, e usano ogni mezzo per raggiungere questo scopo. (…) (9)

Lo storico bizantino Teofilatto Simocatte (ca. 585 – ca. 636-640) (10), che aveva accesso alle informazioni provenienti dagli ambasciatori turchi e rappresenta quindi la fonte principale per l’identificazione degli Avari, ha distinto questo popolo in due gruppi ben diversi. Il primo sarebbe quello degli Zhuan-Zhuan delle fonti cinesi, i quali, sconfitti dai T’u-küe (= Turchi), si sarebbero rifugiati a Taugast e presso i Moukri. Quelli arrivati in Europa, invece, sarebbero in realtà degli pseudo-Avari, una branca dei Turchi Uiguri sfuggita al dominio dei veri Avari; Teofilatto li cita come Uar (Ouar) e Hun (Chounnì), mentre da altre fonti bizantine (11) risulta che venivano chiamati Varconiti (Ouarchonìtai). Lo stato attuale delle risultanze relative all’etnogenesi degli Avari è sinteticamente presentato dall’archeologo ungherese Béla Kürti:

Una delle ondate della grande migrazione verso occidente si mosse nel 552, quando i popoli turchi fondarono il loro vasto impero nomade nell’Asia centrale. Sulla base delle fonti scritte, Károly Ceglédy è giunto alla conclusione che gli Zhuan-Zhuan – che si diressero a occidente dell’area turcica – potevano essere uno dei principali elementi costitutivi del popolo successivamente noto in Europa come Avari. Il primo luogo in cui essi sostarono nel corso della loro marcia fu probabilmente lo stato asiatico degli Eftaliti, i quali furono a loro volta sconfitti nel 557 dai popoli turchi avanzanti verso occidente. Alcuni pensano che gli etnonimi Uar (Avari) e Hion (Unni) – che compaiono nelle fonti scritte bizantine come denominazioni degli Avari – indichino le due componenti. (12)

Nel 558 giunse per la prima volta a Bisanzio una delegazione avara, la quale presentò a Giustiniano la richiesta del giovane khan Bayan (Baina), figlio di Khovrat: che agli Avari fosse concesso di insediarsi entro i confini dell’Impero. La risposta del basileus fu conforme alla sua opzione strategica. “Deciso ad esercitare il massimo sforzo sull’Occidente, Giustiniano non ebbe forze sufficienti per difendere la frontiera del Danubio e fu questo l’aspetto più debole della sua azione militare. Non che egli si disinteressasse di queste frontiere, ma, in assenza di eserciti disponibili, credé di poterne assicurare l’inviolabilità” (13) fortificando la riva destra del Danubio e spingendo gli uni contro gli altri i popoli accampati a nord del fiume o nel Norico: “i Longobardi contro i Gepidi che occupavano la pianura ungherese, gli Unni Utiguri insediati ad oriente del Mar d’Azov contro gli Unni Cutriguri (tra il Don e il Dnestr) alleati dei Gepidi” (14). Gli Avari sarebbero serviti a tenere a bada un po’ tutti quanti. Fu così che Giustiniano non acconsentì alla richiesta di insediamento, ma garantì ai nuovi venuti un sussidio annuo, purché tenessero lontani dai confini gli altri popoli nomadi.

Dopo che gli Avari ebbero posto fine alla lotta fratricida delle tribù unniche, sterminandone una parte e incorporando i sopravvissuti, verso il 560 la loro sovranità “si estendeva dalla Volga fino alla foce del Danubio e abbracciava in tal modo l’insieme del territorio che era stato precedentemente occupato dai due rami degli Unni” (15). Pressati da altre tribù turche, gli Avari si spinsero lungo l’arco dei Carpazi ed oltre, finché ai confini della Turingia vennero a scontro coi Franchi; nel 562 il khan Bayan fu sconfitto dal Re di Austrasia Sigiberto I (537-575), ma quattro anni dopo fu lo stesso sovrano merovingio ad essere sconfitto e fatto prigioniero dagli Avari.

Alla morte di Giustiniano, salì sul trono imperiale suo nipote Giustino II (565-578), il quale revocò il sussidio che era stato concesso agli Avari, sostenendo che l’Impero non doveva essere tributario dei barbari. Nello stesso anno Alboino diventava re dei Longobardi, i quali si erano insediati in Pannonia e resistevano alla pressione dei Gepidi, un altro popolo germanico che, occupata dopo la caduta dell’impero unno la regione compresa tra il Tibisco e i suoi affluenti transilvani, tendeva a trasferirsi anch’esso nella Pannonia. Sul fianco orientale dei Gepidi premevano gli Avari. Benché i Gepidi avessero tolto all’Impero Sirmio (Mitrovica) e Singiduno (Belgrado), città confinarie sulla Sava e sul Danubio, Giustino li giudicava meno pericolosi dei Longobardi e quindi decise di aiutarli contro questi ultimi; poi però, siccome i Gepidi non intendevano restituire Sirmio, il basileus li abbandonò al loro destino, lasciando che il loro stato venisse distrutto da Longobardi e Avari coalizzati. Il patto di alleanza che Alboino e Bayan aveva stipulato prevedeva che gli Avari, in cambio dell’aiuto fornito ai Longobardi, potessero occupare il territorio dei Gepidi; oltre a ciò, gli Avari avrebbero ricevuto una decima parte del bestiame appartenente ai Longobardi. È stato ipotizzato che “fin d’allora Alboino meditasse l’impresa d’Italia, e volesse prima, vendicandosi dei Gepidi, assicurarsi le spalle, altrimenti sarebbe difficile rendersi ragione dei patti che stipulò cogli Avari” (16). Fatto sta che nel 568 Alboino condusse in Italia il popolo longobardo, cui si erano aggregati anche gruppi di Gepidi, Bavari, Svevi, Sassoni e perfino Protobulgari.

Avares et Sclavi

Nel frattempo l’esercito imperiale tentava di tenere a bada gli Avari, che dilagavano fra il Tibisco e il Danubio e invadevano la Transilvania. Nel Bacino dei Carpazi sorse così un khanato avaro che comprendeva una potente lega di popoli, sicché “da quel momento Bisanzio si trovò sottoposta alla crescente pressione degli Avari e delle tribù slave del medio Danubio vassalle dell’impero” (17). La futura Ungheria diventava ancora una volta, come già al tempo di Attila, il cuore di un regno di cavalieri nomadi.

La politica bizantina cercò di trarre partito dalla nuova situazione. “Prendendo due piccioni con una fava, Bisanzio cercherà di neutralizzare il pericolo più immediato, le continue incursioni degli Slavi a sud del Danubio, sviando contro di loro la potenza degli Avari” (18). Ecco in che modo Menandro Protettore (vissuto sotto l’imperatore Maurizio) illustra la tattica seguita da Tiberio (578-582) per difendere l’Impero da Slavi ed Avari:

Nel quarto anno del regno dell’imperatore Tiberio, circa centomila Slavi devastarono la Tracia e numerose altre province (…) La Grecia fu saccheggiata: era minacciata da ogni parte. Tiberio non disponeva di forze sufficienti per opporsi agli uni e agli altri. Non potendo mandare contro di loro l’esercito, che già era stato mobilitato per la guerra in Oriente, inviò un’ambasceria al principe degli Avari, Baina, il quale allora non era ostile ai Romani e anzi sperava di ottenere qualche profitto dall’ascesa di Tiberio al trono imperiale. Questo era lo stato delle cose quando Tiberio lo spinse a combattere gli Slavi. (19)

Il khan avaro accettò la proposta del basileus, sicché Bisanzio fece passare sul territorio dell’Impero sessantamila cavalieri avari e mise a loro disposizione le imbarcazioni necessarie per varcare il Danubio. Appena furono sbarcati sulla riva destra, gli Avari cominciarono a incendiare i villaggi degli Slavi e a devastare i loro campi. “Nessun barbaro di quelle terre osò opporre resistenza: tutti si diedero alla macchia e si rifugiarono nel profondo dei boschi”, scrive Menandro, il quale spiega che gli Avari intendevano imporre agli Slavi il versamento di un tributo, come si può d’altronde evincere da questa frase che, secondo Michele Siro, gli Avari dicevano alle popolazioni sottomesse: “Andate, seminate, fate raccolto; noi vi prenderemo solo la metà della tassa” (20). Un progetto, questo, che rivela nel khan Bayan una saggezza politica “agli antipodi di quell’accecamento brutale e feroce troppo spesso attribuito ai nomadi asiatici” (21) e lo avvicina ad altri grandi creatori di imperi analoghi, come Attila e Gengis Khan.

Nel 582 Bayan si impadronì della fortezza di Sirmio. Tiberio dovette riconoscere agli Avari gli arretrati del tributo rifiutato da Giustino; ma in quello stesso anno Tiberio morì e il suo successore Maurizio (582-602) rimise tutto in questione. Allora Bayan, non ritenendo più valido il patto concluso con Tiberio, inviò le sue orde in Tracia, fino ai porti del Mar Nero, ottenendo in tal modo un aumento del tributo; poi, mentre il nuovo basileus era impegnato contro i Persiani, gli Avari spinsero contro l’Impero gli Slavi, che nel 586 assediarono Salonicco e arrivarono fino alle Mura Lunghe fuori Costantinopoli. Gli Avari stessi penetrarono nella Mesia e dilagarono in Tracia; ma ad Adrianopoli, nel 587, gli invasori subirono una sonora sconfitta che li indusse a tornare a nord del Danubio, anche se si può ritenere verosimile l’ipotesi del Runciman, secondo cui “molti di questi invasori si sistemarono permanentemente entro il territorio imperiale” (22). Cinque anni più tardi, Bayan era di nuovo sul Mar Nero, da dove si diresse verso Adrianopoli; ma la notizia dell’imminente arrivo di una flotta imperiale lo indusse a ritirarsi.

Cominciò così una guerra che doveva durare dieci anni e la cui principale posta in gioco era il controllo dei passaggi danubiani. Sembra che l’obiettivo di Bayan fosse quello di raggiungere il Mar Nero, come è dimostrato dalla sua spedizione del 592 e da quella del 600, quando attaccò la Dobrugia e assediò Tomi, nel verosimile intento di vietare alle flotte imperiali la penetrazione nel Danubio. (23)

Bayan fu sconfitto più volte, perse alcuni dei suoi figli e rischiò di essere catturato lui stesso; ma gli errori di Maurizio e l’indisciplina dell’esercito imperiale resero vane le vittorie conseguite da Prisco, il miglior generale bizantino. La pace con gli Avari venne conclusa dall’imperatore Foca (602-610), il quale aumentò loro il tributo, senza che ciò servisse a tenerli lontani dai Balcani.

Nel 602 gli Avari sottomisero anche gli Anti,un popolo di ceppo sarmatico affine agli Alani orientali che aveva assorbito una consistente componente slava e alla metà del sec. VI vagava a nord del Danubio (24). Poi mossero guerra contro i Longobardi: invasero l’Istria, devastarono il Friuli ed espugnarono Cividale; quindi si ritirarono, probabilmente perché stava arrivando Agilulfo, che gli Avari avevano favorito all’epoca della conquista longobarda di Cremona.

Il nuovo khan avaro, il figlio di Bayan, nel giugno del 617 guidò un esercito sotto le mura di Bisanzio, catturando 270.000 prigionieri nei dintorni della città; tre anni più tardi il successore di Foca, Eraclio (610-641), stipulò con gli Avari una tregua biennale, per potersi preparare alla guerra contro i Persiani, che sconfisse ripetutamente fra il 622 e il 625. Conclusa un’alleanza con Protobulgari, Slavi ed Avari, il re persiano Cosroemosse contro Eraclio, mentre gli Avari posero l’assedio a Bisanzio, la quale però oppose una resistenza che dovette riuscire vittoriosa.Da allora in poiil peso degli Avaricominciò a diminuire, mentre gli Slavi,più numerosi,dilagarono fino alla Grecia, alla Dalmazia, all’Istria, alla Carniola.

In seguito allo scacco subito nel 626 sotto le mura di Bisanzio e all’occupazione slava del territorio compreso tra il Danubio e la Sava, l’egemonia avara fu notevolmente ridimensionata. Bisognerà tuttavia attendere Carlo Magno, per assistere alla scomparsa definitiva degli Avari. Ancora nel sec. XII il monaco kieviano Nestore utilizzerà nella Povest’ vremennych let il proverbio “perire come gli Obri”, cioè come gli Avari, per indicare la sorte di tutti quei popoli che avevano sì assoggettato gli Slavi, ma poi erano stati dispersi, mentre gli Slavi sono rimasti. In particolare, Nestore cita il durissimo trattamento che gli Avari avevano imposto avevano riservato ai Dulebi, una tribù slava stanziata sul Bug:

A quei tempi vivevano anche gli Obri, i quali mossero contro Eraclio imperatore e poco mancò che lo facessero prigioniero. Questi Obri avevano combattuto contro gli Slavi, e avevano oppresso i Dulebi, che erano slavi, e violenza avevano usato alle donne dulebe: se uno degli Obri voleva andar [lontano], non dava ordine di attaccare un cavallo né un bue, ma ordinava di attaccare tre o quattro o cinque donne al carro e di trasportare l’obr, e così opprimevano i Dulebi. Erano gli Obri di corporatura grande e di mente proterva e Iddio li annientò, e morirono tutti e non restò neanche un obr. (25)

Fredegario, lo storico dei Merovingi, descrive in termini analoghi l’asservimento degli Slavi (i “Vendi”)da parte degli Avari:

Ogni anno venivano a svernare tra gli Slavi, dei quali prelevavano mogli e figlie affinché giacessero con loro; oltre all’obbligo di versare tributi, gli Slavi subivano molteplici tormenti. (…) Ogniqualvolta aveva inizio una campagna militare contro un altro popolo, gli Avari se ne restavano trincerati, con l’arma al piede, mentre gli Slavi si schieravano da soli in combattimento. Se i Vendi vincevano, quelli si facevano avanti per depredare i vinti; se perdevano, li sostenevano finché non avessero ripreso il vantaggio. (26)

Nonostante la condizione di sfruttamento imposta dagli Avari agli Slavi, tra i due popoli dovette instaurarsi una sorta di simbiosi, dalla quale gli Slavi stessi non mancarono di trarre vantaggio, in particolare per quanto concerne l’apprendimento di una valida tattica militare:

Mentre lo “stato stratificato” importato dai conquistatori avari poggiava economicamente sugli Slavi, che vivevano dell’allevamento del bestiame e talvolta della coltivazione dei campi, per converso stirpi slave, affamate di pascoli e di terra, impararono l’efficacia tattica guerresca dei loro padroni. (27)

L’espansione avara tra gli Slavi incontrò un ostacolo allorché in Boemia, Moravia e Slovacchia si formò una lega di tribù delle quali si pose a capo, nel 623, un certo Samo, “abilissimo mercante e generale franco (o forse tedesco del nord) che fece dell’odierna Slovacchia il primo grande Stato abitato da Slavi, ne divenne re e lo difese non soltanto ad oriente contro gli Avari, ma anche ad occidente contro i Franchi” (28). Questo primo Stato slavo durò trentacinque anni, poiché alla morte di Samo gli Avari ripresero il sopravvento.

Avares, quos Ungarios vocamus

Pasquale Villari ha paragonato il rapporto degli Avaricon gliSlavia quello degli Unni con i Germani.Gli Unni infatti

cominciarono col combattere e vincere la potenza dei Germani, i quali, uniti poi a Romani, li disfecero e li obbligarono a ritirarsi, dopo di che scomparvero quasi del tutto. E così gli Avari, che erano sembrati dapprima prevalere sugli Slavi, furono poi da questi e dall’Impero disfatti, rimanendo come totalmente assorbiti ed assimilati dai primi. Li vediamo ad un tratto ricomparire più tardi, a tempo di Carlo Magno, il quale diè loro l’ultima e definitiva sconfitta. Questi popoli finnici, turanici appariscon quasi tutti come un uragano, cui da principio nulla può resistere. Ma se con grande facilità avanzano, con grande difficoltà riescono ad organizzarsi stabilmente, e presto decadono, per disciogliersi e sparire colla stessa rapidità con la quale s’erano riuniti. Un’eccezione notevole sono gli Ungari (…) (29)

Per quanto riguarda la migrazione ungara, essa fu vista dai contemporanei come una nuova fase di quella avara. “Avares, quos modo Ungarios vocamus, gentem belli asperrimam…” (30) scrive Widuchindo di Corvey, cronista di Enrico I l’Uccellatore (876-936). Ancora oggi, una teoria storiografica ampiamente accreditata vede nell’arrivo degli Ungari la fase conclusiva di un movimento migratorio già iniziato da alcuni secoli. Gli storici ungheresi considerano infatti l’insediamento degli Avari di Bayan nel Bacino dei Carpazi come la seconda ondata di una migrazione che, cominciata con gli Unni di Attila, si sarebbe conclusa nell’896 con l’arrivo degli Ungari guidati da Árpád: “l’impero unno d’un tempo fu riunito di nuovo sotto una sola mano, quella del popolo àvaro. Gli àvari, come pure gli unni, provenivano da un ramo dei turchi orientali. Gli unni e più tardi gli àvari che invasero il Bacino danubiano erano affini a quei popoli turchi che a quel tempo collaborarono alla formazione del popolo ungherese” (31). Secondo questa ricostruzione, il panorama etnico nel quale si sarebbero successivamente inseriti gli Ungari prese forma proprio al tempo dell’immigrazione avara, poiché gli Avari convissero con gruppi di Protobulgari: “Ai confini delle foreste e sui territori occupati dagli avari, vivevano, in più gruppi dispersi, frammenti di popoli bulgaro-onogurici, che vi erano stati trascinati dalle regioni della Volga e del Don” (32). Ma con questi gruppi etnici, nella zona compresa tra l’Ural, il Caucaso e il Mar Nero, dalla metà del V sec. alla fine del VIIconvissero anche i Protomagiari, i quali d’altronde avevano vissuto per secoli in simbiosi coi Protobulgari, tant’è vero che lo stesso etnonimo degli Ungari (lat. Hungari) non è se non un adattamento del termine turco Onogur (on ok, “dieci frecce”, cioè confederazione di “dieci tribù”) (33). Non solo, ma nella stessa epoca apparvero anche le prime tribù slave: “Accanto alla popolazione nomade turco-orientale e a questi gruppi bulgaro-onogurici, che dimostravano già allora una cultura più elevata, lungo le frontiere compaiono gli slavi, penetrati nei territori nord-occidentali da nord e nella regione montagnosa del sud e dell’est da mezzogiorno” (34).

La teoria secondo cui il processo di formazione del popolo magiaro avrebbe avuto inizio nel periodo degli Unni e sarebbe proseguito nel periodo avaro è stata esposta tra l’Ottocento e il Novecento da vari studiosi, tra i quali Ármin Vámbéry (1832-1913), József Hampel (1849-1913), Géza Nagy (1855-1913). Secondo quest’ultimo, per Avari bisogna intendere una lega etnica ugro-unna che, sotto la spinta di tribù turche, si allontanò dalle regioni centrali della Siberia e si diresse verso l’Ungheria. Tale teoria è stata ulteriormente formulata nel 1978 dall’archeologo Gyula László (35): l’insediamento degli Ungari nel Bacino carpato-danubiano – che gli Ungheresi sono soliti chiamare “occupazione della patria” (honfoglalás) – non sarebbe avvenuto in un’unica fase, ossia con l’arrivo delle tribù condotte da Árpád nell’896; in realtà vi sarebbe stata una “duplice occupazione della patria” (kettös honfoglalás), una occupazione in due tempi, poiché il primo arrivo degli Ungari avrebbe avuto luogo con l’invasione avara, due secoli prima di Árpád. Ecco come Gyula László riassume la sua teoria, che domina attualmente il dibattito storiografico.

Anche da fonti antiche (Teofilatto Simocatte) sappiamo che gli Avari che nel 568 occuparono la patria consistevano di due popoli: il ramo uar e il ramo hyon (varconiti); a loro si aggregarono, alla fine del VI sec., i popoli degli Zabender, dei Tarniach e dei Kotzager. Nel VI secolo si ribellò il popolo dei Bulgari, che viveva sotto il dominio avaro. Così, nella prima metà del periodo del dominio avaro la nostra patria fu popolata da una lega che constava di sei popoli. A questa lega si aggregarono, intorno al 670, gli Onoguri, i popoli della prima occupazione magiara della patria. Anche costoro consistevano di almeno tre elementi: c’era un popolo originario dei territori della Volga, uno strato centroasiatico e uno della zona caucasica (ed era quest’ultimo lo strato onogurico dominante). Inoltre sappiamo che tra i popoli dell’antico impero unno viveva assieme agli Avari una significativa quantità di Gepidi, mentre nell’Oltredanubio è possibile tener conto di un modesto residuo d’epoca romana o dell’immigrazione di elementi romanizzati di epoca più recente. (36)

Assieme agli Avari, dunque, si stabiliscono sul territorio della futura Ungheria gruppi etnici decisamente asiatici (mongolidi, pamiriani, turanici ecc.), che nel periodo della “occupazione della patria” da parte degli Ungari si fonderanno con questi ultimi. Secondo l’antropologo Lajos Bartucz (37), gli elementi mongolidi reperibili nella popolazione ungherese dal Medioevo ad oggi sarebbero appunto un retaggio degli elementi asiatici che si aggregarono al periodo avaro.

Con la migrazione magiara si concluderà la fase storica del più antico nomadismo centroasiatico. Tutti quei popoli che avevano attraversato le steppe, dal deserto del Gobi al Danubio, alla fine saranno incorporati nelle sintesi slave, ungheresi e turche.

Finis Avariae

Il regno avaro, che dal medio Danubioera arrivato ad estendersi fino alla Carinzia, dopo più di due secoli fu condannato a morte dalla potenza dei Franchi. Carlo preparò la campagna di guerra in maniera tale che contro gli Avari convergessero tre eserciti: due da occidente, lungo le rive del Danubio, e un terzo dall’Italia. La prima fase della guerra terminò senza alcun esito, perché l’armata proveniente dall’Italia, condotta da Pipino figlio di Carlo, fu bloccata nel 791 da un’epidemia che fece morire gran parte dei cavalli dei Franchi; ma negli anni successivi gli eserciti dei Franchi riuscirono a devastare il paese degli Avari. Il colpo di grazia venne inferto agli Avari dai Bulgari del khan Krum (802-814), i quali si impadronirono della parte orientale dell’ex-impero avaro, fino al Tibisco. Una parte della popolazione avara cercò allora rifugio presso i Franchi, i quali le consentirono di insediarsi nel Transdanubio occidentale.

La guerra contro gli Avari (contra Avares sive Hunos) sembrò ad Eginardo (770-840) la più importante tra quelle combattute da Carlo Magno, se si prescinde dal bellum Saxonicum:

Carlo la diresse con maggior impegno delle altre e vi impiegò forze di gran lunga più imponenti. (…)Delle battaglie combattute e del sangue versato sono testimoni la Pannonia spopolata e il sito in cui sorgeva la reggia del Khan, così desolato ancor oggi da non presentare più nemmeno una traccia di vestigia umane. In questa guerra perirono tutti quanti i nobili unni (Hunorum nobilitas), tutta la loro gloria scomparve: tutta la loro ricchezza e i tesori accumulati nel tempo furono saccheggiati; a memoria d’uomo, non si ricorda nessuna altra guerra mossa contro i Franchi che fornì a quest’ultimi tanto bottino e ricchezze. In vero ai Franchi sembrò essere stati fino a quel tempo quasi poveri; tanto fu l’oro e l’argento trovato nella reggia, tante furono le spoglie preziose conquistate nei combattimenti che si può con ragione credere che i Franchi abbiano strappato giustamente agli Unni (Francos Hunis juste eripuisse) ciò che essi, tempo prima, avevano ingiustamente rapinato (injusteeripuerunt) agli altri popoli. (38)

Il tesoro degli Avari, che veniva custodito all’interno di una cittadella (Ring o campus) protetta da nove muraglie concentriche, fu conquistato dall’esercito longobardo partito dal Friuli sotto la guida di Pipino. Tutta questa ricchezza fu portata ad Aquisgrana, dove lo stesso tudun avaro, il luogotenente del khan, si era arreso a Carlo e si era fatto battezzare. La parte occidentale del regno avaro, tra il Danubio e la Sava, veniva così annessa al regno dei Franchi.

“È possibile che la componente centroasiatica della popolazione avara abbia recato con sé elementi cristiani” (39) e in ogni caso “abbiamo notizia di Avari che erano cristiani nel sec. VIII” (40); ma la conversione generale degli Avari al cristianesimo, preparata nel 796 da un sinodo che doveva organizzare l’invio di missionari in Pannonia, fu conseguenza del loro crollo militare e politico. Così gli Avari rinunciarono alla religione dei loro antenati, che era presumibilmente “molto vicina a quella dei T’u-küe” (41) e quindi apparteneva al quadro generale dello sciamanesimo centroasiatico. In un’opera agiografica bizantina ancora parzialmente inedita, gli Avari così si presentano a san Pancrazio che cerca di convertirli: “Siamo il popolo degli Avari, e veneriamo come dèi qualsiasi simulacri (sic) di rettili e quadrupedi, ma insieme con questi, sacrifichiamo anche al fuoco, all’acqua, ed alle nostre spade” (42). Sono parole che riecheggiano l’informazione fornita da Teofilatto circa i Turchi in generale: “innanzitutto onorano il fuoco; venerano (gerairousin) inoltre l’aria e l’acqua e celebrano la terra; ma adorano e chiamano Dio unicamente colui che ha fatto il cielo e la terra (proskynousi monos kai Theononomazousi ton pepoiekota ton ouranon kai ten gen). A lui sacrificano cavalli, buoi e montoni; ed hanno sacerdoti che essi reputano aver la facoltà di predire il futuro” (43).

Per quanto concerne il culto avaro del fuoco, Menandro Protettore riferisce che Bayan, stipulando un trattato coi Bizantini, prestò giuramento proprio sul dio del fuoco: “deus ignis, qui in coelo est” (44). D’altronde la sacralità del fuoco, come pure quella dell’acqua, è ampiamente documentata per quanto concerne i popoli affini agli Avari (45). Ma l’episodio del giuramento di Bayan conferma anche il dato relativo al culto avaro della spada, poiché il khan giurò dopo averla snudata secondo l’uso tradizionale del suo popolo: “ense educto abarico ritu” (46). D’altra parte, veri e propri sacrifici offerti alla spada, analoghi quelli che l’agiografo di san Pancrazio attribuisce agli Avari, sono testimoniati da Erodoto in relazione agli Sciti e da Ammiano Marcellino (47) in relazione agli Alani, che gli Unni sottomisero verso il 370. In ogni caso, per gli Avari come per gli altri popoli delle steppe la spada è un simbolo religioso; “il valoroso popolo combattente la assume come simbolo del suo dio, considerato come il dio guerriero che lo protegge; esso dunque la colloca sugli altari, in quanto emblema del dio della guerra, onorandola con l’uccisione dei prigionieri catturati in battaglia” (48). Un altro rito sacrificale in uso presso gli Avari era l’immolazione del cavallo: attribuita da Erodoto e da Strabone (49) agli Sciti e ai Massageti, questa usanza risale anch’essa alla più antica cultura delle steppe (50). Già praticato dagli Unni, il sacrificio del cavallo sarà praticato anche dagli Ungari.

Notevole, nella simbolica degli Avari, è il motivo dell’albero. “Gli Avari – scrive Ibn Rustah nella seconda metà del III sec. dell’Egira – hanno presso la loro capitale un albero colossale, che non produce frutti. La popolazione vi si raduna ogni mercoledì per appendervi frutti di ogni genere. Si prosternano davanti ad esso recando offerte” (51). È nota l’importanza che l’albero cosmico – simbolo assiale universalmente diffuso – rivestì nelle culture sciamaniche dei popoli della Siberia e dell’Asia centrale (52); ed è noto che nell’iconografia di tali popoli la figura dell’albero si accompagna spesso a quelle di animali custodi quali il drago o il grifone. Quest’ultimo, in particolare, compare con una certa frequenza nell’arte avara (53), sicché si è potuto ipotizzare che questo animale simbolico rappresentasse una sorta di antenato mitico degli Avari.

Nonostante la splendida produzione artistica avara, manifestazione di quell’arte delle steppe che Mario Bussagli giudicava come uno dei fenomeni più rilevanti dell’attività figurativa eurasiatica, uno storico anglosassone ha creduto di poter stabilire che “la caduta degli Avari non fu una perdita molto grande per il genere umano” (54). Traspare da tale spocchioso giudizio quella visione storica che, riducendo a pura e semplice barbarie distruttiva le culture e gl’imperi dei popoli delle steppe, si rivela davvero, per citare le severe parole di Lev Gumilëv (1912-1992), “ingiustificata, parziale, cieca dinanzi alla grandiosità di eventi politici e culturali che hanno segnato in maniera decisiva la storia universale” (55). E che hanno contribuito a dare all’Eurasia il volto che essa ci ha presentato per una lunga serie di secoli.

  1. Gualtiero Ciola, Noi, Celti e Longobardi, Helvetia, Venezia 1987, p. 155.

  2. Giovan Battista Pellegrini, Tracce degli Ungari nella toponomastica italiana ed occidentale, in: AA. VV., Popoli delle steppe: Unni, Avari, Ungari (= C.I.S.A.M. XXXV Settimana di studio, 23-29 aprile 1987), Spoleto 1989, p. 339.

  3. Ivi, p. 318.

  4. Se l’esodo degli Unni dal territorio del Turkestan verso la Russia meridionale coincise con una caduta della curva climatica verso l’anno 300, analogamente la marcia degli Avari (Pseudoavari) verso occidente ebbe relazione con un abbassamento ancor più forte di questa stessa curva verso la metà del VI secolo” (Franz Altheim, Attila et les Huns, Payot, Paris 1952, p. 219).

  5. Sulle migrazioni degli Avari e sui loro primi rapporti con Bisanzio, cfr. René Grousset, L’Empire dessteppes, Payot, Paris 1941. Ancora oggi la popolazione più numerosa del Daghestan è quella degli Avari (cfr. Sergej A. Tokarev, URSS: popoli e costumi, Laterza, Bari 1969, pp. 224-239). La lingua avara, parlata attualmente da circa 260.000 individui, appartiene con altre 24-27 lingue al gruppo caucasico orientale, il cosiddetto gruppo naho-daghestano, caratterizzato da una struttura morfologica agglutinante-flessiva, “con la particolarità che qui l’aspetto flessivo è più sviluppato che nelle altre lingue caucasiche” (Lucia Wald – Elena Slave, Ce limbi se vorbescpe glob, Editura stiintifica, Bucarest 1968, p. 100).

  6. Nella Historia Langobardorum di Paolo Diacono sono ricorrenti espressioni del tipo “Hunni, quiet Avares appellantur” (I, 27; II, 10; IV, 11; IV, 26; IV, 37). Nella Vita Karoli Magni Imperatoris di Eginardo leggiamo “Avares sive Huni” (cap. XIII). Nel Carmen de Aquilegianumquam restauranda la distruzione di Aquileia, avvenuta nel 452 ad opera degli Unni di Attila, viene addebitata agli Avari: “Impiorum Avarorum tradita sub manibus” (A. De Nicola, I versi sulla distruzione di Aquileia, “Studi Goriziani”, 50, 1979, II, pp. 7-31).

  7. Turcologi e mongolisti hanno abbandonato da tempo l’opinione secondo cui gli Avari avrebbero parlato una lingua mongola: “La cauta spiegazione sulla lingua degli Avari fornita ultimamente da Lajos Ligeti sembra abbastanza giustificata: ‘Resta il problema della lingua degli Avari di Pannonia. Da Vámbéry in poi, presso di noi questa lingua è riconosciuta come lingua turca. Pelliot credeva che fosse la lingua mongola’” (János Harmatta, De la question concernant la langue des Avars, Türk tarih Krumu basïm evi, Ankara 1988, p. 4).

  8. Harmatta János, Avar rovásirásos edényfeliratok, “Antik tanulmányok”, 31, 272-284; Idem, Rovásírásos feliratok avar szíjvégeken, in AA. VV., Rovásírás a Kárpát-medencében, Magyar Östörténeti Könyvtár, Szeged 1992, pp. 21-30.

  9. Maurizio Imperatore, Strategikon. Manuale di arte militare dell’Impero Romano d’Oriente, a cura di Giuseppe Cascarino, Il Cerchio, Rimini 2006, pp. 123-124.

  10. Theophylakti Simocattae Historiarum libri, VII, cap. 7 (Bonn 1834 e 1924; Leipzig 1887; Stuttgart 1972).

  11. De legationibus Romanorum ad gentes, fr. 43.

  12. Kürti Béla – Lörinczy Gábor, “… avarnak mondták magukat …”, Trogmayer Ottó, Szeged 1991, p. 54.

  13. Louis Bréhier, Vie et mort de Byzance, Albin Michel, Paris 1969, p. 39.

  14. Ivi, p. 40.

  15. Franz Altheim, op. cit., p. 205.

  16. Pasquale Villari, Le invasioni barbariche in Italia, Hoepli, Milano 1928, p. 264.

  17. Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Einaudi, Torino 1968, p. 70.

  18. Francis Conte, Gli Slavi. Le civiltà dell’Europa centrale e orientale, Einaudi, Torino 1990, pp. 19-20.

  19. Cit. in : A. V. Mišulin, Drevnie slavjane v otryvkach greko-rimskich i vizantijskich pisatelej po VII v. n. e., « Vestnik Drevnej Istorii  », I, 1941, p. 247.

  20. I. Sorlin, Le témoignage de Constantin VII Porphyrogénète sur l’état ethnique et politique de la Russie au débutdu Xe siècle, « Cahiers du monde russe et soviétique », VI (1965), pp. 164-165, nota 5.

  21. Francis Conte, op. cit., p. 20.

  22. Steve Runciman, Bisanzio e gli Slavi, in: AA. VV., L’eredità di Bisanzio, Vallardi, Milano 1961, p. 408.

  23. Louis Bréhier, Vie et mort de Byzance, cit., p. 50.

  24.  “Ci è noto come dal secolo IV al secolo VII il popolo degli Anti si componesse del duplice elemento slavo e iranico. Nella lotta contro i Goti e successivamente contro gli Avari, avrebbe acquistato una propria specificità e una propria cultura quale progenie della ‘cultura di Cernjachov’ che deve il nome a un villaggio nella regione kieviana” (Francis Conte, op. cit., p. 319.

  25. Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del sec. XII, Einaudi, Torino 1971, pp. 7-8.

  26. Cit. in: I. Boba, Nomads, Northmen and Slavs. Eastern Europe in the Ninth Century, The Hague 1967, p. 45.

  27. Hans Kohn, Il mondo degli Slavi, Cappelli, Bologna 1970, pp. 286-287.

  28. Hans Kohn, op. cit., p. 154.

  29. Pasquale Villari, op. cit., pp. 316-317.

  30. Cit. da Ovidio Capitani, La migrazione magiara, l’Italia, l’Occidente, in: AA. VV., Gli antichi Ungari. Nascita di una nazione, Skira, Milano 1998, p. 23.

  31. Nicola Asztalos – Alessandro Pethö, Storia della Ungheria, Genio, Milano 1937, p. 14.

  32. Bálint Hóman, I Siculi, in: AA. VV., Transilvania, a cura della Società Storica Ungherese, Athenaeum, Budapest 1940, p. 46.

  33. Ibrahim Kafesoglu, Origins of Bulgars, Institute for the Study of Turkish Culture, Ankara 1986, p. 5.

  34. Bálint Hóman, ibidem.

  35. László Gyula, A kettös honfoglalás, Magvetö, Budapest 1978.

  36. László Gyula, Árpád népe, Helikon, Budapest 1986, pp. 15-16. In una nota al brano riportato, l’autore riferisce che secondo István Bóna né gli Zabender né i Tarniach né i Kotzager si sarebbero stanziati nel Bacino dei Carpazi, ma avrebbero vissuto oltre i confini dell’impero avaro.

  37. Bartucz Lajos, A magyarországi avarok faji összetétele és ethnikai jelentösége, “Ethnographia”, 3-4, 1935.

  38. Eginardo, Vita di Carlo Magno, a cura di Giulia Carazzali, Bompiani, Milano 1993, p. 21.

  39. Kürti Béla – Lörinczy Gábor, op. cit., p. 60.

  40. Kürti Béla – Lörinczy Gábor, op. cit., p. 65.

  41. Jean-Paul Roux, La religion des peuples de la steppe, in : AA. VV., Popoli delle steppe: Unni, Avari, Ungari, cit., p. 520.

  42. Zoltán Kádár, Gli animali negli oggetti ornamentali dei popoli della steppa: Unni, Avari e Magiari, in: AA. VV., Popoli delle steppe: Unni, Avari, Ungari, cit., p. 1381.

  43. Theophylakti Simocattae Historiarum libri, VII, cap. 8.

  44. Menandro Protettore, 2, in Fragmenta Historicorum Graecorum, Müller, Paris 1870, ora in Thesaurus Menandri Protectoris (Corpus Christianorum. Thesaurus Patrum Graecorum), a cura di B. Coulie e B. Kindt, Turnhout (in corso di stampa).

  45. Per limitarci alla tradizione magiara, rinviamo a due testi “classici”: Ipolyi Arnold, Magyar mythologia, Pest 1854, ristampa anastatica Magyar Kultura, Buenos Aires 1977, I, pp. 265-278 (fuoco), 279-288 (acqua) e Kandra Kabos, Magyar mythologia, Beznak Gyula, Eger 1897, pp. 71-72 (fuoco), 71, 300 e passim (acqua).

  46. Menandro Protettore, ibidem.

  47. Erodoto, IV, 62; Ammiano Marcellino, XXXI, 3, 23. Sul gladius Martis della tradizione unna, ci si consenta di rinviare il lettore al nostro Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, Effepi, Genova 2005, pp. 49-51.

  48. Ipolyi Arnold, op. cit., II, p. 272.

  49. Erodoto, IV, 60-61, 72; Strabone, XI, 8, 6.

  50. L’animale che gli Altaici preferiscono sacrificare è quello che per loro è il più prezioso, quello per il quale nutrono il massimo affetto: il cavallo. I testi antichi e moderni che citano l’oblazione del cavallo sono così numerosi e monotoni che sarebbe vano volerli raggruppare” (Jean-Paul Roux, Faune et flore sacrées dans les sociétés altaïques, Adrien-Maisonneuve, Paris 1966, p. 207).

  51. Abû ‘Alî Ahmad ibn ‘Omar ibn Rustah, Kitâb al-‘alâ’iq an-nafisah (Libro dei gioielli preziosi), Bibliotheca geographorum Arabicorum, ed. de Goeje, vol. VII, Leyden 1892. Trad. franc. : Ibn Rusteh, Les atours précieux, trad. G. Wiet, Le Caire 1935, p. 166.

  52. Cfr. Jean-Paul Roux, op. cit., pp. 357-380 (cap. VI); Uno Harva, Les représentations religieuses despeuples altaïques, Gallimard, Paris 1959, pp. 52-62 ; Mircea Eliade, Lo sciamanismo e le tecniche dell’estasi, Bocca, Roma-Milano 1954, pp. 211-214.

  53. Si veda, ad esempio, la cintura con raffigurazione di grifi riprodotta in Karl Jettmar, I popoli delle steppe. Nascita e sfondo sociale dello stile animalistico eurasiatico, Il Saggiatore, Milano 1964, tavola a colori p. 221.

  54. G. P. Baker, Carlo Magno, Dall’Oglio, Milano 1962, p. 189.

  55. Aldo Ferrari, La foresta e la steppa. Il mito dell’Eurasia nella cultura russa, Scheiwiller, Milano 2003, p. 219.

SICILIA: GEOPOLITICA DI UN’ISOLA AL CENTRO DEL MONDO

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Nel 1966, parlando della Sicilia, Fernand Braudel la descriveva come un “continente in miniatura”, definizione che, anche prescindendo da considerazioni di carattere storico-culturale, trova riscontro nella straordinaria varietà geologica, di clima e di rilievi che contraddistingue la più grande isola del Mediterraneo. Periferia meridionale dell’Italia e di un’Europa saldamente imperniata sull’asse franco-tedesco, la Sicilia è in realtà caratterizzata da un’intrinseca centralità geografica, che ne ha fatto nel corso dei secoli terra di conquista da parte di greci, fenici, romani, vandali, ostrogoti, bizantini, arabi, normanni, francesi, spagnoli, piemontesi, austriaci e nuovamente spagnoli fino all’annessione, nel 1861, al Regno di Sardegna.

Situata a metà strada tra lo Stretto di Gibilterra ed il Canale di Suez, la Sicilia è parte integrante sia dell’Europa che dell’Africa, appartenendo prevalentemente alla prima da un punto di vista geografico e alla seconda da un punto di vista geologico. La sua collocazione al centro del Mediterraneo, bacino sul quale, almeno fino alla scoperta dell’America, si affacciavano le principali civiltà del mondo allora conosciuto, spiega anche il ruolo di primo piano svolto dalle elite siciliane all’interno dei popoli avvicendatisi nel dominio dell’isola. Se lo scienziato e matematico siracusano Archimede e il filosofo, poeta e scienziato agrigentino Empedocle sono considerati tra i maggiori geni che la civiltà greca abbia espresso, non meno importante è stato il contributo fornito da un altro siciliano, Jawhar al-Siqilli, allo sviluppo della civiltà islamica: conquistatore del Nordafrica per conto della dinastia fatimide, il generale ibleo fu anche il fondatore della città del Cairo, nonché della prestigiosa Università al-Azhar, tra le più antiche al mondo ancora funzionanti. Un sodalizio, quello tra la Sicilia e l’Islam, che al di là dei momenti di scontro vide il rifiorire dell’isola sotto gli arabi, i quali, più di ogni altro popolo, seppero percepirne la centralità. Significativa in tal senso è una testimonianza secondo la quale una fontana araba in Sicilia recava la seguente iscrizione: “Sono nel centro del giardino, questo giardino è il centro della Sicilia, e la Sicilia è il centro del mondo”.

La centralità della Sicilia, che gli arabi continuarono a considerare componente inalienabile del mondo islamico anche in seguito alla conquista normanna dell’isola, è strettamente legata a quella del mare in cui quest’ultima è incastonata. Delimitato ad ovest dallo Stretto di Gibilterra e ad est dal Canale di Suez, il Mediterraneo è un lago del Continente Antico, mettendo in comunicazione le coste meridionali dell’Eurasia con quelle nordafricane, all’interno di uno spazio geopolitico di cui anche la Russia fa parte, in quanto bagnata dalle acque del Mar Nero, che del Mediterraneo costituisce la naturale continuazione. Da qui la caratterizzazione di mediterraneus, “in mezzo alle terre”, affibiata dai romani e poi ripresa dagli arabi, che ribattezzarono il Mare Nostrum al-Baḥr al-Abyaḍ al-Mutawassiṭ, “Mar Bianco di Mezzo”.

Se consideriamo il ruolo del Mediterraneo come via di comunicazione globale tra l’oceano Atlantico, di cui costituisce un mare interno e l’oceano Indiano, ci rendiamo conto di come questo bacino sia in realtà il nucleo di un “Mediterraneo allargato”, talvolta denominato “Cindoterraneo”, che passando per Suez consente un flusso incessante di merci, persone e capitali dalla Cina e dall’India fino in Europa. Da qui l’importanza della Sicilia, che di tale nucleo costituisce il crocevia. Parafrasando Mackinder in un’ottica marittima, potremmo affermare che “chi controlla la Sicilia controlla il Mediterraneo; chi controlla il Mediterraneo controlla il Cindoterraneo; chi controlla il Cindoterraneo controlla il mondo intero”. Non a caso il controllo geopolitico della Sicilia è stato una delle chiavi della supremazia anglosassone degli ultimi tre secoli, un controllo ottenuto dagli inglesi nell’Ottocento mediante il sostegno di Londra all’unificazione italiana e rafforzato, in seguito alla seconda guerra mondiale, dall’adesione dell’Italia alla NATO. Peraltro, la dimensione globale del Mediterraneo risale a prima che il Canale di Suez, la “giugulare dell’occidente”, venisse inaugurato. Per secoli, infatti, le merci provenienti via mare dall’Asia sud-orientale attraverso la cosiddetta “Via dell’incenso” raggiungevano il Delta del Nilo alternando gli itinerari terrestri lungo il Deserto orientale alla navigazione fluviale a nord della Prima Cateratta, un sistema analogo a quello che ha consentito al mar Caspio, mare chiuso per antonomasia, di connettersi con il mar Nero e di conseguenza con il Mediterraneo attraverso i corsi, entrambi navigabili, del Don e del Volga.

L’appartenenza della Sicilia all’Italia, di cui costituisce la regione più grande e popolosa, ha rappresentato un freno allo sviluppo delle potenzialità geopolitiche dell’isola, che se fosse indipendente potrebbe rivendicare, non senza fondamento, la sovranità su Malta. Seguendo una logica paradossale che ha sempre caratterizzato la storia di questa terra, va rilevato che è stata la sua conquista da parte di un esercito straniero, quello statunitense nella fattispecie, ad averne rispolverato l’importanza strategica. Oggi, con le sue sedici basi NATO, la Sicilia è uno dei principali avamposti dell’impero americano, un ruolo destinato a rafforzarsi con la costruzione della stazione di terra di Niscemi del MUOS, il super sistema di telecomunicazioni satellitari della marina militare statunitense e la trasformazione della base aerea di Sigonella nella principale base operativa dell’AGS, il programma interforze NATO di sorveglianza aerea del territorio. Quello di Washington per la Sicilia è un interesse che parte da lontano, allorché, all’indomani della resa di Cassibile, alcuni settori dell’amministrazione statunitense, con la complicità di Cosa Nostra, presero in considerazione la possibilità che l’isola si separasse dall’Italia per unirsi agli Stati Uniti come suo cinquantesimo stato. Un progetto simile sarebbe stato accarezzato, alcuni decenni più tardi, anche dal colonnello Gheddafi, che ipotizzò l’annessione della Sicilia alla Jamāhīriyya libica.

L’attenzione per la Sicilia è dunque un fenomeno di lunga data, che ha accomunato, nel corso della storia, popoli anche molto diversi tra loro. Tutto ciò contrasta con la scarsa consapevolezza che i siciliani hanno dell’importanza strategica della propria terra, spesso ritenuta periferica rispetto agli interessi delle principali potenze. Come dimostra il crescente attivismo militare nel Mediterraneo da parte non soltanto degli Stati Uniti, ma anche della Russia e, in misura minore, della Cina, la Sicilia ha invece tutte le carte in regola per giocare un ruolo primario nella ridefinizione degli equilibri mondiali a partire da questo quadrante del globo. Per fare ciò è tuttavia necessario che la classe dirigente italiana prenda coscienza degli interessi del nostro paese in quanto potenza non soltanto europea, ma più propriamente eurafricana, attributo, quest’ultimo, che l’Italia deve proprio a quel suo piccolo, grande continente chiamato Sicilia.

* Giovanni Valvo è un analista geopolitico indipendente specializzato in questioni eurasiatiche.

PANTANO KOSOVARO

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Si è soliti affermare che la sfida elettorale sia un gioco a somma zero: uno dei candidati vince mentre gli altri perdono. Ma in Kosovo, il buco nero d’Europa, anche i postulati della teoria dei giochi perdono valore e logica e il candidato uscito vincitore dalle urne può ottenere solamente la proverbiale vittoria di Pirro, mentre la regione sprofonda nel caos politico.

Preso atto dello stallo politico – decisionale dei lavori parlamentari, il 7 maggio scorso il Presidente del Kosovo Atifete Jahjaga ha ufficialmente sciolto il Parlamento di Pristina e indetto nuove elezioni in seguito al deciso “no” opposto dalla minoranza serba alla proposta fortemente voluta dal premier Thaci di trasformare le forze di sicurezza del Kosovo in un vero e proprio esercito effettivo e regolare. Opposizione dei rappresentanti serbi che ha impedito il raggiungimento del quorum necessario all’approvazione del disegno di legge in questione. (1) In materia, infatti, la Costituzione kosovara impone una doppia garanzia: una maggioranza dei 2/3 dei parlamentari e il voto favorevole dei 2/3 dei rappresentanti delle minoranze che siedono in Assemblea.
Nonostante la prospettiva di trasformare il “battaglione” di circa 5000 unità cui spettano compiti di polizia in vera forza militare nazionale sia una palese forzatura della Risoluzione 1244 dell’ONU (risoluzione che molti nella regione sembrano aver dimenticato), la proposta governativa di creare un esercito regolare può essere valutata come un ulteriore tentativo di Pristina di affermarsi come entità istituzionale autonoma e riconosciuta declinando la definizione weberiana di Stato quale comunità umana, che nell’ambito di un determinato territorio, riesce a conquistare e a detenere il monopolio della violenza legittima. Il monopolio della forza, quindi, come attributo essenziale dello Stato. L’esercito come simbolo di tale monopolio.
Il “no” serbo alla formazione di un esercito effettivo facente capo a Pristina ha – anche – radici di natura politico-elettorali: le elezioni legislative, infatti, si sarebbero dovute tenere nel mese di novembre e, in occasione di queste e in seguito alla pressante richiesta partita da Bruxelles, il Parlamento stava lavorando alla riforma elettorale che avrebbe portato all’abolizione del numero minimo di rappresentanti garantiti per le minoranze etniche della regione (garanzia preziosa per i serbi del Kosovo); questa riforma conteneva disposizioni che avrebbero assegnato il numero di seggi alle minoranze sulla base dei consensi ottenuti. Questo fattore ha spinto i deputati serbi a spingere per lo scioglimento del Parlamento e le elezioni anticipate al fine di mantenere il “privilegio” elettorale.

 

I risultati delle elezioni

Il voto dei Serbi
Le elezioni si sono tenute su tutto il territorio della regione in modo transparent and well-organised, and consolidated progress made in the 2013 municipal elections, according to the preliminary findings of the European Union Election Observation Mission. Election Day was calm and passed without major incident as voters cast their ballots throughout Kosovo, including in the north. (2)
Già di per sé questo rappresenta una notizia. L’altra è che le legislative dello scorso giugno sono state le prime elezioni in cui la comunità serba del Nord del Kosovo ha partecipato nonostante le schede riportassero i simboli identificativi delle non riconosciute istituzioni di Pristina.
Alla vigilia delle elezioni il premier serbo Aleksandar Vucic e il Ministro degli Esteri Dacic si erano prodigati per spingere i serbi del Kosovo ad una ampia partecipazione con il fine di permettere ai connazionali che abitano la regione di difendere i propri interessi: “la miglior scelta per i Serbi è di partecipare alle elezioni”. (3)
Come accaduto in occasione delle elezioni municipali dello scorso novembre, Belgrado ha dato vita ad una lista Srpska che, per la prima volta, presentava uniti sotto un unico simbolo le diverse anime politiche rappresentanti le istanze dei Serbi del Kosovo: quelle dei “patrioti” del Nord che gestivano le istituzioni parallele di Belgrado e quelle dei cosiddetti “traditori” del resto della regione che, in questi anni, hanno scelto la via della collaborazione con le istituzioni di Pristina. La necessità di un voto compatto e numeroso era dovuta all’importanza dell’obiettivo da raggiungere: 20 seggi in Parlamento per essere in grado di influenzare le politiche del Governo kosovaro. Nelle parole di Drecun, Presidente della Commissione Parlamentare su Kosovo e Metohija, c’era il bisogno di rafforzare la posizione e l’influenza nella provincia mentre il capolista della Srpska Stojanovic aveva invitato i serbi a non boicottare per l’ennesima volta l’appuntamento: “se boicottiamo, può facilmente accadere che i nostri 10 seggi siano presi dalle persone che vogliono formare l’esercito del Kosovo (KAF)”.
L’appello non ha, però, riscosso il successo sperato alla vigilia: 53.000 degli aventi diritto al voto si sono recati alle urne, 15.000 di questi nella parte Nord della regione.

PDK: primo partito di minoranza
I risultati usciti dalle urne e ufficializzati dalla Commissione Elettorale Centrale del Kosovo hanno confermato il successo del Partito Democratico del Kosovo (PDK) del premier uscente Hashim Thaci che ha ottenuto il 30.38% dei consensi e che ha preceduto la Lega Democratica del Kosovo (LDK) di Isa Mustafa (25.24%) e il movimento nazionalista di Albin Kurti Vetevendosje! che ha conseguito il 13.59% dei voti. Il partito di Ramush Haradinaj, l’Alleanza per il futuro del Kosovo (AAK) ha ottenuto il 9.54% mentre il neo soggetto politico di Fatmir Limaj, Iniziativa per il Kosovo (NISMA) fuoriuscito dal PDK di Thaci, al primo test elettorale ha superato la soglia di sbarramento fissata al 5% ed entra in Parlamento con il 5.15% dei suffragi. (4) Alla lista Srpska il 5.22%.
Così le forze politiche nella Kuvendi i Kosovës, l’Assemblea Parlamentare: su 120 seggi, 37 per il PDK di Thaci, 30 per LDK di Mustafa, 16 per il movimento nazionalista di Kurti, 11 quelli conquistati da Haradinaj, 6 a NISMA e 9 alla lista Srpska. I rimanenti sono riservati alle altre minoranze etniche della regione.

Pantano Kosovo: caos politico e costituzionale
Alla luce di quanto emerso dalle urne, non c’è stato alcun vincitore. I risultati elettorali ufficiali hanno fotografato una lotta politica mai verificatasi nella regione, lotta politica che ha alterato gli equilibri tra le varie forze politiche kosovare aprendo, così, una fase critica nella vita politico-istituzionale di Pristina. Un pantano in cui rischia di arenarsi la truppa guidata dall’incumbent Thaci, Primo Ministro in carica dal 2008, che ha riportato la proverbiale vittoria di Pirro: il 30.38% è bastato sì per poter affermare di aver vinto la battaglia elettorale, ma difficilmente gli consentirà – almeno in tempi brevi – di formare il nuovo esecutivo. Non sono bastati i proclami elettorali, la nuova missione, il miraggio di investimenti per 1.5 miliardi di euro e la promessa di 200.000 posti di lavoro per far dimenticare l’onta delle ripetute accuse di corruzione e di cattiva gestione della res publica rivolte al suo partito. Il PDK si ritrova, adesso, isolato e sotto attacco anche nell’Assemblea del Kosovo dopo che il fedele alleato AKR (Alleanza per il Nuovo Kosovo), il movimento guidato dal magnate ed ex Presidente del Kosovo Behgjet Pacolli (5), non ha superato la soglia di sbarramento del 5%.
Il PDK di Thaci si ritrova ad essere soltanto il primo dei partiti in minoranza che formeranno il prossimo Parlamento: difficile raggiungere la maggioranza parlamentare, 61 seggi, potendo contare sui propri eletti (37) e sul voto favorevole di alcuni rappresentanti delle minoranze etniche. Per consolidare il proprio potere Thaci necessiterebbe dell’appoggio di uno degli altri grandi partiti, l’AAK di Haradinaj e del LDK di Mustang, con questi spinti dalla comunità internazionale a cedere ad una alleanza con il rivale. Dapprima Thaci ha corteggiato il compagno di battaglia Ramush “Rambo” Haradinaj mentre, negli ultimi giorni, Dardan Mollicaj ha rivelato che il PDK ha offerto al proprio movimento Vetevendosje! (i cui 16 seggi sono necessari per sostenere qualsiasi alternativa di Governo) la carica di Primo Ministro oltre a sei ministeri. (6)
Sul piano puramente teorico il ragionamento non ha falle. Il discorso politico, però, segue rotte diverse da quelle battute dal ragionamento logico. AAK e LDK, infatti, hanno compiuto la prima mossa sparigliando le carte sul tavolo e scompaginando i piani dell’establishment del PDK e hanno stretto un patto con NISMA di Limaj (fuoriuscito proprio dal PDK) per opporsi ad un possibile governo Thaci Ter e al suo sistema di potere. La coalizione post-elettorale dovrebbe contare anche sull’appoggio esterno di Vetevendosje! che ha posto alcune condizioni al proprio voto di fiducia, come una maggiore lotta alla corruzione dilagante in Kosovo, la sospensione delle privatizzazioni in corso e lo stop al dialogo con Belgrado, da rinviare a tempi in cui il peso politico dello Stato sia maggiore. Il cartello delle opposizioni ha già espresso il suo candidato alla carica di Primo Ministro in Ramush Haradinaj, mentre Isa Mustafa andrebbe a occupare la poltrona di Presidente della Repubblica del Kosovo.
In questi lunghi anni di potere ininterrotto, supportato dalla compiacenza delle diplomazie internazionali più influenti come quella statunitense, agevolato da un inefficace sistema di bilanciamento dei poteri, da un Parlamento debole e asservito alle volontà del leader e da un controllo di istituzioni che la Costituzione vorrebbe indipendenti, il PDK ha potuto accaparrarsi le risorse del Kosovo tralasciando lo sviluppo della regione.
Nel sistema kosovaro di gestione della cosa pubblica chi perde il potere, perde tutto.
E Thaci non ha alcuna intenzione di passare la mano.
Lo stallo politico post-elettorale è arrivato davanti sino davanti ai giudici della Corte Costituzionale che, in questi giorni, sono stati chiamati ad esprimere un giudizio sulle disposizioni riguardanti i poteri del Presidente della Repubblica in materia di assegnazione dell’incarico di formare il nuovo governo. Al pantano politico si è aggiunto quello costituzionale.

Oggetto della disputa di diritto due commi dell’articolo 95 della Costituzione kosovara:
1. Pas zgjedhjeve, Presidenti i Republikës së Kosovës i propozon Kuvendit kandidatin për Kryeministër, në konsultim me partinë politike ose koalicionin që ka fituar shumicën e nevojshme në Kuvend për të formuar Qeverinë.
[1. Dopo l’elezione, il Presidente della Repubblica del Kosovo propone all’Assemblea un candidato a Primo Ministro, di concerto con il partito politico o coalizione che ha vinto la maggioranza nell’Assemblea necessaria per la formazione del governo.]
4. Nëse përbërja e propozuar e Qeverisë nuk merr shumicën e votave të nevojshme, Presidenti i Republikës së Kosovës, brenda dhjetë (10) ditësh emëron kandidatin tjetër sipas së njëjtës procedurë. Nëse as herën e dytë nuk zgjidhet Qeveria, atëherë Presidenti i Kosovës i shpall zgjedhjet, të cilat duhet të mbahen jo më vonë se dyzet (40) ditë nga dita e shpalljes së tyre.
[4. Se la composizione proposta del Governo non ottiene la maggioranza necessaria di voti, il Presidente della Repubblica del Kosovo nomina un altro candidato con la stessa procedura entro dieci (10) giorni. Se il governo non è eletto per la seconda volta, il Presidente della Repubblica del Kosovo annuncia elezioni, che saranno avviate entro e non di quaranta (40) giorni dalla data di annuncio.]

In base al comma 1, chi ha, dunque, il diritto di formare il Governo? Il partito che ha vinto e la coalizione formata prima delle elezioni oppure è possibile anche che sia una coalizione post-elettorale?
La corte Costituzionale ha espresso il proprio giudizio interpretando le disposizioni della Carta; il partito che ha ottenuto più voti in Parlamento deve avere il diritto di formare il Governo seguendo la via del combinato disposto con l’articolo 84.14 che indica al Presidente della Repubblica di dare l’incarico ad un candidato dietro proposta del partito o della coalizione che detiene la maggioranza dell’Assemblea (ovviamente una coalizione formata precedentemente il voto). Seguendo il parere della Corte, quindi, il Presidente del Kosovo ha incaricato lo stesso Thaci di formare il nuovo esecutivo che dovrà presentarsi in aula per la fiducia entro 15 giorni.
E se il primo tentativo di ottenere la fiducia parlamentare non avesse esito positivo?
Come disposto dal comma 4 dell’articolo in questione, sono soltanto due le possibilità per dare vita ad un nuovo esecutivo. In caso contrario si torna alle urne. Questo scenario, tutto da decifrare, appare il più probabile. Ancora da chiarire in tutta la sua portata la definizione dell’aggettivo altro candidato. Un secondo candidato dello stesso partito (coalizione) del PDK? Oppure un candidato facente parte di un’altra coalizione?
In caso di mancata fiducia al Governo proposto dal primo candidato indicato, logica vuole che il Presidente della Repubblica affidi il nuovo incarico ad una personalità in grado di attirare sul suo programma i favori della maggioranza dell’Assemblea. Allo stato attuale, solo un candidato espresso dalla coalizione anti-Thaci potrebbe riuscire nell’impresa di costituire un Governo se non propriamente stabile e con prospettive durature almeno alternativo al vigente sistema di potere.
Ma, come detto in precedenza, in Kosovo chi perde il potere, perde tutto. Per questo motivo non è fuori luogo ritenere che lo spettro di nuove elezioni si aggiri per i palazzi delle istituzioni di Pristina. Il PDK, in caso in cui non riesca a formare il nuovo esecutivo, farà in modo che nessuna soluzione alternativa possa prendere vita causando uno stallo politico che porterebbe ad elezioni anticipate. L’opposizione, sempre più unità, rivendica il proprio ruolo nelle parole di Isa Mustafa, leader di LDK: “La coalizione dell’opposizione kosovara ha il diritto di formare un gruppo parlamentare e di ottenere l’incarico di presidente dell’Assemblea nazionale. Abbiamo il diritto di creare un gruppo parlamentare congiunto e lo faremo”. (7)

Chi di spada ferisce, di spada perisce
La Storia spesso si va beffa delle vicende umane. Gli uomini politici non ne sono esenti.
Lo stesso Thaci che è diventato leader della regione autoproclamatasi Stato dopo aver combattuto strenuamente contro i Serbi: gli esponenti serbi che siederanno in Parlamento potrebbero mettere fine al suo potere. I deputati della lista Srpska possono giocare un ruolo centrale perché in grado di spostare gli equilibri e i rapporti di potere tra le varie forze entrate nell’Assemblea. Se la Srpska dovesse diventare elemento fondamentale nel nuovo Esecutivo, Belgrado sarebbe riuscita nell’intento di portare la leadership di Vucic all’interno delle istituzioni kosovare e fornire alla Serbia una testa di ponte all’interno del sistema di Governo del Kosovo in attesa della costituzione di quella Associazione delle Municipalità prevista dagli accordi di Bruxelles siglati nell’aprile del 2013.(8)

NOTE
1) Le difficoltà nei lavori parlamentari si erano palesate anche in occasione delle discussioni relative alla creazione del Tribunale Speciale per i crimini di guerra commessi durante gli anni della guerra e in occasione della privatizzazione delle Poste e Telecomunicazioni del Kosovo (PTK).
2) European union election observation mission Kosovo1 legislative elections 2014, Press release: eu observers find elections consolidate progress in democracy in kosovo, 9 giugno 2014.
3) A. Rettman, Ethnic serbs vote as normal in Kosovo election, Euobserver, 10.6.2014.
4) Qui i dati completi relativi alle elezioni anticipate: http://www.kqz-ks.org/en/home
5) L’AKR ha conquistato il 4.5% dei voti, non sufficienti per entrare in Parlamento. Il leader Pacolli ha richiesto alla Commissione Elettorale Centrale il riconteggio dei voti.
6) http://osservatorioitaliano.org/read/124954/interni-pdk-offre-a-vetevendosje-carica-di-primo-ministro-e-sei-ministeri
7) http://www.agenzianova.com/a/53bab50304c483.55117103/830413/2014-07-07/kosovo-mustafa-ldk-opposizione-ha-diritto-a-creare-gruppo-parlamentare
8) A Belgrado si aspettavano risultati maggiori nel Nord del Paese. Nel caso in cui l’affluenza fosse stata maggiore, Vucic avrebbe dato un segnale di forza, dimostrando di essere in grado di controllare i Serbi che abitano il Nord della regione.

L’AVANZATA DELL’ISIS E I RISCHI PER LO SCENARIO MEDIORIENTALE

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Di fronte all’avanzata dell’ISIS in Iraq e in Siria e al rinfocolarsi del problema del fondamentalismo armato, che potrebbe riproporre un’emergenza terroristica su scala globale, si impone in maniera lampante una riflessione sull’utilità delle due guerre condotte dagli Usa nello stesso Iraq e in Afghanistan per debellare la minaccia terroristica. A prima vista esse non hanno prodotto i risultati sperati, anzi sembrano aver peggiorato il quadro della regione, che appare precipitato in uno stato di instabilità perdurante. Il nascente Stato Islamico dell’Iraq e del Levante con la sua crescente influenza nell’universo jihadista potrebbe riproporre una minaccia ancora più seria, come vedremo, rispetto a quella posta in passato dalla stessa al-Qaida, che l’ISIS sembra aver scalzato nei propri territori.
La storia dell’Iraq democratico sorto a seguito all’intervento militare americano – il cui governo si è poi appoggiato sempre più sul sostegno dell’elemento sciita – sembra essere giunta al capolinea. Baghdad è sul punto di cadere nelle mani dei miliziani dell’ISIS, dopo che questi, già forti del controllo del governatorato dell’al-Anbar, il 10 giugno scorso sono entrati in possesso della città strategica di Mosul (Falluja era già stata catturata in gennaio), mentre l’esercito iracheno non appare in grado di opporre alcuna resistenza efficace. Migliaia di profughi iracheni si riversano sulle frontiere del Kurdistan e della vicina Turchia, che ha minacciato più volte l’intervento a difesa dei propri cittadini iracheni (anche se essa finanzia in effetti i ribelli siriani contro Assad e ha interesse a debellare il PKK). Il confine (artificiale, disegnato a Versailles) che separava Iraq, Siria e Giordania è de facto divenuto inesistente, risultando completamente in mano alle forze ribelli. Senza contare il pericolo che i grandi stabilimenti petroliferi del paese vengano conquistati, contribuendo ad accrescere delle tensioni inflazionistiche sul costo del petrolio.
L’ intervento americano, sia tramite droni sia tramite invio di forze militari (di fatto impraticabile), è al momento da escludere. Obama nel suo ultimo discorso si è limitato a porre la questione di un coinvolgimento della componente sunnita, che ne è attualmente esclusa, all’interno della compagine governativa, auspicando una soluzione eminentemente politica della crisi. Al Maliki tuttavia sembra aver opposto un diniego alla creazione di un governo di unità nazionale accanto ai sunniti (1).
Dall’altro lato tale stato di cose, se si tenta una visione di lungo periodo del problema, appare, se non favorevole agli USA, ben lungi dal richiedere un intervento diretto degli Stati Uniti. Un persistente scenario di instabilità nell’area siriano-irachena, non sappiamo quanto provocato deliberatamente da Washington (sopratutto se si pensa ai finanziamenti dei Sauditi, del Kuwait e del Quatar soprattutto all’ISIS), potrebbe in futuro essere un’arma di ricatto a disposizione contro un Iran divenuto temibile con la dotazione di un eventuale arsenale atomico. Essa appare ad ogni modo una strategia rischiosa e a prima vista inspiegabile se si pensa ai 24 miliardi di dollari spesi dagli USA per armare l’esercito iracheno, e inoltre che potrebbe mettere seriamente in pericolo la stabilità in Medio-Oriente. Sebbene possa servire a rendere più malleabile l’Iran, potrebbe in realtà trasformarsi in un’arma a doppio taglio, se si pensa a quali potrebbero essere le conseguenze ad esempio per l’integrità di Israele e i pericoli di una accresciuta tensione tra Arabia Saudita e Repubblica islamica iraniana.
L’avanzata dell’ISIS risulta essere almeno in parte figlia della guerra civile in corso in Siria, le cui frontiere costituiscono un retrovia strategico per i guerriglieri operanti nel vicino Iraq e comandati da Abu Bakr al Baghdadi. Questi ultimi, ultrawahhabiti ed alleati con una componente non irrilevante di ex lealisti del regime di Saddam Hussein, erano un tempo contigui ad al-Qaida, che però ne ha ripudiato l’affiliazione, giudicando troppo radicali i propositi dello Stato Islamico (2). Lo sviluppo del fenomeno jihadista armato è però soprattutto una conseguenza del diffuso malcontento contro il regime di Al-Maliki, giudicato dispotico, che si trascina quanto meno dal 2011 con le proteste esplose nelle regioni del nord-ovest del paese duramente represse dal governo centrale, subito circondatesi di una legittimazione confessionale (l’appello anacronistico alla lotta contro i regimi “safavidi” non lascia dubbi).
L’intento della costituzione di una sorta di “califfato” sunnita tra le regioni a maggioranza sunnita di Iraq e Siria, con la prospettiva peraltro di un allargamento al “Levante” dello Stato Islamico (il che equivarrebbe a coinvolgere i territori di Libano, Giordania, Palestina e Turchia meridionale), non può che presupporre una genesi comune di tale fenomeno nei due paesi, tanto più che una parte del fronte al-Nusra siriano è confluito nell’ISIS, anche se le due organizzazioni tengono a mantenersi nettamente distinte, e se si tiene conto che lo stesso ISIS opera in Siria contro il regime di Damasco e contro altre cellule terroristiche antagoniste.(3) La polemica sorta tra al-Baghdadi e Ayman al-Zawahiri ha aperto serie divisioni in seno al fronte jihadista siriano, contribuendo a depotenziare il conflitto contro la permanenza di Assad al potere in Siria, la cui posizione appare più solida con la vittoria delle recenti elezioni.
C’è infine la questione del Kurdistan e delle sue pulsioni autonomiste, aggravate dal sorgere della minaccia ISIS. L’apparente avvicinamento tra governo centrale di Baghdad e Erbil, la decisione di Barzani, presidente della regione autonoma curda, di mettere a disposizione i peshmerga contro i miliziani sunniti, eventi determinati dalla volontà di contrastare la crescente emergenza jihadista, non possono in realtà nascondere le rivalità crescenti e il distacco tra le due realtà territoriali, tanto più che il Kurdistan si è mostrato fino ad ora padrone della situazione (anche se una rinnovata offensiva su Kirkuk potrebbe mettere in discussione tale predominio curdo) e in grado di svolgere un ruolo economico e politico crescente nell’area, come sembrano dimostrare i recenti colloqui avviati con Erdogan da parte di Barzani.(4) Il rischio è che al conflitto di natura confessionale, si sovrapponga anche quello etnico (arabo- curdo, per ora latente), il che determinerebbe la fine definitiva – ammesso che non vi sia già stata – dell’integrità territoriale irachena.

NOTE
1 http://www.lastampa.it/2014/06/25/esteri/iraq-maliki-gela-gli-usa-ed-esclude-un-governo-di-unit-nazionale-4615GUqHmiKe2a4rlUYtrI/pagina.html
2 http://www.presstv.com/detail/2014/02/07/349703/isis-too-extreme-for-alqaeda/
3 http://www.reuters.com/article/2013/05/17/us-syria-crisis-nusra-idUSBRE94G0FY20130517 e http://temi.repubblica.it/limes/al-qaida-ha-perso-lisis-liraq-ha-ritrovato-la-guerra-civile/58289
4 http://temi.repubblica.it/limes/guerra-a-isis-tregua-con-baghdad-la-strategia-dei-curdi-diraq/63539


STEFANO VERNOLE E ALIREZA JALALI ALL’IRIB: USA E GB USANO TERRORISTI ISIS PER COSTRINGERE AL -MALIKI ALLE DIMISSIONI

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TEHERAN (IRIB)- Stefano Vernole, saggista e vice direttore della rivista Eurasia e Alireza Jalali, scrittore e analista delle questione del Medio Oriente e del mondo Islamico sono stati ospiti nel programma ‘Tavola Rotonda’ di questa settimana.
Le tematiche trattate durante il dibattito: il terrorismo takfiri in Iraq e nel Medio Oriente e l’aggressione israeliana contro la popolazione indifesa di Gaza.

Qui potrete ascoltare la registrazione dell’intervista.

 

DE LA GINGHIS HAN LA IDEOCRAȚIE. VIZIUNEA EURASIANISTĂ A LUI NIKOLAI TRUBEȚKOI

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Prinţul Nikolai Trubeţkoi (1890, Moscova), binecunoscut ca fondator al fonologiei şi considerat, împreună cu Roman Jacobson, unul dintre întemeietorii revoluţiei lingvistice şi al “structuralismului”, a murit în 1938 la Viena, unde condusese catedra universitară de limbi slave. (Puţin înainte de decesul său fusese încarcerat de noii guvernanţi naţional-socialişti ai “Ostmark”.) Academia austriacă de ştiinţe a devenit, de aceea, un fel de administrator al moştenirii sale intelectuale. Însă până acum nu s-a manifestat intenţia de a publica, în afară de operele sale lingvistice, opera Rusia – Europa – Eurasia. Scrieri alese despre ştiinţa culturii[1], care îl indică pe Trubeţkoi ca fondator ar mişcării eurasianiste.
Un asemenea pas ar fi cu siguranţă încurajat de actualitatea conceptului Eurasia. Scrierile sale indică, totuşi, că susţinătorii unei axe Paris-Berlin-Moscova (în sens strict, o formulă pentru occidentalismul rus) sau ai unui mare imperiu rus pot face apel la Trubeţkoi într-o măsură foarte limitată. Din acest volum, pot profita, între altele, cititorii interesaţi de istoria ideilor, chiar cei care nu sunt neapărat eurasianişti, deoarece contribuţiile lui Trubeţkoi sunt relevante pentru înţelegerea raportului general care există între naţionalism şi universalism şi care retrezeşte un interes real pentru cunoaşterea ideilor sale originale mai cu seamă asupra istoriei ruseşti, idei fundamentate ştiinţific – în primul rând, desigur, pe filologia comparată – dar expuse într-un stil captivant.
Volumul conţine note, un indice şi o bibliografie şi, de asemenea, un text intitulat de către editor “Viziunea eurasianistă a lui Nikolai Trubeţkoi: hinterland şi efect”; dar cele mai importante sunt cele patru texte ale lui Trubeţkoi: “Europa şi umanitatea” (1920), “Moştenirea lui Ginghis Han” (1925), “Despre problema autocunoaşterii ruse” (1921-1927) şi “Ideocraţia ca ordine a societăţii viitoare după doctrina eurasianiştilor” (1927/1934).

Infestarea occidentală a Rusiei
“Europa şi umanitatea”, publicată deja în traducere germană în 1922, constă într-o amplă reflecţie asupra raportului corect dintre un naţionalism pozitiv şi cele două poziţii extremiste ale şovinismului şi cosmopolitismului. Dar Trubeţkoi demonstrează apoi că aşa-zisul cosmopolitism nu este decât o altă formă de şovinism, şovinismul civilizaţiei occidentale, pe care – într-o manieră cumva nefericită – Trubeţkoi o numeşte civilizaţia „romano-germanilor”. Aşa cum şovinii nu pot accepta să vadă propria naţiune la acelaşi nivel cu celelalte, ci trebuie să o ridice la rangul de unică naţiune acceptabilă, fapt pentru care cultura lor naţională trebuie impusă tuturor celorlalte, tot astfel se comportă şi cosmopoliţii cu civilizaţia lor occidentală, rezultată din iluminism şi secularizare. Misiunea civilizatoare a Occidentului, care astăzi îşi manifestă imperialismul cultural în confruntarea cu lumea arabă şi islamică şi pretinde acceptarea valorilor „universale” occidentale, este bine subliniată de Trubeţkoi şi demascată în inconsistenţa sa logică. Astăzi, când cosmopolitismul şi şovinismul american se revendică ca unică realitate şi adoptă formele occidentale ale creştinismului – protestantismul şi catolicismul reformat/deformat – prin planurile lor de agresiune, analizele lui Trubeţkoi sunt confirmate într-o manieră evidentă, chiar dacă, de fapt, el nu vorbeşte despre americanizare, ci despre europenizare. Ca efect, America este numai consecinţa extremă a acelor aspecte antitradiţionale ale Europei care au început să se manifeste prin Renaştere, Reformă şi Revoluţie.
Occidentalizarea, numită de Trubeţkoi europenizare, este „un rău absolut pentru orice popor non romano-germanic”, un rău contra căruia „se poate şi este chiar necesar să se lupte din toate puterile. Faptul acesta trebuie înţeles nu exterior, ci interior; nu numai înţeles, ci simţit, văzut, suferit. Este nevoie ca adevărul să apară în toată goliciunea sa, fără înflorituri, fără urme ale marii înşelăciuni, de care trebuie să fie curăţat. Este nevoie să acceptăm în mod clar şi evident imposibilitatea oricărui compromis: dacă lupta este inevitabilă, ea trebuie dusă până la capăt” (p. 88). O caracteristică esenţială a scrierilor lui Trubeţkoi este că ele se referă de obicei, ca fundament mai profund, nu la cultură, economie sau politică, ci la psihologie – sau la personalitate. Mai mult, pentru el trebuie să apară „o răsturnare totală, o revoluţie a psihologie popoarelor non ronamo-germanice. Esenţa acestei răsturnări este conştientizarea relativităţii a ceea ce pare, la o primă vedere, absolut, adică a „avantajelor civilizaţiei europene”. Aceasta trebuie eliminată cu radicalism nemilos. Poate că este dificil, foarte dificil, dar este absolut necesar.” (p. 88)
„Este nevoie de eliberarea popoarelor lumii din hipnoza „avantajelor civlizaţiei” şi de smulgerea lor din sclavia spirituală. Această misiune poate să fie îndeplinită numai printr-o cooperare unanimă. Nu trebuie pierdută din vedere nici măcar un moment esenţa problemei. Nu trebuie să ne abandonăm unui naţionalism particular sau unor soluţii partiale, precum panslavismul, panturanismul şi toate celelalte pan-isme. Aceste particularisme nu fac decât să ascundă substanţa problemei. Este nevoie să ne amintim mereu, cu hotărâre, că opoziţia dintre slavi şi germani sau cea dintre turanici şi arieni nu rezolvă cu adevărat problema. Opoziţia reală este una singură: romano-germanicii şi toate celelalte popoare ale lumii, Europa şi umanitatea.” (p. 89)
Cu aceste cuvinte se încheie „Europa şi umanitatea”. În acest moment, nu este suficient de clar ceea ce scrierile lui Trubeţkoi demonstrează în mod evident, anume că ceea este evocat este lupta împotriva Europei Iluminismului şi imperialismului, adică nimic altceva decât revolta împotriva lumii moderne. O „redresare” în sens tradiţional a Europei, care nu ar mai reprezenta anomalia majoră a umanităţii, ar putea încheia opoziţia evocată mai sus; când Europa ar recunoaşte ceea ce este în realitate, adică o peninsul a marelui continent eurasiatic, nu ar mai reprezenta marea anomalie a umanităţii. Lupta pentru recuperarea tradiţiei în Europa nu poate fi dusă în termenii unui „naţionalism particular” sau a unei anumite forme de „pan”-ism, ci numai împreună cu restul Eurasiei, împotriva Occidentului.
După Trubeţkoi, Rusia a recunoscut în întregime pericolul pe care Occidentul îl reprezenta pentru ea, dar nu a tras concluzia care se impunea, anume că, pentru a respinge acest pericol, trebuia, mai întâi, să obţină anumite succese. „Situaţia era complexă şi dificilă: pe de o parte, avea totuşi nevoie să înveţe pentru a se apăra; de pe altă parte, era teama de a nu cădea în dependenţă culturală şi psihologică în lupta cu Europa. Aşa cum popoarele Europei, deşi declarate creştine, nu au aderat la Ortodoxie, (…) spiritul european a fost perceput de către ruşi ca ceva eretic, păcătos, anticristic şi satanic. Riscul de a fi contaminaţi de o asemenea mentalitatea era foarte mare. Ţarii moscoviţi erau conştienţi de complexitatea situaţiei şi nu au ezitat să purceadă la deprinderea abilităţilor tehnice. (…) Mai devreme sau mai târziu trebuiau să se decidă să achiziţioneze la modul serios tehnologie europeană, luând, în acelaşi timp, măsuri severe de evitare a infestării occidentale. Petru I a fost cel care a luat decizia de adoptare a tehnologiei europene. Însă el s-a lăsat atât de mult condus de propria sa iniţiativă, încât ea a devenit un scop în sine, fără ca să fie luat contramăsuri eficiente împotriva infestării spirituale occidentale” (p. 124). Astfel, cu Petru I a început procesul de europenizare a Rusiei, care a produs consecinţe mai grave decât o ocupaţie militară: pierderea misiunii şi a moştenirii istorice, „moştenirea lui Ginghis Han”. Acesta este şi titlul operei pe care deja o discutăm.
După ce a descris procesul de europenizare condus de Petru I, cunoscut în Occident ca „cel Mare”, de la abolirea patriarhatului Moscovei până la introducerea în costumaţia feminină a decolleté-lui, el reafirmă: „E totuşi adevărat că marele plan al lui Petru I a fost motivat de patriotismul său, dar aceasta nu exclude faptul că este vorba de un patriotism cu totul aparte, lipsit de precedente înrădăcinate în sufletul naţiunii. El nu s-a îngrijit deloc de ceea ce era autentica Rusie istorică, prins cum era de visul său de a edifica un stat similar, sub toate aspectele, cu toate celelalte state europene, dar care să le depăşească fie ca întindere teritorială, fie ca putere militară şi navală. Abordarea sa, în confruntarea cu ceea ce pentru el era numai o substanţă din care trebuia plăsmuită enorma sa creaţie, era marcată nu de dragoste, ci mai degrabă de ostilitate, căci împotriva unei asemenea substanţe trebuia dusă o luptă dură şi nesfârşită, datorită rezistenţei întâmpinate de eforturile sale de a impune imaginea unui ideal cu totul străin de ea” (p. 127).
Adoptarea modelelor naţionaliste occidentale de către succesivele regimuri ţariste panslaviste a dus Rusia la amestecul permanent în chestiunile europene, din cauza ajutorului pe care ea intenţiona să îl dea presupuşilor „fraţi slavi”. „Puterea sovietică” înstăpânită în 1917 nu s-a prezentat „ca antagonistă, ci în calitatea de continuatoare a întregii politici anti-naţionale de europenizare, caracteristică monarhiei de după Petru I” (p. 142). „Cu distrugerea fundamentelor spirituale ale vieţii ruseşti şi ale specificului naţional, cu introducerea acelei concepţii materialiste despre lume care deja se impusese în Europa şi America, , cu supunerea Rusiei faţă de concepţii născute de teoreticienii europeni şi înrădăcinate în solul civilizaţiei occidentale, puterea comunistă a făcut din Rusia o provincie a Occidentului, confirmând cucerirea căreia Petru I îi pusese bazele” (p. 143).

 

Nobleţea nomazilor
Dar care este fundamentul adevăratei Rusia-Eurasia? Rusia-Eurasia este în primul rând, pentru Trubețkoi, „ereditatea lui Ginghis Han”. Triburile slave ”au locuit numai într-o parte puțin importantă a marelui teritoriu care include vechea Rusie” (p. 195). Cea mai mare parte parte a fost de fapt colonizată de triburile turanice (sau „uralo-altaice”). Aceste triburi nomade aveau o structură politică limitată. Doar Ginghis Han a fost capabil să edifice, primul, pornind de la „sistemul eurasiatic al stepei, un stat nomad unificat, cu o organizare militară stabilă”. El a reușit să rezolve problema istorică pusă de însăși natura eurasiatică – problema unei unificări politice a acestui întreg continent. El a înfruntat problema în unicul mod posibil: unificând stepa sub sceptrul său și astfel unificând restul Eurasiei prin intermediul stepei” (p. 96). Pentru statele asiatice deja existente, cum ar fi Persia și China, lucrul acesta a fost un adevărat dezastru: „consecința tuturor acestora a fost că Eurasia a profitat foarte mult dintr-un astfel de proces, în timp ce pentru celelalte țări el a fost foarte dăunător, deoarece cucerirea mongolă a invadat existența lor istorică privându-le de independență și întrerupându-le pentru multă vreme dezvoltarea culturală (…). Chiar dacă în aparență Ginghis Han a atribuit o importanță majoră cuceririi Chinei și restului Asiei propriu-zise, asta nu contrazice faptul că el a îndeplinit o prețioasă misiune istorică mai ales în Eurasia, devenind astfel constructorul unui edificiu istoric valid”. (p. 97).

În cartea sa „Ereditatea lui Ginghis Han”, care recent a fost publicată și într-o ediție italiană[2], Trubețkoi încearcă să reconstruiască istoria acestei „edificări”. Este o perspectivă istorică incitantă, subliniată cu caractere roșii, la care se adaugă, în calitate de complement lingvistic și etno-psihologic, studiul său „Despre problema autocunoașterii rusești”. Popoarele mongole și turcice sunt caracterizate aici pentru dragostea lor pentru simetrie, claritate, stabilitate și echilibru. Totuși, ele înțeleg aceste calități ca date, nu ca scopuri spre care să se tindă: „Încercați și găsiți acele scheme originale și fundamentale, pe care trebuie să se bazeze viața și viziunea asupra lumii, viziune care este asociată mereu în cazul popoarelor turcice cu un puternic sentiment de absență a clarității și stabilității. Datorită unui astfel de motiv popoarele turcice au adoptat mereu cu lejeritate scheme și credințe străine. Dar nu toate concepțiile lumii străine sunt acceptabile pentru aceste popoare. Pentru a fi acceptabilă, o concepție despre lume trebuie să posede elementele clarității și ale simplității (…). O credință religioasă, care este penetrată de mediul turcic, se întărește și se cristalizează inevitabil, fiindcă acolo ea are vocația de a juca rolul unui centru de greutate nemișcat, condiție principală a unui echilibru stabil” (p. 206). Pentru cea mai mare parte a popoarelor turcice, Islamul a devenit o credință care, alături de a lor, a asigurat o clară „cristalizare”; a-l combate e inutil, cu toate că șefii de la Kremlin – cu stilul lor rigid – au încercat să facă asta de aproape o sută de ani. Într-o manieră analoagă mongolii au adoptat budhismul.
În general, Trubeţkoi valorizează pozitiv contribuţia „tipului psihologic turanic”: „Psihicul turanic garantează stabilitatea culturală şi forţa unei naţiuni, întăreşte continuitatea istorică-culturală şi, în general, creează condiţiile favorabile pentru o folosire parcimonioasă a resurselor naţionale” (pp. 212-213). Pentru Trubeţkoi, psihologia este cheia potrivită pentru a înţelege sistemul statal al lui Ginghis Han. El distinge două tipuri de oameni. Pe de o parte, tipul slav, atent mai ales la propriile avantaje materiale, pentru care este capabil chiar de trădare. Este vorba de un tip uman de care Ginghis Han s-a folosit de multe ori, dar pe care l-a dispreţuit mereu, fundamental, şi căruia nu i-a făcut loc în imperiul său. Oamenii celei de a doua categorii sunt cei care „pun onoarea şi demnitatea personală deasupra comodităţii şi siguranţei proprii” (p. 99).
În cursul înfăptuirii ideii sale de imperiu, el a avut proba că primul tip se găsea alături de populaţiile sedentare, în timp ce „nomadul, fără înclinaţii spre munca fizică, atribuie o valoare destul de limitată comodităţilor materiale şi este obişnuit să-şi limiteze nevoile, fără a considera deosebit de neplăcute aceste privaţiuni” (p. 101). Alături de alte virtuţi militare şi de darul fidelităţii faţă de înţelegerile făcute, nomazilor le aparţin şi alte calităţi pe care Trubeţkoi le prezintă în paginile sale; printre acestea, „tradiţiile clanului, sensul viu al onoarei personale şi familiale, conştiinţa responsabilităţii nu numai faţă de antecesori, dar şi faţă de descendenţi” (ibidem). Trubeţkoi descrie un tablou idealizat al nomazilor, care îl evocă pe acela descris de autorul tradiţionalist Titus Burckhardt: „Este demonstrat că nicio altă colectivitate umană nu este mai conservatoare decât cea a nomazilor. În călătoria sa neîntreruptă, nomadul e atent să-şi păstreze moştenirea limbii şi cutumelor; el se opune conştient la eroziunea timpului, căci a fi conservator nu înseamnă a fi pasiv. Aceasta este o caracteristică fundamental aristocratică, de aceea nomadul aminteşte de nobil; mai exact, nobilitatea castei războinice are multe în comun cu nomadul”[3].

Ţar şi slavi
Nobilimea războinică a lui Ginghis Han a practicat şi toleranţa religioasă, dar nu indiferenţa pentru Absolut: „Asumarea din partea supuşilor săi a unei anumite religii era pentru el de o maximă importanţă. De aceea, el nu numai că tolera religiile în statul său, dar le susţinea pe toate cu vigoare” (p. 103). „Jugul tătar” a produs un efect religios pozitiv chiar şi pentru ruşi: „Cel mai important şi fundamental simptom al acestei perioade a fost o excepţională înflorire a vieţii religioase. (…) În această perioadă se poate înregistra o vie activitate creativă în toate domeniile artei religioase: pictura icoanelor, muzica sacră şi literatura religioasă au atins un nivel remarcabil” (p. 105). Statul rus, finalmente liber, care s-a născut din „jugul tătar” este văzut de către Trubeţkoi nu ca un contra-proiect, ci ca „moştenitorul şi succesorul statului lui Ginghis Han” (p. 118); în expansiunea ortodoxiei el vede un râuleţ al acelui torent religios care era deja iniţiat sub „jugul tătar”.
„Fundamentul întregului este construit de către religie, de către „credinţa ortodoxă”, dar „credinţa” era pentru conştiinţa rusească nu un conglomerat de dogme abstracte, ci un sistem coerent al vieţii concrete. Credinţa rusă  şi viaţa rusească nu erau separate” (p. 118), pentru că „întreaga viaţă a naţiunii şi toate activităţile erau determinate şi reglementate de Ţar, care era încarnarea voinţei naţionale şi acţiona ca transmiţător al instrucţiunilor lui Dumnezeu. Ţarul ideal este, de aceea, pe de o parte, responsabil pentru popor şi acţionează pentru el în faţa lui Dumnezeu, iar pe de altă parte el reprezintă instrumentul de mediere a deciziilor divine în viaţa naţională, astfel încât Ţarul este Unsul lui Dumnezeu în faţa poporului” (p. 119). În această parte a textului său, Trubeţkoi se apropie de concepţiile istorice ale slavofililor, cu excepţia notabilă că pentru el nu există o opoziţie esenţială între imperiul mongol şi cel ţarist: „Cu toate că fundamentele statului moscovit diferă de cele ale statului mongol, putem cu toate acestea să întrezărim caracteristicile unei  intime afinităţi (…). Atât în cadrul unuia, cât şi a celuilalt, exista o anume formă de viaţă cotidiană, legată de a anumită psihologie, care constituia fundamentul statului şi caracterul inspiraţiei sale. În imperiul lui Ginghis Han era stilul de viaţă al nomazilor, în statul moscovit era credinţa cotidiană în Ortodoxie. În ambele cazuri, disciplina statului se baza pe supunerea tuturor membrilor fără excepţie şi a regelui însuşi la un principiu non-lumesc, ci divin; subordonarea oamenilor unul altuia şi cea a tuturor faţă de rege era recunoscută ca o consecinţă a subordonării la principiul divin, al cărui instrument divin era regele” (p. 123).
De opoziţia dintre acest model rusesc şi cel al Europei occidentale ne-am ocupat deja; rămâne acum de analizat contrubuţia slavă la cultura rusă. Aici cea mai importantă afirmaţie a lui Trubeţkoi rămâne radicala sa negare a unităţii panslave, cu excepţia limbii literare. „Un caracter slav” sau „o psyché slavă” sunt mituri. Fiecare popor slav are tipul său psihologic specific, iar în caracterul său naţional un polonez e aproape la fel de puţin asemănător unui bulgar ca şi unui suedez sau grec. Nu există niciun tip antropologic, fizic care ar putea fi numit slav. „Cultura slavă” este şi ea tot un mit, fiindcă fiecare popor slav îşi elaborează propria cultură în mod separat, iar influenţele culturale reciproce pe care slavii le-au exercitat unii asupra altora nu sunt mai puternice decât cele pe care le-au suportat slavii din partea popoarelor german, italian, turc şi grec. (…) Ceea ce îi uneşte pe slavi este limba, mai ales limba” (p. 271). Dar chiar şi în ceea ce priveşte limba, rămâne faptul că cea care a dat pecetea proprie limbii literare a fost „biserica slavă”; tradiţia ecleziastică slavă nu a întărit-o „ca limbă slavă, ci ca limbă ecleziastică” (ibidem).
La sfârşitul studiului său despre autocunoaşterea rusă,  Trubeţkoi atribuie Ordotoxiei o poziţie centrală, în sensul că aceasta a ştiut să adune în sine tripla moştenire bizantină, mongolă şi slavă. „Pentru ruşi cultura bizantină nu era, de la început, separabilă de Ortodoxie; statul mongol a devenit stat moscovit numai prin contactul cu Ortodoxia, iar tradiţia ecleziastică slavă a putut duce cu sine fructul limbii literare chiar datorită faptului că era de natură ecleziastică şi ortodoxă.” (p. 272).

Ideocraţia
În scurtul său studiu despre ideocraţie ca ordine socială după doctrina eurasianiştilor, Trubeţkoi integrează unele idei pe care le-a subliniat deja în ordinea socială a lui Ginghis Han şi pe care le-am schiţat mai devreme. Noţiunea sa de „craţie” se referă la selecţia cadrelor statului. Să ne amintim că însuşi Ginghis Han a fost cel care a făcut această selecţie, pe baza unor precise caracteristici psihologice care erau prezente în ierarhia nomazilor şi nu în cea a populaţiilor sedentare. Sistemele sociale aristocratic şi democratic/plutocratic sunt considerate de Trubeţkoi moarte sau „aproape moarte”. Curţile monarhice încă existente nu mai sunt capabile „să influenţeze dezvoltarea culturală şi sunt constrânse să suporte pasiv civilizaţia. (…) La început toţi erau dornici (…) să imite (…) curtea.  Acum, dimpotrivă, membrii caselor regale se preocupă să nu „rămână în urmă” în ceea ce priveşte moda şi să „urmeze majoritatea”” (p. 278). Dar chiar „caracterul selecţiei democratice, care a înlocuit-o pe cea aristocratică, prezintă (…) trăsăturile decadenţei şi ale morţii. (…) Un adevărat „om modern” va vedea întreaga frazeologie democratică ca pe o reminiscenţă a trecutului, mai mult sau mai puţin ca pe o teorie a guvernului birocratic-aristocratic” (p. 279). Cu adevărat „moderne” erau, când Trubeţkoi scria aceste rânduri, bolşevismul şi fascismul, în care el întrevede prefigurări imperfecte ale tipului „ideocratic” de selecţie, adică al concepţiei comune clasei conducătoare. Această idee va părea familiară cititorilor lui Julius Evola, care gândea că oameni de origini sociale diferite, la început animaţi de un simplu spirit patriotic, au putut edifica, pe baza unei concepţii elitiste a statului, un tip de Ordine, pentru a deveni, apoi, gardienii unei noi orânduiri organice a societăţii[4]. Dar bolşevicii şi fasciştii nu pot fi văzuţi, după criteriile lui Trubeţkoi, ca ideocraţi puri. Bolşevicii se găseau într-o situaţie paradoxală, deoarece, din cauza ideologiilor materialiste, ei se găseau în tabăra opusă faţă de cei care guvernează pe baza unei „idei”: „Partidul, care exercită funcţia unei clase conducătoare ideocratice de facto, neagă teoretic orice existenţă autonomă a ideilor şi astfel însăşi posibilitatea ideocraţiei” (p. 281). Partidul Comunist al Uniunii Sovietice era constrâns să pară că la putere nu era el însuşi, ci proletariatul; făcând asta, a rămas prizonier în „patosul luptei”, o atitudine mentală tipic democratică, care a dus la „crearea artificială a unor obiective împotriva cărora trebuie luptat” (ibidem). Şi fascismul se găsea într-o condiţie paradoxală analoagă, prin aceea că „idea” sa era chiar refuzul „teoriei” şi a anumită idolatrie a „practicii”. „Rezultatul acestora constă în faptul că ideea fundamentală a fascismului îşi pierde conţinutul şi (…) se limitează exclusiv la idolatria naţiunii italiene, adică la o autoafirmare naţională. Weltanschauung-ul comun este înlocuit aici de o emoţie comună” (p. 281). Şi aceasta este o critică care ar fi putut veni de la Evola. Spre deosebire de aceste forme imperfecte, adevărata ideocraţie ar prezenta „o structură cu totul aparte, diferită atât de democraţie, cât şi de aristocraţie. (…) Vechile forme, incomplete, de ideocraţie nu s-au eliberat încă total de reziduurile şi fragmentele altor tipologii socio-politice precedente (în special cea democratică). Autentica ideocraţie a viitorului, odată purificată de toate elementele străine de sine, va naşte forme politice, economice şi sociale complet noi – de viaţă, de civilizaţie şi de cultură” (p. 283). Nu se poate nega că structura ideii care va trebui să fie baza ideocraţiei rămâne vag; totuşi, citind aceste părţi din Scrieri asupra ştiinţei culturii, se poate înţelege în ce direcţie se îndreaptă concepţia „ideocratică”. Ideocraţia trebuie să fie una dintre puţinele alternative rămase la forma de guvernare a tehnocraţiei „manageriale”[5], cu atât mai mult cu cât o asemenea concepţie se poate dezvolta în armonie cu tradiţia şi poate pregăti calea spre un Stat fondat pe ereditate, cum este moştenirea lui Ginghis Han sau cea a altor mari fondatori de adevărate imperii, foarte diferite de contrafacerile moderne imperialiste.

 

NOTE

[1] Nikolaj S. Trubeckoj, L’eredità di Gengis Khan, Editrice  Barbarossa, Milano 2005.
[2] Nikolaj S. Trubetzkoy, Russland – Europa – Eurasien. Ausgewählte  Schriften zur Kulturwissenschaft. Herausgegeben von Fedor B. Poljakov. Österreichische Akademie der Wissenschaften Philosophisch-historische Klasse, Schriften der Balkan-Kommission 45. Wien: Verlag der  Österreichischen Akademie der Wissenschaften, 2005.
[3] Titus Burckhardt, “Sacred Web”, No. 3, June  1999, p. 21.
[4] În altă parte am încercat să demonstrez că “islamul politic” al revoluţiei islamice iraniene ar putea fi interpretat ca un tip de ideocraţie platonică: Martin Schwarz, Khomeinis platonischer Idealstaat und die traditionalistische Schule (www.eisernekrone.tk).
[5] „Revoluţia managerilor”, descrisă de James Burnham, poate fi văzută ca o interpretare rivală sau suplimentară a fascismului şi bolşevismului, dar şi a capitalismului occidental, de vreme ce evidenţiază alte caracteristici inegalabile ale acestor sisteme.

GAZA SITUATION REPORT (GEORGE FRIEDMAN ON STRATFOR JULY 14TH 2014)

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Traduzione, sintesi e commento di Corrado Fontaneto

Siamo di fronte al massacro perpetrato – ed in continuo aumento – dalle truppe israeliane nel territorio di Gaza. Gli antefatti sono noti: tre ragazzi israeliani sono stati uccisi da individui non identificati. La reazione è stata ferocissima. Prima un ragazzo palestinese letteralmente linciato vivo, poi un crescendo di attacchi aerei condotti sulla popolazione civile inerme equiparata (includendovi donne, anziani, disabili e bambini) a militanti terroristi a tempo pieno. Nel momento in cui scriviamo queste righe, Israele sta valutando la possibilità di un’invasione per via di terra che implicherebbe la presenza, nel territorio di Gaza, di carri armati e ruspe per uccidere persone e distruggere quelle poche cose che ancora segnalino la presenza di un insediamento umano.
Ancora una volta il direttore di “Stratfor”, George Friedman, nel suo editoriale rappresenta la realtà in un modo pittoresco, ammesso sia possibile impiegare un simile aggettivo in una tragedia come questa.
Il lettore, di primo istinto, seguendo il racconto ha l’impressione che Israele sia di fronte ad una potenza militare uguale alla sua, in possesso di armi che possono colpire indistintamente il territorio israeliano nel triangolo Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa: per fortuna quindi che di fronte a questa pioggia di fuoco con cui – notare – Hamas attacca Israele (sic!) esiste la struttura di Iron Dome che blocca – fin che riesce, sottolinea il nostro (!) – questi attacchi violenti.
Subito dopo il nostro editorialista ammette – forse perché troppo anche per lui – che in realtà esiste una disparità di armamenti, nel senso che Hamas dispone di razzi mentre Israele di missili: in sostanza, è come se qualcuno combattesse le zanzare usando il bazooka. Dato l’evidente effetto comico prodotto, allora il nostro editorialista ripiega su (o aggiunge?) un’ulteriore ragione – forse ancora più surreale- per cui Israele debba ricorrere a questi sistemi: il suo servizio segreto – parliamo del Mossad, ovvero l’intelligence che fino a poco tempo fa si vantava di poter controllare in tempo reale tutti gli spostamenti dei capi e dei militanti di Hamas in tempo reale – non sarebbe stato in grado di fornire ai comandi militari informazioni complete circa il reticolo di tunnel in cui Hamas nasconde le armi con cui terrorizzare la popolazione israeliana e quindi un intervento di terra potrebbe risultare necessario per ovviare a queste carenze informative…!!! Infine, in un lampo di lucidità l’articolo si chiude ricordando che tutta l’attenzione del mondo è puntata su Israele e sulle sue successive mosse e che un attacco via terra avrebbe conseguenze imprevedibili.
Sulla falsariga di tali scempiaggini, vengono poi modellati servizi televisivi in cu stralunati giornalisti parlano dei razzi di Hamas all’interno di piccoli market israeliani dove le persone- in evidente stato di panico- raccolgono con calma le merce comprata o entrano con andatura rilassata nel locale per trascorrere questa – per loro – ennesima perdita di tempo che le distoglie dalle loro attività. Siamo alla manipolazione più sfacciata, conclamata ed evidente eppure nessuno che chieda lumi, ragguagli (men che meno al nostro governo): è un dato di fatto indiscutibile, non c’è nulla da obiettare ..così è se vi pare e se non vi pare è così lo stesso.

(articolo: http://www.stratfor.com/weekly/gaza-situation-report?utm_source=freelist-f&utm_medium=email&utm_campaign=20140714&utm_term=Gweekly&utm_content=readmore#axzz37RaBkCJw)

IMPERIALISM SI IMPERIU

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Imperialismul e un capitol al vocabularului modern; neologisme de specie relativ recentă sunt în majoritate formele lingvistice ce apar cu ajutorul sufismului –ism, care vine și se adaugă elementului radical al adjectivului imperial, dând astfel subiectului o valoare semantică specială, pentru a indica tendința unui Stat de a se extinde pe o arie geografică mai vastă și de a-și exercita aici dominația politică, militară și economică.
Nu a trecut un secol din 1920, când Lenin nota că despre ultimele două decenii ale epocii lui, epoca relațiilor internaționale inaugurate de războiul hispano-american (1898) și de războiul anglo-bur (1899-1902), pentru a o califica, ”în publicistica, atât cea economică cât și cea politică a vechii lumi și a noii lumi va reveni mereu mai des termenul de imperialism” (1) și cita ca exemplară o operă intitulată exact Imperialism, pe care economistul englez J. A. Hobson o publicase în 1902 la Londra și la New York. Vrând astfel să indice conexiunea fenomenului imperialist cu caracteristicile sale economice fundamentale, Lenin formula celebra definiție a imperialismului ca ”eră a capitalului financiar și apoi a monopolurilor” (2). ”Un stadiu specific al dezvoltării economiei mondiale capitaliste” (3), reafirma Paul M. Sweezy.

Nu pare foarte diferită față de diagnoza fenomenului imperialist făcută de conducătorul bolșevic cea a unui exponent al gândirii contrarevoluționare, contele Emmanuel Malynski, care, în aceeași epocă, definea imperialismele ca ”megalomanii naționaliste valorizate ingenios de către rapacitatea capitalistă” (4). Apărător convins al ideii imperiale și apologet înfocat al edificiilor geopolitice distruse în urma războiului mondial și a revoluției bolșevice, aristocratul polonez scria într-adevăr: ”În epoca actuală, ca și în cele două decenii care o preced, noi vedem naționalismul marilor puteri orientându-se decisiv în sensul capitalismului și degenerând rapid în imperialism economic. Ele se vor găsi astfel pe un plan înclinat și vor fi atrase datorită unei conjuncturi de cauze și efecte către imperialismul politic. Astfel, la sfârșit, capitalismul internațional va conduce națiunile spre cel mai gigantic război care a existat vreodată” (5). Pe aceeași linie cu Malynski se afla și Julius Evola atunci când denunța ”contrafacerea imperialistă a ideii imperiale”, ca produs al ideologiei ”de tip naționalist, materialist și militarist” (7) sau al intereselor economice.

Considerat dintr-o perspectivă pur istorică, imperialismul ar putea fi definit astăzi ca „politica marilor puteri europene care tinde la crearea unor imperii coloniale care să domine teritorii extraeuropene din care să extragă materii prime, forţă de muncă şi în care să vândă producţia industrială naţională” (8), încât epoca sa „ar putea fi grosso modo delimitată în timp între 1870 şi izbucnirea primului război mondial, când împărţirea colonialistă era în mare parte terminată” (9).
Însă categoria de „imperialism” a fost folosită şi în legătură cu politica exercitată de către Statele Unite ale Americii în perioadele istorice de după primul şi al doilea război mondial; lucru care nu face decât să confirme că imperialismul este un fenomen tipic al epocii contemporane, corespunzând „unui stadiu specific al economiei mondiale capitaliste” (10) şi asimilabil internaţionalizării capitalismului, ce culminează în globalizare.

Fenomenologia Imperiului
În ceea ce priveşte categoria Imperiului, nu e uşor ca ea să fie definită, dată fiind marea varietate de realităţi istorice care i se pot atribui. Limitându-ne aici la cele care au apărut în aria mediteraneană şi a Orientului Apropiat, se poate constata că cea care a creat modelul originar al ordinii imperiale a fost civilizaţia antică a Iranului, cea care probabil a împrumutat din lumea asiro-babiloniană concepţia monarhiei universale. Dacă între graniţele Persiei fundamentul unei atari concepţii este doctrina omnipotenţei lui Ahura-Mazda, zeul creator al cerului şi al pământului care a atribuit „Regelui regilor” conducerea asupra diverselor popoare, în Babilonia şi în Egipt suveranii ahemenizi fac referire la forme religioase locale şi astfel „asumă caracterul de regi naţionali ai diverselor ţări, menţinând în fiecare dintre acestea figura tradiţională a monarhului de drept divin” (11).
Proiectul monarhiei supranaţionale inspirat lui Alexandru cel Mare de modelul persan se realizează, prin intermediul regatelor elenistice, în Imperiul Roman, care pentru alte patru secole garantează convieţuirea paşnică şi cooperarea unei mari comunităţi de popoare. Fundamentele sale concrete sunt ordinea legală comună (care convieţuieşte cu o diversitate de surse juridice) (12), răspândirea limbii latine (alături de greacă şi alte limbi locale), apărarea armată a graniţelor, apariţia coloniilor destinate a deveni centre de iradiere a influenţei romane în provinciile învecinate, o monedă imperială unică (alături de monedele provinciale şi municipale), o reţea bine pusă la punct de drumuri, transferurile de populaţii.
Ca urmare a căderii ultimului împărat al Occidentului şi a revenirii însemnelor imperiale Constantinopolului, Imperiul roman a continuat să existe pentru încă o mie de ani în aria orientală. „Structura statală romană, cultura greacă şi religia creştină sunt principalele izvoare ale dezvoltării Imperiului bizantin. (…) Imperiul, eterogn din punct de vedere etnic, a fost unit de conceptul roman de stat şi poziţia sa în lume a fost determinată de ideea romană a universalităţii. (…) S-a format o complexă ierarhie de state, al cărei vârf este împăratul Bizanţului, împărat roman şi şef al ecumenei creştine” (13).
Dar după două secole şi jumătate de la încercarea lui Justinian de a restabili puterea universală prin recucerirea Occidentului, un rege franc şi-a pus la Roma coroana imperială. Solidaritatea diverselor părţi ale Sfântului Imperiu Roman – locuite de popoare geloase în ce priveşte identitatea lor etnică şi culturală – se bazează pe legăturile de sânge care-l unesc pe împărat de suveranii care îi sunt subordonaţi, ca şi pe jurământul de fidelitate cu care aceşti suverani se leagă de împărat. Imperiul carolingian nu a supravieţuit mai mult de trei decenii fondatorului său; pentru a renaşte la viaţă, trebuia să se aştepte intervenţia altei dinastii, cea a Ottonienilor, şi transferarea capitalei de la Aquisgrana la Roma.
Cu Frederic al II-lea de Suabia, Imperiul părea a recupera dimensiunea mediteraneană. Dacă Regatul Germaniei e o imagine a Imperiului care oferă spectacolul unei comunităţi de neamuri diferite (saxoni, franci, suabi), versantul mediteranean al Imperiului lui Frederic prezintă o imagine a unor diferenţe şi mai profunde: trilingvismul latino-greco-arab al cancelariei imperiale reprezintă un mozaic de populaţii de origine latină, greacă, longobardă, arabă şi berberă, normandă, suabă, ebraică, care în plus aparţin unor confesiuni religioase diferite. De aceea Frederic, spune un biograf de-al său, „reunea în sine caracterele diverşilor suverani ai pământului; era cel mai mare principe german, împăratul latin, regele normand, bazileul, sultanul” (14). Tocmai acest ultim titlu face evident ceea ce este specific ideii sale imperiale: aspiraţia de a recompune unitatea spirituală şi puterea politică.
Ca urmare a cuceririi Constantinopolului de către Otomani, moştenirea Imperiului roman a fost revendicată de două noi şi distincte formaţiuni imperiale: în timp ce „Imperiul Romano grec şi creştin cade pentru a reveni sub forma unui Imperiu Romano turc şi musulman” (15), generând astfel „ultima ipostază a Romei” (16), Moscova se pregăteşte să devină „a treia Romă”, fiindcă, aşa cum scrie Benedict al XVI-lea, „fondează un patriarhat propriu pe baza unei idei a celei de-a doua translatio imperii şi se prezintă astfel ca o nouă metamorfoză a Sacrum Imperium” (17).
În Europa centrală şi occidentală, Sfântul Imperiu Roman de Naţiune Germană resimte efectul naşterii primelor State naţionale; dar cursul evenimentelor părea a se schimba cu Carol V, „campion al vechii idei europene care azi pare foarte modernă” (18), căci imperiul fondat de Carlo Magno se elibera de aspectul strict german pe care l-a avut între secolele XIV şi XV şi tindea să-şi recupereze caracterul iniţial supranaţional, pentru a-l menţine şi în secolele următoare, până la declinul Monarhiei habsburgice. Per tutto (În genere) Cinquecento-ul şi bună parte din Seicento Imperiul „a fost manifestarea istorică a unei forţe centripete care tindea să unifice diferitele regate în care creştinătatea se răspândise în evul de mijloc; capacitatea sa de agregare, de afirmare şi apoi de menţinere face să apară ipoteza existenţei unor posibilităţi ale istoriei europene altele decât cele care s-au concretizat” (19).
Cu pacea de la Pressburg, Francisc al II-lea a renunţat la demnitatea de Sfânt Împărat Roman, pe care cuceririle napoleoniene o goliseră de substanţa lor teritorială; în acelaşi timp, i s-a oferit lui Napoleon posibilitatea de a prelua moştenirea carolingiană într-un Imperiu de altă factură, un amalgam continental de teritorii ţinute împreună de puterea militară franceză şi conduse de cei care-i erau direct credincioşi Empereur-ului. Astfel, chiar şi exponenţii vechii aristocraţii europene sunt dispuşi să vadă în el „un împărat roman – un împărat romano francez, dacă se vrea, aşa cum primul era german, dar oricum un împărat, căruia Papa i-ar fi fost elemosinier, regii i-ar fi mari vasali, iar principii, vasalii acestor vasali. Un sistem feudal, prin urmare, cu un vârf al piramidei ierarhice care lipsea din vremea Evului Mediu adevărat” (20).

Regândirea Imperiului
Din această foarte limitată şi sintetică trecere în revistă istorică, care ar putea fi foarte bine extinsă de la cazul european la alte arii ale lumii, rezultă că Imperiul nu este pur şi simplu o mare putere politico-militară care exercită un control propriu asupra unui teritoriu extins. Imperiul poate fi mai degrabă definit ca „un tip de unitate politică ce asociază etnii, popoare şi naţiuni diverse dar apropiate şi reunite de un principiu spiritual. Respectuos cu identităţile şi animat de o suveranitate fondată pe fidelitate mai mult decât pe controlul teritorial direct” (21). Orice manifestare istorică a modelului imperial s-a configurat în fapt, dincolo de dimensiunea sa geografică şi de varietatea etnică şi confesională a popoarelor corespunzătoare, pe o ordine unitară determinată de un principiu superior.
În ce priveşte Europa, Imperiul a constituit mereu inima ideală şi politică a sa, centrul de gravitate, până când, cu decadenţa şi apoi cu dispariţia definitivă a celor mai recente forme imperiale, Europa însăşi să se identifice mereu mai mult cu Occidentul, până la a deveni un apendice al superputerii transatlantice şi un cap de pod al acesteia pentru cucerirea Eurasiei.
Dar unipolarismul cu comandă americană nu este etern; tranziţia la un nou „nomos al pământului” articulat într-un pluriversum de „mari spaţii” va reveni de acum înainte într-o perspectivă reală, aşa încât Europa va trebui, mai devreme sau mai târziu, să regândească modelul Imperiului, unicul model politic de unitate supranaţională pe care l-a dezvoltat în cursul istoriei sale.

 

NOTE

1. Vladimir I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Milano 2002, p. 33.
2. Vladimir I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, cit., p. 140.
3. Paul M. Sweezy, The Theory of Capitalist Development, New York 1968, p. 307.
4. Emmanuel Malynski, Les Eléments de l’Histoire Contemporaine, cap. V, Paris 1928; trad. it. Fedeltà feudale e dignità umana, Padova 1976, p. 85. De acelaşi autor: L’Erreur du Prédestiné, 2 vol., Paris 1925; Le Réveil du Maudit, 2 voll., Paris 1926; Le Triomphe du Réprouvé, 2 vol., Paris 1926; L’Empreinte d’Israël, Paris 1926 (trad. it. Il proletarismo, fase suprema del capitalismo, Padova 1979); La Grande Conspiration Mondiale, Paris 1928; John Bull et l’Oncle Sam, Paris 1928; Le Colosse aux Pieds d’Argile, Paris 1928. La Guerre Occulte, apărută la Paris sub numele lui Emmanuel Malynski şi Léon de Poncins în 1936 (cu doi ani înainte de moartea lui Malynski), a fost editată de mai multe ori în italiană între 1939 (Ulrico Hoepli, Milano) şi 2009 (Edizioni di Ar, Padova).
5. Emmanuel Malynski, op. cit., ibidem.
6. Julius Evola, L’Inghilterra e la degradazione dell’idea di Impero, “Lo Stato”, a. IX, 7 luglio 1940.
7. Julius Evola, Universalità imperiale e particolarismo nazionalistico, “La Vita italiana”, a. XIX, n. 217, aprile 1931.
8. Enrico Squarcina, Glossario di geografia politica e geopolitica, Milano 1997, pp. 81-82.
9. Enrico Squarcina, Glossario di geografia politica e geopolitica, cit., p. 82.
10. Paul M. Sweezy, The Theory of Capitalist Development, New York 1968, p. 307.
11. Pietro de Francisci, Arcana imperii, vol. I, Roma 1970, p. 168.
12. “Drepturile indigene au supravieţuit şi au continuat să fie aplicate în diversele comunităţi care au constituit Imperiul: dreptul „grecesc” (în realitate drept indigen reprodus de dreptul grecesc) în Egipt, dreptul cetăţilor greceşti în Mediterana orientală, dreptul cutărui sau cutărui trib în Mauritania sau în Arabia, drept ebraic (Tora) pentru evrei” (Maurice Sartre, L’empire romain comme modèle, “Commentaire”, primăvara 1992, p. 29).
13. Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino 1993, pp. 25-26.
14. Giulio Cattaneo, Lo specchio del mondo, Milano 1974, p. 137.
15. Arnold Toynbee, A Study of History, vol. XII, ed. a 2-a, London – New York – Toronto 1948, p. 158.
16. Nicolae Iorga, The Background of Romanian History, cit. în: Ioan Buga, Calea Regelui, Bucureşti 1998, p. 138. Cfr. C. Mutti, Roma ottomana, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. I, n. 1, ott.-dic. 2004, pp. 95-108.
17. Josef Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, Milano 2004, p. 15.
18. D. B. Wyndham Lewis, Carlo Quinto, Milano 1964, p. 18.
19. Franco Cardini – Sergio Valzania, Le radici perdute dell’Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali, Milano 2006, p. 16.
20. Emmanuel Malynski, La guerra occulta, Padova 1989, pp. 48.
21. Louis Sorel, Ordine o disordine mondiale?, în L. Sorel – R. Steuckers – G. Maschke, Idee per una geopolitica europea, Milano 1998, p. 39.

L’OPINIONE GLOBALE NEI CONFRONTI DEGLI USA

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Quando si prendono in considerazione sondaggi di opinione bisogna tenere sempre presente di non trovarsi dinanzi la verità o a una fotografia reale dello stato delle cose. Come per le ricerche di mercato è importante ricordare che non servono per migliorare i prodotti o la soddisfazione del cliente: servono a chi ha commissionato la ricerca per capire l’opinione diffusa e tentare di sfruttarla al meglio. Nel nostro caso ci soffermiamo su una ricerca d’opinione elaborata da un centro di studi statistici statunitense per un pubblico prevalentemente statunitense, e quindi questa particolarità va tenuta a mente dal lettore, anche più dei metodi di ricerca (1), sia perché chi elabora la ricerca ne modifica il fenomeno, sia perché il risultato finale ha degli scopi precisi che hanno inciso quindi su tutto l’elaborato.

Indagare sull’opinione mondiale nei confronti degli Stati Uniti oggi è di grande interesse perché può aiutare nell’analisi delle attuali e future mosse globali di Washington. In una situazione di rinnovata guerra fredda (2) torna d’attualità, seppur con profonde novità, lo scontro fra potenze che sono oggi, fortunatamente, non più soltanto due.

Di certo risulta che gli Usa rimangono la potenza globale con maggiore seguito, e non potrebbe essere altrimenti, ma l’interesse deve concentrarsi sulle variazioni di questa fiducia e su chi la esprime.

Le popolazioni che indicano come principale alleato gli Stati Uniti sono quelle di: Bangladesh, India, Indonesia, Giappone, Filippine, Corea del Sud, Thailandia e Vietnam. Di questi le popolazioni di Giappone, Filippine e Vietnam considerano la Cina come la più grande minaccia; dal Bangladesh si guarda con maggior sospetto all’India che a sua volta teme il Pakistan.

Bisogna invece guardare a Malaysia e Pakistan per trovare popolazioni che considerano miglior alleato la Cina e vedono la peggior minaccia negli Stati Uniti. Interessante invece che i cinesi vedano la Russia come alleato migliore e sempre gli Usa come minaccia. Chiaramente invece per gli americani i migliori alleati rimangono gli inglesi e la peggior minaccia rimane il classico impero del male, il che ci riporta in piena guerra fredda, ossia la Russia.

Come è evidente i maggiori cambiamenti nell’opinione mondiale riguardano il campo asiatico: negli ultimi anni l’ascesa di Pechino ha modificato la percezione di molti, il 53% delle popolazioni asiatiche dicono che la crescita cinese è positiva per la propria vita e invece è calato di circa il 10% il numero di coloro che vedono gli Usa come prima economia mondiale: oggi sono il 40% contro un incremento del 12% della Cina che si attesta al 31%. E’ dal 2010 che anche le popolazioni europee vedono la Cina come prima economia mondiale, anche se questo trend, seppur in contraddizione con i fatti globali, va diminuendo: le motivazioni sono tutte da trovare nella rinnovata propaganda a stelle e strisce che segue il nuovo scontro geopolitico con gli Usa tornati alla ribalta attraverso un’azione Nato molto aggressiva.

Rimangono quindi gli Stati Uniti la nazione più attrezzata nel diffondere il proprio marchio nel mondo, vero e proprio bene geopolitico da curare e perfezionare. Nonostante le ultime guerre e scandali relativi allo spionaggio, che hanno fatto calare la fiducia nei confronti della gestione americana dei dati personali, la potenza atlantica è ancora ben vista da gran parte delle popolazioni globali. E’ una media del 65% globale che esprime fiducia verso Washington, nello specifico il 74% dalla regione africana, 66% da Europa (ma da questa media è esclusa l’opinione dei russi) e Asia, 65% America Latina e soltanto 35% dal vicino e medio oriente.

Interessante quindi indagare sull’opinione nazione per nazione: gli italiani esprimono opinione favorevole alla politica Usa passando dal 76% del 2000 al 78% odierno. L’attitudine favorevole è aumentata anche per quanto riguarda i francesi che nello stesso arco di tempo hanno dimenticato del tutto il gollismo passando dal 62% al 75% di favorevoli. Curioso vedere invece la controtendenza dalla Polonia che passa dal 86% al 73% e del Regno unito dall’83% al 66%, mentre la popolarità degli Stati Uniti in Grecia è a un bassissimo 34%.
Non sorprende invece il dato russo: la fiducia nei confronti degli Usa riguarda una piccola fetta di popolazione ed è addirittura scesa dal 37% del 2000 al 23% attuale. Anche la fiducia degli ucraini, per rimanere nell’area è scesa dal 70% al 57%.
Nel vicino e medio oriente invece solo in Israele c’è una ottima opinione degli Usa all’84% mentre Egitto, Giordania, Turchia si attestano rispettivamente al 10, 12 e 19 per cento. Nei territori Palestinesi la fiducia verso gli Stati Uniti è del 30%, invece arriva al 41% e 42% in Libano e Tunisia.
Nella zona asiatica, a parte i picchi di fiducia nei fedeli alleati Filippine (92%) e Corea del Sud (82%), la media supera di poco il sessanta percento passando dal 50% cinese, al 55% indiano fino al non altissimo 66% giapponese. In Pakistan, come accennato, la fiducia verso gli Usa è al 14%, come vedremo anche a causa dell’utilizzo dei droni nell’area.
Se in Africa l’opinione diffusa è sempre abbastanza alta (in Uganda il picco più basso al 62%), in America Latina non sorprende la bassa fiducia degli argentini al 36%, invece sorprende, ma per questo rimandiamo alle premesse iniziali dell’articolo, il 62% dei venezuelani fiduciosi.

I cambiamenti, come dicevamo, sono l’aspetto più interessante: nell’ultimo anno, quindi dal 2013 al 2014, la popolarità Usa è calata maggiormente in Russia (-28%), Uganda (-11%), Brasile (-8%) è invece aumentata nei territori palestinesi del +14% (ma in questo caso bisognerebbe aggiornare i dati al nuovo attacco israeliano in corso questi giorni), in Francia (+11%) e Cina (+10%).

La forza del marchio Usa e quindi della propaganda nel diffonderlo si misura concentrando l’attenzione sulle giovani generazioni. Queste sono tutte generalmente più favorevoli agli Usa di quelle adulte: praticamente in tutte le nazioni si passa da un massimo di 25% verso percentuali più basse, della parte di popolazione giovane (18-29 anni) che apprezza gli Usa più di quella adulta (maggiori di 50 anni); in altre parole la popolazione giovane apprezza più gli Usa di quella adulta con percentuali considerevoli, soprattutto in popolazioni asiatiche (in Cina la differenza è del 21%), ma anche in Brasile (il gap è del 16%) e Russia (differenza del 10%).

Anche la popolarità di Obama pare difendersi bene, anche se ha subito importanti colpi: nell’ultimo anno ha avuto un calo in doppia cifra in Germania (-17%), Russia (-14%), Argentina (-13%), Brasile (-17%) e Giappone (-10%). In Cina invece la popolarità di Obama è cresciuta del 20%.

Oltre la crisi economica i temi che più hanno colpito l’immagine Usa nel mondo è l’utilizzo dei droni e le rivelazioni di Edward Snowden relative allo spionaggio militare, industriale e politico che gli Usa effettuano anche sugli alleati europei. Inoltre la competizione con la Cina comporta profondi mutamenti nell’area asiatica.
Curioso notare per esempio come soltanto la popolazione israeliana sia favorevole all’utilizzo dei droni (65%) addirittura con più forza della stessa popolazione americana (52%). Per il resto l’opinione diffusa è totalmente negativa. Allo stesso modo se si chiede alle popolazioni se gli Usa rispettano le libertà dei propri cittadini, in molti risponderanno più di anni fa che non li rispettano. Quasi solo i più stretti alleati asiatici, gli africani, Israele e a sorpresa gli italiani, credono ancora nella garanzia americana dei diritti della popolazione americana.

Come si accennava nella competizione globale ha un posto importante la Cina che va presa in considerazione in quante forte competitor degli Stati Uniti; Pechino non piace al popolo Usa: il 55% la guarda con sfavore, ma ancora peggio la vedono tedeschi (64%) ed italiani (70%); in generale tutta Europa ha un’opinione cattiva dell’Impero celeste (solo in Grecia i favorevoli sono di più) e questo è probabilmente effetto della nuova guerra fredda globale, con l’Europa occidentale saldamente dietro la cortina di ferro della Nato. Ovviamente in Ucraina e Russia l’opinione sulla Cina è fortemente favorevole (64%). E lo stesso succede in Tunisia e in Palestina. Molto significativa è invece la totale opinione favorevole espressa nei confronti della Cina sia in Africa che in America Latina.

In una situazione come quella attuale, in cui la gli scontri geopolitici stanno aumentando di intensità per via dell’affermarsi di un multipolarismo che minaccia l’unipolarismo dell’ex unica grande potenza Usa, l’opinione globale viene tenuta costantemente sotto controllo dagli attori, in special modo da quello americano che è meglio attrezzato al riguardo, in quanto è una delle armi con cui affrontare l’arena globale. Non è un caso se proprio in questi giorni come ambasciatore statunitense a Mosca sia stato nominato John “Terminator” Tefft, ossia un grande nemico della Russia; e se quest’ultima ha accettato la nomina il motivo è che ormai lo scontro è insanabile e ci si trova davvero davanti un’escalation in cui l’Europa si ritrova schierata suo malgrado. L’analisi geopolitica deve progredire per posizionarsi con maggiore efficacia ed efficienza così da compiere scelte che vadano a vantaggio della popolazione europea nel complesso e non solo del maggiore azionista della Nato.

* Matteo Pistilli è vicepresidente del Centro Studi Eurasia Mediterraneo e redattore di “Eurasia, rivista di studi geopolitici”.

NOTE
1. La ricerca è condotta fra marzo, aprile e maggio 2014 da Princeton Survey Research Associates International e rielaborata dal Pew Research Center http://www.pewglobal.org su campioni di popolazione adulta sulle diverse nazionalità, selezionate per regione e zona urbana, alcune tramite interviste faccia a faccia, altre attraverso interviste telefoniche.
2. La seconda guerra fredda, Eurasia, rivista di geopolitica XXXIV (2 – 2014). Collegamento: http://www.eurasia-rivista.org/la-nuova-guerra-fredda/21690/

Крымские татары: между Турцией и Татарстаном

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Крымские татары стали единственной значительной этнической группой, бойкотировавшей референдум 16 марта по принятию Крыма в состав России.
Это не было удивительным: от «костров» Москвы 1571 года до депортаций сталинской эпохи, конфликты между Россией и крымскими татарами были многочисленными. Сегодня, когда Крым снова русский, татарский вопрос вызывает немалый интерес, но в реальности большее волнение проявляют Турция и республика Татарстан в России. Обе они движимы надеждой восстановить исторические, культурные и религиозные связи с братскими территориями, но будущие перспективы для них различны. Турция — член НАТО, однако, имеющая сильные отношения с Россией, в то время как Татарстан является частью России.

Краткая история крымских татар:

История крымских татар неразрывно связана с теми многочисленными турецкими племенами, заселявшими его влоть до конца VIII века. Первые прибывшие были хазарами, популяция ещё и сегодня окутанная ореолом тайны, особенно примечательная редкими случаями перехода в иудаизм. Среди их потомков мы находим караимы и крымчаки, а, по некоторым теориям, ашкеназийские евреи изначально, по крайней мере частично, были хазарского происхождения. Впоследствие на эти территории пришли половцы и печенеги, а в 13 веке Крым присоединился к монгольской Золотой Орде Чингисхана. Это собственно и стало моментом встречи монголов и турок, породивших впоследствие татар, которые впитали черты от всех народов, с которыми они входили в контакт с того времени, в том числе, конечно, и самих монголов, включенных в состав турецких популяций. Обращение в ислам крымских татар произошло в первой половине четырнадцатого века. Несмотря на это, в сохранении собственной веры общины – а также всех других немусульман — препятствий не было в обмен на плату (джизья).
В течение почти двух веков северо-центральная часть полуострова оставалась под контролем Золотой Орды, наследницы Монгольской империи, которая контролировала также территории нынешних России, Украины и Казахстана, в то время как на юге Горного Крыма были тогда византийские территории и некоторые генуэзские колонии. Войны между войскими Золотой Орды и византийских владений, Генуи, были нередки, и именно в этой части полуострова, в 1347 году, произошла одна из первых бактериологических атак в истории, когда татарские армии, окружившие крепость генуэзской колонии Каффа (ныне Феодосия) бросили несколько мертвецов – жертв чумы под стенами города, поощряя распространение чумы в Европе. Вскоре, однако, три события внесли значительный вклад в снижение влияния Орды. Первым был развенчание, в далеком Китае, монгольской династии Юань на Мин, этнических китайцев, которые могли бы привести к закрытию Великого шелкового пути, бывшим тогда важным фактором стабильности в Евразии. Вторым, спустя двенадцать лет, стала Куликовская битва, в которой русский князь Дмитрий Донской нанёс сокрушительное поражение армиям Золотой Орды. Историческое значение битвы, которой русская историография всегда уделяла почетное место, часто завышена (Московия, в конце концов, была притоком Орды до 1480 года), но его символическое значение нельзя недооценивать: Куликова битва, по сути, положила конец мифу о монгольской непобедимости. Третим событием стало поражение в войне против Тамерлана, хана Золотой Орды Тохтамыша, который ознаменовал провал его попытки забрать наследие империи Чингисхана. Между тем, на южных берегах Черного моря, Османская империя положила конец существованию колониям Византийской империи и достигла своего апогея.
Именно тогда центральная и северная часть Крыма и территорий северного побережья Черного моря составили Крымское ханство, которое в 1473 году стало вассалом Османской империи, в то время как область к югу от Крымских гор была помещена под непосредственный контроль Османской империи. Попытки Крымского ханства получить наследие Золотой Орды оказались бесплодными: сумев заключить союз с ханствами Казани и Астрахани и с Ногайской Ордой, они мало что смогли сделать, чтобы препятствовать захвату первых двух армиями Ивана Грозного. Тем не менее, на протяжении многих веков, Крымское ханство было настоящим бельмом на глазу Московии, проведя несколько рейдов по захвату рабов и даже пойдя грабить Москву в 1571 году. Не менее лёгкими были отношения и с Речью Посполитой (достаточно вспомнить о татарской поддержке казачьего восстания Богдана Хмельницкого в середине семнадцатого века); и, естественно, Ханство имело сильный союз с татарами и турками, на чьей стороне они воевали в различных войнах против Польши, России, Австрии и Персии. Это собственно было началом конца Османской империи, объявившей падение Крымского ханства, которому впервые пришлось отказаться от работорговли, а затем, между 1774 и 1783 от самого своего существования.
Территория Крымского ханства была включена в состав Новороссии, в области, соответствующей нынешнему югу Украины и Бессарабии, и стала своего рода новой границей. Были здесь и многие поселенцы, переселенные царскими властями, и среди них нашлось место даже небольшому итальянскому сообществу, поселившемуся в основном в Керчи, на одноименном проливе, который отделяет её от остальной части России. Многие татары, наоборот, встали на путь эмиграции: между 1785 и 1800 более пятисот тысяч эмигрировали, за ними последовали и тысячи других в связи с Крымской войной в середине девятнадцатого века и Русско-турецкой войной в 1877 году. Это привело к существенному изменению демографического баланса полуострова. Если в начале девятнадцатого века турецкий элемент преобладал, то уже в конце века полуостров был преобразован в своего рода смешение. Отмечено было достаточное большинство славянского элемента (русских и украинцев). Тем не менее, для тех татар, кто остался, жизнь не была несчастной. Когда в 1774 году Крым был фактически превращен в протекторат России (формальная аннексия последует только через девять лет), ислам был официально признан, религиозные права были соблюдены, и татарское дворянство имело высокий статус. Следующий век принёс расцвет татарской культуры и стал известен как “татарский Ренессанс”, что способствовало распространению образования среди татар и который касалось в основном татаров Поволжья, но и не преминул оказать сильное влияние на своих крымских сородичей: именно Крым дал самого знаменитого исламского мыслителя русской истории Исмаила Гаспиринского. Испытанием для культурного развития татар стало создание, в ходе Гражданской войны в России, Народной Республики Крым, первого светского мусульманского государства.
Победа большевиков привела к созданию Автономной Республики Крым, созданной РСФСР и имеющей в качестве официальных языков русский и крымско-татарский. Положение татар в новой Республике, однако, было двойственным. С одной стороны они могли получить выгоды той политики позитивной дискриминации, которая была проведена в пользу нерусских коренных этнических групп; с другой стороны позднее они были подвергнуты прогрессивной советизации, которая в случае крымских татар привела к замене арабского алфавита – которой, в глазах советских авторитетов, симболизировал «реакционное влияние мусульманского духовенства» – сначала на латиницу, а затем на кириллицу. В дальнейшем крымские татары, разумеется, также пострадали от негативных последствий насильственной коллективизации и “чистки” Сталина против диссидентов реальных или воображаемых. Но самое страшное для них случилось во время Второй мировой войны, когда Крым потерял свою мультикультурную основу и стал регионом с подавляющим преобладанием славянского населения. Нацистская оккупация означала смерть в лагерях смерти для евреев и крымчаков (караимы были избавлены от этой участи, потому что они являлись “турками”, а не “евреями”, ибо они практиковали иудаизм караимского толпа, а не раввинистского), в то же время сотрудничество некоторых крымских татар с Третим Рейхом толкнуло впоследствие советские власти, сразу после восстановления контроля над полуостровом, на организацию систематической их депортации в Сибирь и Казахстан.
После Второй мировой войны, советские власти осуществляли политику «детатаризации» полуострова. Полуостров был понижен в статусе от автономной республики до области, дискриминация в пользу татар была официально упразднена, а географические названия были заменены русскими. Смерть Сталина в 1953 году и последующий рост Никиты Хрущёва сопровождалась надеждой о реабилитации, но они вскоре разбились когда татары, в отличие от многих других групп заключённых, были приговорены к временной ссылке. И только во время перестройки они начали возвращаться в Крым, который стал территорией Украины, где они часто сталкивались с враждебностью властей и местного населения. В 2002 только чуть больше половины из примерно пятисот тысяч крымских татар, проживающих в различных провинциях бывшего СССР, вернулись на родину.
По данным переписи 2001 года 58,5% жителей полуострова составляют этнические русские, 24,4% украинцы, в то время как крымские татары составляют оставшиеся 12,1%. И, хотя депортации в настоящее время прекращены и не повторятся, жизнь, крымских татар часто бывает трудной. Никогда не бывшие официально реабилитироваными, у них не было права на выставение требований за советские депортации, сегодня многие из них занимают маргинальное положение в крымском обществе. Отношения между славянами и татарами совсем не идеальные. В качестве противовеса социальной маргинализации татары противопоставлют свою политическую активность. Основные организации крымских татар, Меджлис крымских татар, имеет прозападную ориентацию, и её лидеры призвали к бойкоту референдума 16 марта. Отношения между Меджлисом и нынешними крымскими властями являются до сих пор довольно натянутыми, несмотря на некоторые признаки открытости из обеих сторон. Не все из татар, однако, настроены антирусски: главный конкурент прозападных татар – движение Милли Фирка (от имени партии, которая в 1917 году учредила Народную Республику Крым), которое выразилось в пользу присоединения к России и Евразии. Критики обвиняют их в том, что они готовы принести в жертву интересы татар во имя амбиций своих лидеров, украинские власти обвиняют их в желании содействовать политике ассимиляции. И, учитывая продолжающуюся напряженность в Украине, крымские татары в настоящее время обхаживаемы Кремлем настолько же, сколько и Западом. Для первого, успокоение татар означает их защиту от внешних воздействий, способных поставить под сомнение устойчивость и управляемость российского полуострова, для второго же крымские татары – потенциальное бельмо на глазу Путина. Тем не менее, большая часть России, как и Запад, на самом деле культурно далеки от крымских татар, и те, кто сегодня действительно может претендовать на роль их «старшего брата» лишь Турция и российская республика Татарстан. И, если первая находится в промежуточном положении между Россией и Западом, и связана обязательствами членства в НАТО и партнёрством с Россией, с которой имеет сильные экономические и торговые отношения, вторая может быть ключом к стабилизации полуострова и интеграции крымских татар в Российскую Федерацию.

Турция и крымский кризис

Салоны западных столиц всегда готовы принимать близко к сердцу угнетения некоторых народов, возможно, неизвестных большинству, более могущественным врагом: достаточно вспомнить тибетцев во время их периодических восстаний против Китая, «арабскую весну» или некоторых коренных жителей Африки или Южной Америки в борьбе с растущей мощью транснациональных корпораций. На этот раз на этом почётном месте оказались крымские татары, представленные – не без оснований, как мы видели – в качестве жертв западных СМИ, которые иногда даже не понимает разницы между нынешней Россией и Советским Союзом. Как это часто бывает, к крымским татарам со стороны либеральных Нью-Йорка, Парижа или Берлина проявляется эфемерная солидарность по причине идеализации статуса жертвы в борьбе с более сильным противником, что тиражируется в СМИ. Совсем иные причины вызвавшие внимание к вопросу крымских татар в Турции. В Стамбуле, Анкаре и в глубине Анатолии, на самом деле, татары не просто угнетённые люди, но братья, и за братьев даже можно побороться: более двух веков разделения не смогли разорвать исторические, культурные и религиозные связи между двумя популяциями. Кроме того, некоторые турки сегодня могут похвастаться родословной хотя бы частично татарской по причине эмиграции. Поэтому неизбежно, что вопрос татар сегодня занимает ведущую роль в отношениях между Анкарой и Москвой.
В течение нескольких веков эти отношения были очень напряжёнными. Список русско-турецких войн очень длинный, и одна из них – та, из которой Великороссия вышла бесспорным победителем – именно проходила в Крыму. Причины напряжённости между Российской и Османской империями были разными. После последней неудачной попытки завоевать Вену, Османская империя вступила в период медленного, но неуклонного падения, в то время как Россия, наоборот, облачалась в имперские одежды. Именно в этот период русские цари начали вмешиваться больше и больше в османские дела в целях защиты христианского меньшинства на Балканах (сербы, греки, болгары …) и Кавказе (грузины и армяне), а, значит, завоевывая новые территории и создавая государства, находящихся под их влиянием. Россия, таким образом, в значительной мере способствовала упадку Османской империи, и мешало ей только вмешательство других великих европейских держав, которые не всегда любезно принимают и в наше время российский экспансионизм, стремясь предотвратить победное шествие казачьих лошадей до Константинополя, в котором Екатерина II мечтала о возрождении славы Византийской империи.
В послевоенный период, когда Турция стала национальным государством в западной ориентации и в ней отменили Халифат, она установила хорошие отношения с Советским Союзом. Но отношения между двумя странами снова ухудшились с началом холодной войны, когда Страна Полумесяца, после некоторых колебаний, вступила в НАТО. Только падение Берлинской стены привело к новому началу в турецко-русских отношений. Сегодня Россия является крупнейшим торговым партнёром Турции после Германии, и обе страны нацелены на повышение их товарооборота до 100 миллиардов долларов в течение следующего года. Одним из наиболее важных направлений сотрудничества между двумя странами, без сомнения, газ, как для Европы, так и для бытового потребления турок. Уже в 2003 году начал функционировать нефтепровод «Голубой поток», который связывает Россию и Турцию по дну Чёрного моря. В ближайшие месяцы, если позволят санкции страны должны начать строительство трубопровода «Южный поток», который соединит Россию и Болгарию — и через нее Юго-Восточную Европу, в том числе Италию – через турецкие территориальные воды Черного моря. Он, как его близнец «Северный Поток», направлен прежде всего на минимизацию роли третьих стран. Активно настроены туристические потоки между двумя странами, в частности из России в Турцию. В 2012 году россияне совершили около 3,5 миллионов посещений Турции. Россия заняла второе место после Германии по туристической посещаемости Турции, а также она является домом для большого турецкого сообщества. По мнению турецкого эксперта в области экономики Ибрагима Озтюрка, для Турции сотрудничество с Евразийским Экономическим Союзом было бы «более плодотворным, чем с Соединенными Штатами».
Что примечательно в турецко-русских отношениях – это огромный разрыв между плодотворным экономическим сотрудничеством двух стран и существенным различием собственных стратегических интересов. Позиции во внешней политике двух стран по острым вопросам, таким как Северный Кипр, Сирия и Нагорный Карабах, по сути, почти диаметрально противоположны, и внешняя «нео-османская» политика, принятая Турцией, может привести к новой конфронтации между противоположными интересами и влияниями не только на Балканах и на Кавказе, но также в Центральной Азии. Кроме того, не стоит недооценивать влияние пантюркизма, идеологии, которая предлагает объединение тюркских народов – особенно тех, что в мусульманской вере – под одним знаменем, где в частности неизбежно назначение роли “старшего брата” стране Полумесяца. Несмотря на то, что эта тема в настоящее время ограничивается, тем не менее она является потенциально дестабилизирующим фактором как для евразийской интеграции, так и для самой России, имеющей внутри сильнык тюркские меньшинства.
Одна из областей «риска» — именно Крым. Здесь риск возникновения новых оснований для конфронтации между Москвой и Анкарой может быть причинён тем, что последняя находится как между молотом и наковальней. Страна Полумесяца, как уже было сказано, имеет сильные экономические отношения с Россией, и ставить под угрозу свои хорошие отношения с ней для Турции очень трудно. Даже несмотря на высокие темпы экономического роста в последние годы, Турция остаётся значительно слабее её северного соседа, и в любом случае обязана укреплять свои отношения с ней. Кроме того, как Москва, так и Анкара переживают фазу внутренних проблемов и увеличения контрастов с Западом, хотя и по разным причинам, и всё более настойчиво отвергают западное культурное влияние. Отношения между Россией и Турцией, конечно, нельзя назвать любвью, но и развод, в настоящее время, по меньшей мере неудобен для обеих сторон.
Будучи страной-членом НАТО и стремясь стать членом Евросоюза, Турция не может игнорировать позицию Запада по украинскому кризису, и затем она также считает незаконным присоединение Крыма к России. Тем не менее, она не может не отмечать, что теперь позиции России на Чёрном море значительно укрепились, если до этого судьба российской чёрноморской базы была не ясна, то сегодня этот вопрос уже не существует. Кроме того, возник вопрос крымских татар, который, как уже упоминалось ранее, вызвал большую обеспокоенность среди националистов и около четырёх миллионов членов диаспоры. Многие из них критикуют не только Россию, но и примирительное отношение властей в Анкаре, призывая к более напористой политике по этому вопросу. “Мы видели этот фильм раньше, и мы не хотели бы увидеть его снова,” сказал по поводу референдума президент Ассоциации крымских татар в Стамбуле, с явным намёком на последних советских и царских правителей, в то время как один из парламентариев татарского происходения даже попросил позволения для турецкой интервенции (без указания военной или нет) на полуостров. Критика также последовала от Мустафы Джемилева, исторического лидера Меджлиса и одного из главных противников крымского референдума, который предложил турецким лидерам закрыть российским кораблям проход через Босфор и Дарданеллы. Среди татар есть тем не менее и «голуби мира»: вице-президент Ассоциации солидарности и культуры турок в Крыму Намик Кемаль Баяр заявил, что, в силу своего расположения, Страна Полумесяца могла бы выступать в качестве посредника между Россией и крымскими татарами.
Власти же Анкары заняли промежуточную позицию. Исподтишка подмигнув крымским татарам, обозначив им турецкую поддержку отказавшись признать результаты референдума, в котором многие из них не участвовали. С другой стороны, устами министра иностранных дел Ахмета Давутоглу подчеркнули необходимость урегулирования украинского кризиса путем диалога и выступали против введения санкций в отношении России. В любом случае кризис в Крыму не повлиял на турецко-росскийские отношения: Путин стал первым главой государства, который поздравил Эрдогана с победой его партии на местных выборах прошедших 30 марта, и через несколько дней после этого министр энергетики и природных ресурсов Турции Танер Йылдыз заявил, что «стратегические отношения между Россией и Турцией не могут быть повреждены в результате кризиса в Украине или другого инцидента». Всё это поспособствовало не малому осознанию важности для российского правительства татарского вопроса для Турции. Во время телефонного разговора 4 марта 2014 года Путин пообещал Эрдогану сильные гарантии для татар. И его слова не разошлись с делом: через неделю после разговора, на самом деле, крымский парламент принял закон, который предусматривает предоставление статуса официального языка крымскотатарскому языку наряду с русским и украинским, развитие образования – и повторное введение географических названий – на крымскотатарском языке, финансовой поддержки татар, которые хотят вернуться на свою историческую родину и гаранта для этого меньшинства 20% мест в крымском парламенте.
Условия для поддержания хороших отношений таким образом есть все, по крайней мере на бумаге. Указывая на своё “особое положение” в контексте Евразии и Средиземноморья, Турция воздержалась от принятия линии “конфронтации”, принятой Западом против России в результате украинского кризиса. Эта линия проявляется также в позиции, занятой Анкарой по вопросу диверсификации источников поставок газа в перспективе новой «газовой войны» между Россией и Украиной в Крыму: если бы кризис поставил под вопрос будущее Южного потока Йылдыз уже попросил Россию рассмотреть возможность усиленного использования трубопровода Голубой поток в обход Киева. Через несколько дней, Йылдыз даже предложил отклонение маршрута трубопровода «Южный поток» через территорию страны Полумесяца, для того, чтобы воссоединиться в будущем с Кавказом и в то же время сделать Турцию менее восприимчивой к резолюциям ЕС (Турция не является членом ЕС). Россия, со своей стороны, пока воздерживается от открытой полемики с Турцией, и в своей критике “двойных стандартов” Запада воздержалась от упоминания кризиса на Северном Кипре, несмотря на то, что не только казуз белли турецкой интервенции в Кипре является похожим на тот российской интервенции в Крыме (незаконный путч в контексте разделённой страны), а также то, насколько лишенны общих чёрт мирное вхождение в Россию полуострова, который древние греки называли Тавридом, и кровавое отделение (таксим) на двух частей (греческая на юге и турецкая на севере) острова, где Венера родилась. В конце концов, как указал востоковед Виталий Наумкин, русский медведь собственно и смотрит Серым Волком, только лишь чтобы способствовать развитию региона Крым.
Какой будет в будущем роль Турции в Крыму? Официальное признание аннексии исключено, но если ситуация в остальной части Украины будет требовать стабилизации, вполне вероятно, что Турция будет адаптироваться к новому статус-кво. Отсечь все связи с полуостровом не в интересах Турции, при этом помочь татарам не удастся: Крым в настоящее время русский, и вероятность того, что Кремль сделает шаг назад, уже не высока, и она стремится к нулю, если учесть, что, по сути, международная изоляция России принадлежит больше риторике Обамы, но не является реальностью. Маловероятно, что Крым быстро превратится в Мекку для турецких бизнесменов, несмотря на серьёзные налоговые льготы и бюрократические послабления, недавно введённые российским правительством, но признаков интереса пока не хватает. Национальный перевозчик Turkish Airlines и бюджетная авиакомпания Pegasus Airlines, например, планируют установить прямые рейсы в Симферополь. Турция, безусловно, продолжит следить за Россией по вопросу о татарах, но вряд ли будет вынуждена прийти к конфронтации: так как российская реальность с уважением относится к культурным и религиозным правам меньшинств, и случай Татарстана, как мы увидим ниже, является этому ярким свидетельством.
Однако, необходимо подчеркнуть, что риск обострения отношений между Россией и Турцией на культурной основе всё же существует. Страна Полумесяца в силу объективных причин, не может играть главную роль в кризисе в Крыму, и вручение орденов турецкой республики Мустафе Джемилеву, нынешнему Председателю Меджлиса Рефату Чубарову и другим татарским лидерам похоже в большей степени на попытку извиниться за эту невозможность. Тем не менее, всего в нескольких сотнях километров, витают новые возможные кризисы, которые могут повлиять гораздо более сильно и длительно на отношения между Москвой и Анкарой: признание Нагорного Карабаха как независимого государства или хуже, в качестве составной части Армении. Предстоящее вступление Еревана в Евразийский экономический союз, на самом деле, подняло проблему внешних границ последнего: тех, что затрагивают спорные территории между Арменией и азербайджанским сепаратистским регионом и они чуть более чем символичны (в отличие от тех армянского-азербайджанских проблем, на сегодня уже закрытых), и один из депутатов Армении даже заявил, что членство в Союзе Армении может привести к признанию Нагорного Карабаха в качестве обязательной части государства. Перспектива, которая очевидно мало нравится азербайджанскому правительству, которое устами одного из его высокопоставленных чиновников даже заявил, что “вступление Армении в Таможенный союз, или любую международную организацию этого типа, может быть возможным только после освобождения оккупированных азербайджанских территорий». Турция, как мы помним, является крупнейшим сторонником Азербайджана в карабахском вопросе, в том числе и в силу этнолингвистических и религиозных связей между двумя странами (близость Турции и Азербайджана такова, что, в течение длительного времени, язык Баку называют “турецкий в Азербайджане”). Девиз “Две страны – один народ” широко распространён не столько в Турции, сколько в Азербайджане. Один из сильнейших методов воздействия, которое Турция использует против Армении, является перманентное блокирование сухопутных границ между двумя странами: «Серый Волк» однако мог бы договориться с Таможенным союзом, который может похвастаться среди своих членов одним из её исторических врагов (которой тем не менее имеет второстепенное значение), но любое изменение ситуации в пользу карабахских армян пробудит умы националистов намного больше, чем это было в момент кризиса в Крыму.

Татарстан: старший брат «внутри»

Аннексия Крыма к Россию привела в действие механизм поддержки исламских меньшинств со стороны Федерации. В мечетях России идёт сбор средств в поддержку мусульман Крыма. Президент Чечни Рамзан Кадыров, лояльный Путину, объявил о строительстве новой мечети в Севастополе и восстановлении старого Фонда, имени его отца Ахмата Хаджи, религиозного деятеля, убитого чеченскими партизанами сепаратистами в 2004 году. Для Кадырова такая инициатива далеко не нова: после строительства в Грозном самой большой мечети в Европе, своего рода Чеченской версии мечети Сулеймание в Стамбуле в марте 2014 года, президент Чечни принял участие в открытии другой огромной мечети в арабо-израильском городе Абу-Гош, недалеко от Иерусалима. Из Башкортостана, Урал, прибыла партия лошадей для производства кумыса, кобыльего молока — типичного для центральной Азии. Тем не менее, среди различных республик в составе Российской Федерации, наиболее активной, несомненно, является Татарстан. Это связано с существенным сходством между татарами Волги и Крыма, а также с экономическим успехом республики и его традиционной ролью посредника между Россией и исламским миром.
Хотя даже здесь решающую роль играет геополитика, понять взлеты и падения сотрудничества Татарстана с организациями крымских татар очень трудно, не зная их исторического пути. Крымские татары, в том числе поволжские, родились от встречи монгольских орд Чингисхана с местными тюркскими народами и, в частности волжскими булгарами. Кроме того, как в Крыму, так и здесь, турецкий элемент не замедлил взять верх над монгольским, и установление ислама, который в начале четырнадцатого века стал официальной религией Золотой Орды, было благоприятно так как волжские булгары были мусульманами уже после десятого века. Монгольский период был, для татар периодом большой экономики и торговли, и Болгар, древняя столица Волжской Булгарии, стал одним из самых важных торговых центров Великого Шёлкового пути.
Всё это, однако, подошло к концу с упадком и распадом Золотой Орды, и в результате распалось на ряд независимых ханств. Два из них, Казанское и Астраханское ханства, пытались заключить союз с Крымским ханством и Османской империей, но были сметены армий Ивана Грозного в 1552 и в 1556. Другой преемник, Касимовское ханство, стало вассалом России и способствовало военному поражению первых двух. В течение следующих двух столетий, российские власти разрешили татарам сохранить язык – который также начал обогащаться русской лексикой – и обычаи, но не их религию. И хотя имперские власти, не колеблясь, использовали мусульманских татар в погоне за конкретными целями, переход в православие для последних был ключевой необходимостью для сохранения своих дворянских титулов или роста до самых высоких уровней дворянства и государственного управления. Так сформировалась группа христианских татар («крещенные» татары, по-татарски керәшеннәр) и немалое количество дворянских семей, в первую очередь Юсуповы, фактически были татарского происхождения.
Эта политика радикально изменилась в эпоху Екатерины II, которая в 1773 году предоставила татарам и другим нехристианским меньшинствам Империи религиозную свободу в обмен на верность. Была создана организация российских мусульман, первоначально расположившаяся в Оренбурге, а затем переехавшая в Уфу в Башкортостане, руководство которой было отдано волжским татарам. Основой для такого решения, однако, были причины не столько идалистические, сколько прагматичные. В контексте продолжающегося конфликта с Османской империей за контроль над Кавказом и Чёрным морем, риск того, что Османская империя могла использовать в своих интересах любое недовольство мусульман империи была высокой.
Девятнадцатый век и начало двадцатого были периодом большого интеллектуального брожения. Волжские татары и крымские играли ведущую роль в продвижении исламской реформы, которая сочетала в себе обращение внимания на вопрос образования и свободной интерпретации Корана (иджтихад) с пан-исламским духом и антиколониализмом. Это движение пользовалось большим успехом среди татар, а также среди казахов, в то время как консервативная часть Средней Азии была вовлечена в движение лишь частично, а именно небольшая горсть городской интеллигенции. В течение долгого времени это движение было поддержано, или по крайней мере не встречало противостояния со стороны центрального правительства: исламские реформисты не стремились к независимости, но требовали большей автономии в составе Российской империи, в которой, однако, высоко ценили роль и функции цивилизации. Цари же не скрывали свою надежду на то, что татары могли бы подвергнуть вестернизации (хотя, возможно, лучше сказать “русифицикации”) мусульман империи. Начиная с конца девятнадцатого века, однако, симпатии к Османской империи и к либеральным ценностям реформаторов стали рассматриваться Короной с подозрением, которая, не колеблясь вступила в союз с более консервативным духовенством. В советские времена, путь поволжских татар прошёл также как и аналогичные пути других народов Союза (в том числе, конечно, и самого русского народа), но, в отличие от своих собратьев в Крыму, они никогда не были жертвами систематического преследования или депортации.
Сегодня Татарстан является одним из самых процветающих регионов России. Республика, богатая нефтью, имеет прочную промышленность, особенно в области машиностроения, воздухоплавания и новых технологий; и, в отличие от республик Кавказа, Татарстан в Москву отправляет больше средств, чем получает. Последние десятилетия также видели активное восстановление всего татарского, как показывают возрождение языка, который был исключён из списка исчезающих языков, ежегодно составляемого ЮНЕСКО, и религии, как свидетельствует недавнее строительство мечети Кул-Шариф в Казанском Кремле, на месте одноименной мечети разрушенной в 1552 году войсками Ивана Грозного. В последние годы тем не менее был отмечен и рост националистической напряженности и, в частности, экстремистских групп, который в июле 2012 года привёл к бомбардировке двух важных исламских богословов из-за их сопротивления ваххабизму. Но в повседневной жизни, сосуществование различных этнических групп достаточно мирное и экстремистские тенденции, до сих пор, нашли мало места. Не удивительно, что не мало крымских татар, смотрит на Татарстан как на пример.
Татары Поволжья и Крыма всегда считалась братьями. Для историка и политического татарского деятеля Рафаэля Чакимова разделение татар Волги, Крыма, Астрахани, Сибири, башкиров, ногайцев и «крященов» по существу неверно. Тем не менее до событий несколько месяцев назад, официальных контактов между крымскими татарами и властями Татарстана практически не было. Крым был украинским регионом, и аннексия его Россией на самом деле последней не рассматривалась. Интерес со стороны властей Татарстана к крымским собратьям усилился сразу после начала событий в Крыму, и 5 марта 2014 года Президент Татарстана Рустам Минниханов прилетел в Симферополь, столицу полуострова, чтобы не только подписать меморандум о взаимоподдержке с новыми крымскими властями, но и встретиться с Председателем Меджлиса Рефата Чубарова. После референдума в Крыму, который, как известно, имел почти стопроцентное единодушие, сотрудничество Татарстана с новыми крымскими властями (среди которых есть поволжский татарин Рустам Темиргалиев, первый заместитель главы республики), а также с Меджлисом и другими объединениями крымских татар приобрели резкое ускорение.
Что касается отношений с властями Крыма, то уже есть первые результаты: открытие постоянного представительства Татарстана в Симферополе, которое состоялось 29 марта 2014 года, визит группы бизнесменов Татарстана из различных секторов, от ветряных мельниц до продажи халяльной пищи, организованный местным центром содействия предпринимательской деятельности. Это, как говорят организаторы, первое мероприятие такого рода, организованное административной единицей, последней вошедшей в состав Федерации. Власти Татарстана также высказали предложения выступить в качестве посредника между российскими властями, с одной стороны, и крымскими татарами – и, в частности, Меджлисом – с другой, для того, чтобы помочь им в интеграции в российские государственные структуры, а также усилить их роль в федеральном контексте и восстановить первоначальную роль среди мусульман России, со времен имперской эпохи.
Властям Казани, в последние месяцы, удалось занять нишу между Путиным и крымскими татарами. Среди гостей на историческом заседании 29 марта, в ходе которого была удовлетворена просьба о признании культурных и территориальных прав крымских татар, мы могли видеть Минниханова, Президента Совета муфтиев России Равиля Гайнутдина и других представителей татарской политической и интеллектуальной элиты. Несмотря на резкий тон, используемый против референдума за несколько дней до этого, присутствие этих персон и отсутствие на заседании национального гимна Украины, традиционно исполняемого в начале каждого заседания, а также Мустафы Джемилева, наибольшего противника сотрудничества с Россией среди лидеров Меджлиса, можно интерпретировать это как признак готовности вступить в диалог с властями Москвы. С другой стороны, первой говорить о территориальной и культурной автономии стала председатель Совета Федерации России Валентина Матвиенко. Через два дня уже ряд лидеров Меджлиса высказались в пользу сотрудничества с новыми властями Симферополя, а владелец телевизионного татарского канала ATR Лемур Ислямов был назначен заместителем председателя Совета Крыма. В последующие недели Минниханов оказал небольшое давление на Путина по вопросу реабилитации крымских татар, в чём правительство Украины долгое время отказывало крымским татарам. Татары были официально реабилитированы в 21-го апреля, а ещё мера встретила колебания, или даже несогласие, лидеров Меджлиса, некоторые из них требуют признания крымских татаров титульной нацией и восстановления позитивной дискриинации советского времени. Рустам Темиргалиев, наоборот, назвал реабилитацию «историческим моментом».
Каково будущее отношений между крымскими татарами и Татарстаном? Многое будет зависеть от развития ситуации в Украине, отношение российских властей к основным лидерам крымских татар и этнических отношений на полуострове. Татарский мир сегодня в большей стпенеи разобщен, чем до украинского кризиса, и «ястребы», «голуби» и откровенно пророссийские организации соперничают за главную роль. И вполне вероятно, что Путин намерен дождаться принятия нового статуса Меджлиса прежде, чем идти на дальнейшие уступки. В любом случае, отношения между Меджлисом и властями России пока напоминают принудительный брак. Первый вынужден, ради людей, которых он представляет, искать соглашения с Россией, российская власть, со своей стороны, не может игнорировать основные организации крымских татар, особенно в нынешних условиях.
Отношения же между Меджлисом и Татарстаном всё ещё сложные: контакты интенсивные лишь сегодня, и если крымские татары и получили большие уступки, и заслуга в этом, по крайней мере частично, властей Казани, тем не менее все же нет недостатка в противоречиях. По случаю визита в Татарстан, 26-29 апреля некоторых из лидеров Меджлиса – в том числе вице-президента Наримана Джелалова – для провозглашения Казани как Турецкой культурной столицы мира на 2014 год и празднования 120-летия со дня рождения народного татарского поэта Габдуллы Тукая, по сути, были подписаны ряд соглашений, в том числе и ранее упомянутый контракт на реконструкцию Дворца ханов, но так и не была достигнута договорённость о сотрудничестве с Всемирным Конгрессом Татар, что, по сути, было основной целью визита. Делегация высоко оценила способность крымских татар сохранить своё культурное наследие и подчеркнула важность связей с Татарстаном, но обсуждение соглашений о сотрудничестве назвала преждевременным, пока не будут урегулированы отношения между крымскими татарами и правительством России. (дополнение: соглашение между Междлисом и Всемирным Конгрессом Татар был подписан в 26-го мая)
Эти трудности чётко связаны с контекстом, в виду которого крымские и волжские татары находятся, хотя и невольно, но на противоположных сторонах. Несмотря на доброжелательное отношение, власти Татарстана по-прежнему часть истеблишмента в Москве, а это, в глазах их братьев в Крыме, ставит их в такое же положение, в каком они были в девятнадцатом веке, когда они часто рассматривались как наиболее русифицированная мусульманская часть империи. Несмотря на несомненное влияние Империи, татары Поволжья далеко не мостом были между двумя мирами, а иногда были и вовсе в трудном положении, не являясь полноценной частью ни одного из них. Пример Татарстана, по сути, является результатом русского духа в плане межэтнических отношений, то есть терпимости в обмен на послушание властям. В связи с этим, русский политолог Александр Панарин говорит о разнице между «правами человека» в западном стиле и стиля «прав народов», которые, хотя и в разных формах, но характеризует имперские государства. В первом случае мы имеем сильный акцент на права отдельных лиц, но гегемонский подход в отношениях между народами. Во втором случае, мы имеем своего рода правовой плюрализм. Свобода самоуправления меньшинств, особенно религиозного, гарантируется, даже если их законы и обычаи резко противоречат интересам большинства, но это компенсируется сильной властью, которая действует как гарант стабильности. В России такое отношение является нормой, особенно с восемнадцатого века, когда страна уже превратилась в многонациональную империю, в которой этнические меньшинства, особенно религиозные, сформировали население. Вмешательства в дела различных этнических групп были на самом деле довольно редкими, военные академии и высшие чины администрации и дворянства не были закрыты для представителей групп меньшинств, в России никогда не было недостатка в «нерусских», сделавших огромные состояния и состоявшихся в деловом мире. И, если и было место гонениям, то обычно это происходило в результате беспорядков в стране, и очень редко имело такой же системный характер как, например, истребление индейцев в Северной Америке или изгнания мавров и евреев из Испании. Хотя чрезмерная зависимость от царского режима с традиционными государственными структурами на завоеванных территориях во многих случаях привела к кристаллизации кланов, групп солидарности и всевозможных местных властителей, благодаря именно такому отношению, татары – как и многие другие российские этнические меньшинства — смогли сохранить свою идентичность. Поэтому есть надежда, что в перспективе такое положение дел должно привести к постепенному устранению барьеров и взаимных подозрений. В конце концов, как один французский дипломат сказал: «Посреби русского и найдешь татарина».

Giuseppe Cappelluti (Джузеппе Каппеллути) – итальянский журналист, исследователь, эксперт в области геополитики. Получил Диплом языковеда в 2013 г. в Университете Бергамо (Италия), с дипломной работой об отношениях между Россией и Казахстаном. Занимается вопросами, касающимися истории, геополитической ситуации и межэтнических отношений в странах бывшего СССР. Пишет для итальянского журнала геополитики “Евразия”.

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UN ESEMPIO DI “SOFT POWER” OCCIDENTALE: LA PROPAGANDA OMOSESSUALE CONTRO LA RUSSIA

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Per comprendere correttamente la propaganda omosessuale esercitata dall’America e dai suoi alleati contro la Russia, è necessaria una premessa che permetta d’inquadrare la questione nel più vasto contesto di quelli che vengono definiti i “valori occidentali”.
Tra questi si contano senz’altro quelli della “libertà” e della “tolleranza”.
Bisogna però intendersi bene su cosa s’intende con queste parole.
Per l’occidentale medio moderno – ovvero colui che è il portato di almeno due secoli e mezzo di speculazione filosofica illuminista e laicista, delle “rivoluzioni” politica, industriale e tecnologica, oltre che di due guerre mondiali che ne hanno minato le preesistenti “certezze” – concetti come “libertà” e “tolleranza” trovano il loro fondamento nell’idea che ciascuno disponga di un inalienabile “diritto di scelta”.
Un “diritto” che si esplica dall’acquisto di un prodotto all’abbigliamento preferito, dalla preferenza per il luogo in cui vivere a quella per una religione o un’altra, fino alla libertà di scelta del genere sessuale.
Di pari passo, l’occidentale soddisfatto di essere “moderno” considera il “relativismo” quale la pietra angolare di ogni relazione sociale e culturale. Ogni “assoluto” è apertamente considerato un retaggio di una mentalità “barbara e retrograda”.
Il “relativismo”, a sua volta, si sposa con l’individualismo e l’utilitarismo: l’essere umano, che si concepisce come mero “individuo” in grado di prescindere da ogni dimensione nazionale e comunitaria, opta per ciò che più gli fa comodo in un certo momento.
Siccome tutti sono incoraggiati (dai “media” e dagli “intellettuali”) a pensare e a comportarsi in questo modo, ecco che l’Occidente postula un mondo senza più “confini”, fisici o mentali che siano. La nozione stessa di “limite” dà tremendamente fastidio.
L’uomo moderno si considera di conseguenza come il più “aperto” tra tutti i suoi simili che lo hanno preceduto o che ancora si “attardano” su visioni del mondo “del passato”.
Ma sebbene tutto ciò sembri preludere ad una radiosa “nuova era” dell’umanità, di cui l’Occidente coi suoi “valori” sarebbe l’avanguardia, c’è da considerare il fatto che vi è un Grande Assente.
Il Grande Assente è Dio.
Bisogna tuttavia intendersi. Anche nell’Occidente propriamente detto esistono uomini per i quali Dio ha un posto nella loro vita. Ma il più delle volte “l’idea di Dio” che si fanno è quanto mai distante da quella che tradizionalmente si sono fatti tutti i popoli e le civiltà precedenti.
Il ‘dio occidentale’ – ovvero la maniera in cui i moderni s’immaginano il Principio, l’Origine di tutte le cose – è una proiezione delle loro predilezioni e dei loro desideri più o meno frustrati ed inconfessati. Un “dio” siffatto è l’anticamera del “mondo senza Dio”, poiché per tutte le tradizioni religiose che ci hanno preceduto Dio “ha parlato”, indicando chiaramente ciò che è giusto e ciò che è sbagliato per le Sue creature. Destinate alla beatitudine o alla dannazione.
Per il “pensiero moderno”, detto “laico”, ciò è inconcepibile. Per esso è l’uomo a dover decidere, in prima persona, quel che è “bene” e quel che è “male” per lui. La religione, in un simile contesto, finisce per svolgere un ruolo ‘consolatorio’, oltre che quello di agenzia per il sostegno di alcune categorie di “bisognosi”.
Le conseguenze devastanti dell’ateismo di fatto occidentale non sono forse ancora state considerate appieno, né si sono manifestate in tutta la loro funesta tragicità.
Il risultato, comunque, comincia a delinearsi chiaramente, e va sotto il minimo comun denominatore del “caos”. Una mancanza di un Ordine, quello patito dalle “società occidentali”, che non può non estendersi al basilare ambito dei sessi e delle relazioni tra di essi.
Nelle suddette aggregazioni umane regolate in base allo schema “contrattualistico” (simulata societas), opposto a quello “natural-comunitario” (innata societas), ciascuno viene educato alla massima del “fai come vuoi”, la quale, tanto per chiarire ulteriormente le cose, era la stessa di Aleister Crowley, considerato uno dei capostipiti del Satanismo moderno.
Siamo partiti dalla “libertà” e dalla “tolleranza” e ci troviamo nel Satanismo.
Non è affatto uno scherzo, né un’esagerazione.
Il Satanismo, ridotto alla sua essenza, è – più che l’adorazione di qualche strano essere raffigurato con le sembianze d’un caprone – la deificazione di se stessi, di quell’ego illusorio che ogni tradizione religiosa regolare indica come il “nemico principale” (e fondamentalmente l’unico).
Questo nemico dell’uomo, che gli è più vicino della sua stessa vena giugulare, che non l’abbandona mai e, anzi, eleva il tiro a seconda del grado di realizzazione spirituale di ognuno, è alla base di ogni deviazione moderna, da quelle teologiche a quelle politiche, da quelle economiche a quelle culturali eccetera.
Non si va lontani dal vero affermando che il “mondo moderno” è un ambiente nel quale le forze più basse che traggono l’uomo nei recessi più reconditi ed oscuri della sua coscienza confusa hanno avuto, mai come ora, una piena libertà di esprimersi.
Ad ogni modo, di fronte a tali forze, provvidenzialmente, si erge sempre un “katéchon”, ovvero “ciò che trattiene o colui che trattiene”, che con la sua stessa presenza dilaziona l’avvento del Regno parodistico dell’Anticristo.
Non è facile individuare nel concreto chi o che cosa svolga tale funzione nella nostra epoca. Tuttavia, ci sono vari indizi che permettono di scorgere nella dirigenza della Federazione russa, e, nello specifico, in Vladimir Putin, un elemento che frena lo scatenamento di quelle forze, evitando il crollo definitivo della “muraglia”.
Tale ruolo non è appannaggio esclusivo di nessuno, pertanto si può ascrivere a questa provvidenziale funzione anche l’azione di altre organizzazioni o altre personalità. È universalmente noto, infatti, il ruolo dei santi e delle loro preghiere.
Ma qui stiamo parlando di politica, e poiché ciascuno fa la sua parte, va detto che Putin ha contribuito non poco, con le sue iniziative, a non far precipitare la parte di mondo che egli amministra nella medesima spirale “egoica” che altrove ha visto dispiegarsi, uno dopo l’altro, fenomeni edonistici di massa o elitari, tutti parimenti distruttivi.
Questo ruolo la dirigenza russa lo condivide con altre dirigenze “non allineate”: si pensi alle pressioni mediatiche esercitate su Ahmadinejad, il quale, ospite in Europa, venne bersagliato con domande sui “diritti degli omosessuali” in Iran, rispondendo ai giornalisti che “il problema non sussiste”, poiché nella Repubblica Islamica non è previsto un “terzo genere”, visto che ad un certo punto chi non si sente bene nel sesso che la Natura gli ha dato deve prima o poi cambiarlo (cosa non proibita dall’Islam sciita, che ammette il necessario intervento chirurgico), senza restare indefinitamente coi proverbiali piedi in due staffe.
L’Occidente, nel frattempo, è andato molto più avanti, avendo cernito ben ventitré “generi sessuali” (1)! Ciò non è affatto strano, poiché, come premesso, una volta reso l’ego (cioè il proprio Satana interiore) la propria guida e il proprio metro di giudizio, ogni “libertà” è ammessa.
Ma questa “libertà” richiede, a suo modo coerentemente, di essere legittimata e resa perciò “legale”.
Di qui la propaganda e le pressioni che investono in primis i Paesi posti sotto diretto controllo dell’America, che devono adeguare le loro leggi in materia, accogliendo le nuove idee sui diversi “orientamenti sessuali” (2), mentre il medesimo apparato persuasivo viene scatenato contro il resto del mondo non ancora “al passo coi tempi”.
Le occasioni non mancano, in particolare in Russia: dalla mancata concessione delle autorizzazioni per il “Gay Pride” a Mosca (3), all’inaugurazione delle Olimpiadi invernali a Sochi nel febbraio del 2014.
Proprio in concomitanza con quest’evento, in un articolo per il sito della rivista, che invito a leggere (4), mi sono occupato della questione, cercando di individuare alcuni elementi che val la pena di ripetere ed approfondire.
Per prima cosa, è da rilevare che non si tratta di mera “propaganda”.
Il cosiddetto “soft power” – nel quale possiamo inscrivere la propaganda pro-omosessuali – è importante per l’America e gli occidentali quanto le armi vere e proprie. L’attacco a quelle realtà rimaste immuni dal contagio edonistico viene portato, in mancanza della possibilità di attaccare con le “cannoniere”, con una capillare opera di penetrazione nelle mentalità di cui si fanno carico “intellettuali” e “giornalisti”. A montare “il caso” bastano inoltre pochi “attivisti”, circondati dalle telecamere dei “media”: ciak, si gira, va in scena la “repressione”! Come da manuale della “sovversione” nella quale si sono specializzate alcune agenzie governative e non, appositamente create per diffondere la retorica dei “diritti umani”.
Nel succitato articolo rilevavo anche lo sprezzo del ridicolo da parte dei dirigenti americani quando affermano di “difendere la diversità” (5). Ricordavo infatti la fine che hanno fatto i popoli nativi del “nuovo continente”, al confronto con quelli d’Eurasia che hanno conosciuto da secoli la colonizzazione russa. Da una parte lo sterminio e la riduzione alla fame, dall’altra l’inglobamento in una “casa comune” che conta una miriade di etnie e religioni, di cui periodicamente il presidente Putin tesse orgogliosamente l’elogio in quanto rappresenta il fiore all’occhiello del “rispetto delle differenze” così come viene concepito dalla dirigenza russa (6).
Il contrasto tra il “communitarianism” anglosassone e la naturale interazione di popoli diversi, che vivono sulle loro terre storiche nell’ambito di una compagine plurinazionale con una guida comune non potrebbe essere più evidente.
Oltretutto, le “comunità”, tra cui si annovera anche quella LGBT (7), sono un terreno fertile per le “rivendicazioni” all’insegna proprio di quella “libertà” astratta che abbiamo testé denunciato e che viene alimentata coi mezzi più subdoli. Si tratta della strategia del divide et impera che crea per l’appunto “minoranze”, “popoli oppressi” ed altre “categorie” – tra cui quelle “di genere” – meritevoli d’un qualche tipo d’interessamento da parte dell’America e delle sue schiere di nuovi “missionari” (8).
Siamo di fronte a due modelli antitetici: la Russia persegue l’unione nella diversità, cercando ciò che unisce seppur nelle inevitabili differenze; l’America alimenta ed esalta le “differenze”, con l’obiettivo di appiattire tutti quanti su una parvenza di unità che si regge non sul riconoscimento della fondamentale unità delle rispettive radici e tradizioni (“modello russo”), quanto su un “contratto sociale” di tipo utilitaristico che permette, proprio a scapito delle radici e delle tradizioni, di dare libero sfogo alle “libertà individuali”.
La Russia, consapevole della portata distruttiva della cosiddetta “ideologia del genere”, che sta producendo altri capolavori come l’idea balzana che possa esistere una particolare forma di omicidio denominata “femminicidio” (9), nel gennaio 2013 ha così proibito ogni forma di propaganda da parte dei militanti per la “causa omosessuale”.
Subito, le catene mediatiche occidentali, hanno parlato di “legge anti-gay”. Ma non è vero che questa legge, approvata da 388 membri della Duma (con un voto contrario ed un astenuto), sia “contro i gay”. Essa è semplicemente contraria alla propaganda omosessuale (10). O meglio, è “contro i gay” nella misura in cui il termine “gay” indica il militante di una causa che i nemici della Russia utilizzano per scardinarvi ogni ordine naturale (11).
La legge in questione colpisce in maniera particolarmente severa la diffusione di quest’ideologia tra i bambini. Tutto il contrario delle scuole occidentali, nelle quali appositi “programmi educativi” sono destinati proprio alle scolaresche d’ogni ordine e grado, senza risparmiare quelle delle scuole materne…(12). Ma è tutto il sistema occidentale che va adeguandosi, con l’industria dello spettacolo a fare da “avanguardia dell’Inferno” (si pensi a video di certe “popstar”) e le amministrazioni locali che istituiscono “servizi” appositamente dedicati (13).
Il “politicamente corretto” fa il resto. Così, appena qualcheduno esce dai “limiti del discorso”, peraltro sempre più ridotti, ecco che viene bollato come “omofobo”.
Le leggi “contro l’omofobia” sono così diventate all’ordine del giorno dei Paesi cosiddetti “avanzati”, e quel che più sbalordisce chi osserva questo fenomeno è il pressoché completo allineamento all’opinione pro-gay di tutti coloro che hanno una qualche “posizione” nella società.
La questione presenta varie analogie con quella dell’“antisemitismo”. In entrambi i casi nessuno può fiatare, pena l’esclusione e la morte civile, ma la “categoria intoccabile” non è né amata né fondamentalmente rispettata dai “padroni del discorso”. Tant’è vero che né gli omosessuali non militanti (che non pretendono di essere sposati, per esempio) né gli ebrei non appiattiti sulla politica e l’ideologia israeliane dispongono di qualche spazio sui “media” (14).
Le possibilità che questa propaganda attecchisca anche in Russia non sono molto alte. È evidente che il lavaggio del cervello funziona solo nei Paesi prima occupati militarmente e poi sottoposti ad una rieducazione forzata mirante a snaturarne completamente il carattere (15).
Ma una falla può sempre aprirsi.
La disponibilità ad ammettere che una famiglia (con figli!) possa essere formata da due elementi del medesimo sesso nasce in un contesto destabilizzato per quanto riguarda ciò che forma le basi stesse della vita delle persone: gli stili di vita, il cosiddetto tempo libero, l’arte e la cultura, per finire col lavoro e le norme che lo regolano. Queste non sono “neutre”, ma condizionano pesantemente l’assetto familiare, quando non vi sono più orari definiti, “feste comandate”, la certezza del deprecato “posto fisso” e, soprattutto, ruoli e funzioni diverse ma complementari nella relazione coniugale.
L’idea che sta alla base delle “società moderne” è quella della fluidità. Nulla è stabile, nulla è dato una volta per tutte. Nulla è “così come è”.
I giorni sono perciò tutti uguali, tutti utili per fare “shopping”. La “flessibilità” e la “mobilità” sono la regola aurea non solo dei rapporti di lavoro, ma anche familiari. Si divorzia con disinvoltura come ci si cambia un paio di scarpe, così, mentre il terreno diventa sempre più instabile, qualcuno può cominciare a porsi seri dubbi sulla sua normalità (16), a maggior ragione se fin dalla scuola è stato indottrinato e “aiutato” a scoprire il suo vero “orientamento sessuale”.
L’interesse delle élite che mirano all’instaurazione d’un “Governo mondiale” è evidente: un essere destabilizzato ed in balia delle correnti “sociali”, “economiche” eccetera è senz’altro più facile da controllare e manipolare. Questo perché è in preda al proprio ego, che in ogni tradizione religiosa regolare è indicato come quell’anima concupiscente che si pone come ostacolo ad ogni autentica “liberazione”. La quale sta ad uno stato dell’essere che trascende quello della mera individualità come la parodistica “liberazione” dei moderni sta ad una completa resa alle forze più basse e confuse che si agitano nel profondo (il cosiddetto “subconscio”).
Stia bene in guardia, dunque, la Russia, nel non fare alcuna concessione a questo tipo di propaganda e ai suoi aedi (17). E, in particolare, a non adeguarsi a quelle manifestazioni della “modernità” più distruttive per l’integrità delle basilari cellule sulle quali si fondano l’unità e salute della nazione.

NOTE
1) “Maschio e femmina li creo?”. Ma va là, esistono 23 generi sessuali, “Tempi”, 20 gennaio 2013 (http://www.tempi.it/maschio-e-femmina-li-creo-ma-va-la-esistono-23-generi-sessuali).
2) Qui si può consultare una mappa dei Paesi che ammettono le cosiddette “nozze gay”: http://it.wikipedia.org/wiki/Matrimonio_fra_persone_dello_stesso_sesso.
3) Nel 2007, la lobby omosessuale ed i suoi “attivisti” hanno provato ad imporre alla città di Mosca, sebbene non fosse autorizzata, una “marcia dell’orgoglio omosessuale” (il cosiddetto “Gay Pride”). Cfr. “La Repubblica” [giornale di proprietà dei De Benedetti dichiaratamente schierato con la suddetta lobby] del 27 maggio 2007, Gay Pride a Mosca, aggrediti i radicali. Picchiata anche Vladimir Luxuria [si noti la “a” di “picchiata”, nda]: http://www.repubblica.it/2007/05/sezioni/esteri/mosca-gay-pride/mosca-gay-pride/mosca-gay-pride.html.
4) E. Galoppini, Sochi 2014: di nuovo “sport e politica”, Eurasia-rivista.org, 19 dicembre 2013 (http://www.eurasia-rivista.org/sochi-2014-di-nuovo-sport-e-politica/20543/).
5) “La nostra delegazione a Sochi rappresenta la diversità che gli Stati Uniti costituiscono”, ha affermato la portavoce della Casa Bianca annunciando che la guida della delegazione degli atleti americani era stata affidata ad una “icona” del “movimento gay” nello sport.
6) Concetto, questo, ribadito anche nel mezzo della “crisi ucraina” dallo stesso presidente Putin e dal suo consigliere per le questioni culturali Vladimir Tolstoy: Putin advocate single cultural space within Russian borders, “Russia Today”, 24 aprile 2014: http://rt.com/politics/154292-putin-culture-russian-unity/.
7) Acronimo che sta per Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender.
8) Fondamentale è il ruolo di istituti specializzati nelle tecniche di controllo mentale e di “guerra psicologica”. Cfr. D. Estulin, L’Istituto Tavistock, (trad. it.) Macro Edizioni, Cesena (FC) 2014.
9) E. Galoppini, L’ultima trovata dell’ego ribelle: il “femminicidio”, “Europeanphoenix.it”, 31 dicembre 2012 (http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=44820).
10) Russian Duma gives first not to nationwide ban on gay propaganda, “Russia Today”, 25 gennaio 2013 (http://rt.com/politics/russian-first-ban-gay-722/).
11) E. Galoppini, Aspetti del degrado occidentale: 2 – L’omosessualità ostentata, “Europeanphoenix.it”, 8 agosto 2012 (http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Forums&file=viewtopic&t=50938&start=0&postdays=0&postorder=asc&highlight=).
12) Si registrano ad ogni modo delle resistenze da parte di rilevanti settori delle popolazioni occidentali: è il caso della Francia, dove i genitori contrari alla propaganda omosessuale e all’ideologia “di genere” nelle scuole ha proclamato, con un discreto successo, un boicottaggio delle scuole da parte dei loro stessi figli.
13) Per esempio: http://www.comune.torino.it/politichedigenere/lgbt/.
14) Oltre a ciò, è degno di nota il fatto che gli stessi “media” non disdegnano d’insinuare l’omosessualità di personaggi scomodi per il sistema: si pensi all’austriaco Haider, ufficialmente morto in un incidente stradale, sul quale uscirono delle “rivelazioni” riguardanti una sua relazione omosessuale, onde screditarlo in quando uomo politico “di destra”.
15) E. Galoppini, Dalla “Repubblica delle banane” alla Repubblica “Gay-friendly”, “Europeanphoenix.it”, 13 aprile 2013 (http://ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=45383).
16)La parola “eterosessuale” è da respingere poiché anche se di per sé sarebbe l’opposto di “omosessuale” ha preso un significato tendente ad offuscare il fatto che una normalità esiste. Una normalità che contempla, in percentuali ridotte, la presenza di esseri umani attratti da altri dello stesso sesso. I quali, però, per il semplice fatto che la Natura non consente loro la riproduzione devono per forza di cose non costituire la maggioranza, altrimenti la specie umana rischierebbe l’estinzione pura e semplice.
17)A mero titolo d’esempio: Russia, nuova sfida di Navalny a Putin: “Se eletto porterò il gay prode a Mosca”, “La Stampa”, 27 agosto 2013: http://www.lastampa.it/2013/08/27/esteri/russia-navalny-lancia-la-sfida-a-putin-se-eletto-porter-il-gay-pride-a-mosca-EHIQ4TG9Y6GEnogWJwRFfJ/pagina.html [“La Stampa”, di proprietà degli Elkann, è un altro quotidiano apertamente schierato con la propaganda omosessuale].

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L’INTIFADA DELLA PALESTINA E LA CRESCITA DELLA DESTABILIZZAZIONE IN ISRAELE

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La questione della legittimità e della sicurezza

Israele dalla sua nascita nel 1948 fino ad oggi ha dovuto affrontare i problemi della sua legittimità e della sicurezza come due questioni principali che minacciano costantamente la sua esistenza. Questo stato sin dall’inizio ha dovuto fronteggiare due questioni: la crisi di legittimità all’interno e la mancanza di riconoscimento internazionale, in particolare da parte degli stati arabi e islamici della regione.
Il popolo musulmano della Palestina ha respinto la legittimità del regime di Israele e progressivamente ha costituito i nuclei della resistenza.
La prima resistenza è stata costituita tra il 1918 e il 1948, che ha compreso tre azioni: la resistenza pacifica dei palestinesi, la resistenza radicale e l’insurrezione popolare, la resistenza contro la Gran Bretagna e il Sionismo.
La seconda resistenza si è costituita nel periodo delle guerre tra gli arabi e Israele negli anni 1948, 1956, 1967 e 1973.
La terza resistenza comprende la nascita dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, O.L.P., e le sue attività in forma di gruppi di milizia e partigiani tra il 1947 e il 1987.
La quarta resistenza ha visto la nascita dell’Intifada nel dicembre 1987 e continua ancora oggi.
Tutto ciò che la storia e il passato della resistenza dimostrano riguarda il non riconoscimento di Israele da parte dei diversi governi. Questa situazione ha radici nell’amara storia della costituzione di Israele e nei suoi progetti, i quali si possono ritrovare nel libro di Theodor Herzl del 1896, nell’accordo segreto Sykes- Picot del 1916, nella dichiarazione Balfour del 1917 e nella questione del “protettorato” sulla Palestina nel 1918, che praticamente portarono infine alla fondazione di Israele nel 1948.
In queste relazioni erano presentati due progetti, uno maggiore e uno minore.
Nel progetto maggiore si prevedeva la divisione della Palestina, e nel progetto minore si prevedeva la fondazione di un paese federale costituito da due stati, uno arabo e l’altro ebraico.
I paesi arabi, con il sostegno del Consiglio Supremo Arabo, hanno respinto entrambi i progetti e hanno sostenuto la Palestina araba indipendente. Dall’altra parte, il progetto minore non ha avuto l’approvazione dei paesi arabi e del regime sionista, e alla fine nella seduta dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 29 novembre 1947, il progetto che prevedeva la divisione della Palestina è stato approvato con 33 voti a favore e 13 voti contrari, e di conseguenza il 14 maggio del 1948 è stata proclamata la fondazione dello stato di Israele.

La questione della legittimità e il processo di dialogo

Il governo d’Israele, per poter risolvere la questione della legittimità e del riconoscimento, ha seguito la via pacifica con il mondo arabo e, servendosi della strategia “né guerra né pace”, ha preparato il terreno per realizzare i suoi progetti ambiziosi. Israele nel 1949 ha firmato l’accordo per il cessare il fuoco con i governi di Egitto, Siria e Giordania, e nel frattempo, con la scusa della frontiera sicura e della sua forza militare, ha rafforzato il processo di dialogo per vedersi riconosciuta la legittimità. Possiamo definire la pace di Camp David come una nuova era nel processo della legittimazione di Israele, anche perché in tal modo questo regime ha potuto stabilizzare ancora di più la sua posizione. Il processo di dialogo è terminato con l’inizio dell’Intifada e la questione della legittimità è ancora irrisolta, e inoltre i processi di pace a Maryland ed Oslo non hanno potuto dare una svolta adeguata.

La questione della sicurezza e la politica della violenza

Il governo d’Israele ha dovuto affrontare le sue questioni di sicurezza all’interno ed all’esterno delle sue frontiere utilizzando i mezzi militari e la violenza. All’interno ha iniziato a massacrare e ad espellere i palestinesi nel periodo tra la divisione della Palestina e la costituzione del governo d’Israele nel 1948, con il massacro di Deir Yassin ad opera del gruppo dell’Irgun guidato da Menachem Begin, e si è servito di questa politica nel territorio occupato diverse volte perpetrando diversi massacri come quelli di Gaza, Kafr Qasim, Tel al-Zaatar, Sabra e Shatila e il campo profughi di Jenin. Inoltre Israele ha applicato da sempre la politica di espulsione e dell’esilio, e ha espulso grande parte della popolazione palestinese dalla sua patria.

Yossef Weitz, ex direttore del Fondo Nazionale Ebraico scrive:

Israele non è abbastanza grande per contenere due popoli, se gli arabi lasciassero il paese allora possiamo dire che è sufficientemente grande per noi. Non abbiamo alternativa se non mandare via tutti. Non deve rimanere neanche un villaggio o una tribù araba.

Seguendo questa politica, progetti e programmi per la costruzione di nuove colonie ebraiche e iniziative per spingere gli ebrei a immigrare in Israele sono stati sempre all’ordine del giorno. Sono iniziate le costruzioni di nuove colonie nelle zone della Striscia di Gaza, in Cisgiordania e sulle Alture del Golan, e si è promossa la stabilizzazione degli ebrei immigrati al fine di ottenere una relativa sicurezza nel paese.

Per quanto riguarda la sicurezza lungo la frontiera, il governo israeliano utilizzò i suoi metodi militari dichiarando guerra nel 1948 agli stati arabi limitrofi, come Giordania, Egitto, Siria e Libano.
In questa guerra praticamente la sicurezza e la sua integrità territoriale furono messe seriamente a rischio ma gli aiuti degli Stati Uniti e il sostegno delle Nazioni Unite salvarono Israele e impedirono la sua sconfitta. Alla fine, con la firma dell’accordo, la guerra si concluse nel febbraio del 1949 e Israele riuscì a raggiungere una certa stabilità, riuscendo quindi a impadronirsi del 77% del territorio al momento di diventare membro delle Nazioni Unite. In tal modo di fatto la proposta della divisione, avanzata dalle Nazione Unite, che prevedeva il 57% del territorio per Israele e il 43% per gli arabi, e la costituzione di un governo arabo indipendente, è stata dimenticata.
Israele, per poter avere maggiore sicurezza e realizzare i suoi progetti ambiziosi, iniziò quindi a rafforzare il suo esercito e nel 1956, dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez, con l’aiuto della Francia e dell’Inghilterra conquistò il deserto del Sinai. A causa del confilitto di interessi tra Francia e Stati Uniti la guerra venne però fermata e Israele abbandonò il Deserto del Sinai.
Nel 1967 Israele, sempre con la scusa di una maggiore sicurezza, ma in realtà per raggiungere il suo obiettivo del “Grande Israele”, sferrò altri attacchi contro i paesi arabi confinanti. In questa guerra Israele bombardò all’improvviso gli aeroporti dell’Egitto e occupò il Deserto del Sinai, la Cisgiordania, la città Santa di Gerusalemme e le Alture di Golan, nonostante la risoluzione 242 delle Nazioni Unite. Questa guerra improvvisa mise a disposizione di Israele le risorse e un territorio quattro volte maggiore rispetto alla situazione antecedente la guerra, e gli conferì una maggiore potenza per poter scongiurare le minacce. Questa vittoria durò comunque poco e non impedì la controffensiva dei paesi arabi che iniziò nel 1973 dall’Egitto e dalla Siria contro Israele per riprendere il controllo dei territori da quest’ultimo occupati.
Iniziò così la guerra del Kippur e la coalizione composta da Egitto e Siria attaccò Israele su due fronti. Nella prima settimana riuscirono a ottenere vittorie notevoli, però nella seconda settimana la situazione cominciò a entrare in un’altra fase con l’arrivo dell’esercito americano in sostegno d’Israele, che riuscì ad entrare in territorio siriano ed egiziano. Alla fine la mediazione delle Nazioni Unite portò, il 24 ottobre 1973, alla fine della guerra.
In questa guerra i paesi arabi non raggiunsero l’obiettivo però riuscirono a mettere se non in pericolo quantomeno in discussione il potere deterrente e la questione della sicurezza d’Israele.
La successiva invasione dell’esercito d’Israele del territorio libanese nel 1982 causò diversi problemi e non poté essere una politica di successo per la sicurezza e alla fine fu destinata a perdere.
Israele per tenersi in vita e mettersi al sicuro prese quindi un’altra decisione politica, ossia dotarsi dell’arma nucleare.
Già nel 1949 si era aperto il Centro di Ricerca Isotopo e nel 1952 il governo di David Ben-Gurion aveva fondato la Commissione dell’Energia Nucleare d’Israele. Con gli aiuti di paesi come gli Stati Uniti e la Francia, Israele riuscì quindi a compiere progressi notevoli nel campo della tecnologia nucleare e ad oggi si presume che questo paese abbia più di 200 testate nucleari, e la sua potenza nucleare è in costante crescita.
Oron, il famoso esperto l’Israele, a proposito dei programmi nucleari d’Israele disse:

Avere a disposizione le armi migliori, e la possibilità stessa di servirsi di queste armi, servono per costringere l’altra parte ad accettare le richieste politiche d’Israele. Una delle richieste è riconoscere ufficilmente le frontiere attuali e firmare l’accordo di pace con Israele.

Con la nascità dell’Intifada anche questa politica ha perso però la sua forza dissuasiva.

L’intifada e la questione della sopravvivenza

Il grande movimento del popolo palestinese contro le politiche feroci del governo d’Israele ha aperto una nuova era nella storia della lotta del popolo musulmano della Palestina.
Questo processo si è evoluto rapidamente dopo la conferenza dei vertici dei paesi arabi nell’aprile 1987 in Oman, che non portò a nessuna presa di posizione contro il regime sionista.
La prima Intifada, che comprendeva la protesta popolare contro l’occupazione della Palestina, aveva i seguenti obiettivi:
1- Evitare di far cadere nel dimenticatoio la questione della Palestina
2- Chiamare l’opinione pubblica a porre maggiore attenzione
3- La necessità di risolvere il problema della Palestina
4- Mettere a rischio la sicurezza interna del regime sionista
5- Evidenziare le dispute dei vari gruppi palestinesi e costringere i governi e le organizzazioni che gestivano la questione della Palestina a ricercare i loro interessi comuni.

Uno degli eventi importanti nella storia della lotta contro Israele è stato il ritiro di Israele dal sud del Libano. Questa azione si è compiuta senza la firma di nessun accordo e in modo unilaterale il 24 maggio del 2000, ponendo così fine all’occupazione del sud del Libano dopo 22 anni .
Questo fatto viene considerato la prima sconfitta militare dell’Israele nella sua storia e la prima vittoria politica, ideologica e simbolica dell’Organizzazione “Hezbollah”.
Talal Atrissi considera questo ritiro come un obiettivo che tutti i governi d’Israele stavano cercando, da Yitzhak Rabin e Shimon Peres a Ehud Barak, ma avevano dovuto affrontare due problemi:
Prima di tutto la preoccupazione per la situazione delle frontiere dopo il ritiro; secondariamente, Israele desiderava che questo ritiro venisse fatto sulla base di un accordo regionale, in particolare con la Siria, ma ciò non fu possibile in quanto Israele non poteva più sostenere le perdite nel sud del Libano.

Il ritiro di Israele e la vittoria di Hezbollah hanno rafforzato il fronte anti-Israele e favorito l’avvento della seconda Intifada.
Qualche giorno dopo la liberazione del sud del Libano, Seyyed Hassan Nasrollah, Segretario Generale di Hezbollah, a Bent Jbail ha dedicato questa vittoria al popolo palestinese e ha annunciato il suo sostegno alla secondo Intifada, chiedendo al mondo arabo di fare altrettanto.
L’ingresso provocatorio di Ariel Sharon negli spazi della Moschea di al-Aqsa incrementò la lotta contro Israele, preparò il terreno per l’Intifada e causò le dimissioni di Ehud Barak, e dunque un’altra sconfitta per Israele.
Visto la crescita della violenza politica d’Israele, il processo del sostegno all’Intifada prese una corsa più rapida e costrinse il regime ad affrontare una destabilizzazione generale e la crisi della sua sicurezza in modo che, nonostante la sua potenza militare, deve tutt’oggi lottare per la sua sopravvivenza.

L’intifada e la politica estera dell’Iran.

L’Iran Islamico nella sua politica estera ha sostenuto da sempre la Palestina e ha sempre chiesto il ritorno dei profughi alla loro patria e l’istituzione dello stato indipendente della Palestina. La proclamazione, da parte dell’Imam Khomeini, della giornata mondiale di al-Quds è stato un segno importante che dimostra il sostegno dell’Iran dalla Palestina.
L’Imam Khomeini nel suo discorso del 7 agosto 1979 ha proclamato la giornata mondiale di al-Quds con queste parole:

Possiamo proclamare l’ultimo venerdi del Sacro mese di Ramadan, che coincide con il periodo di Laylat al Qadr (la notte del destino), e può essere anche la chiave principale per il destino del popolo della Palestina, come la giornata di al-Quds. I musulmani in una cerimonia internazionale possono annunciare la loro solidarietà e il sostegno ai diritti legittimi del popolo musulmano.

Inoltre l’Imam Khomeini nel suo messaggio del primo agosto del 1981 definisce la giornata mondiale di al-Quds come il giorno degli oppressi, e nel suo libro intitolato “Il governo islamico” afferma:

Il movimento dell’Islam sin dall’inizio ha dovuto lottare con il sionismo, sono stati loro ad iniziare i complotti e la propaganda anti-islamica, e come vedete continua ancora.

L’Imam Khomeini ha sempre rifiutato il processo di pace tra arabi e Israele e ha invocato la resistenza contro Israele. Egli a proposito degli accordi di Camp David disse:

Camp David è solo un inganno e un gioco politico e niente altro per poter giustificare le continue violazioni di Israele dei diritti dei musulmani.

Recentamente, la Repubblica Islamica dell’Iran, nell’ambito dei suoi impegni in politica estera, ha organizzato a Teheran la Conferenza Internazionale per il sostegno all’Intifada, che ha visto la partecipazione delle delegazioni di 35 paesi islamici, delle organizzazioni palestinesi, dei leader del Movimento Hezbollah e di 300 personalità indipendenti.

I partecipanti hanno annunciato il loro sostegno all’Intifada e hanno concordato sui seguenti punti:
l’istituzione un comitato internazionale parlamentare per la difesa dall’Intifada, la condanna del sostegno degli Stati Uniti a Israele, l’istituzione di una corte internazionale per processare i criminali di guerra di Israele, la richiesta dell’attivazione di comitati per promuovere delle sanzioni contro Israele.

Per concludere, possiamo dire che, considerando l’incremento del processo dell’Intifida e la crisi della legittimità e della sicurezza, il regime sionista affronta nuove crisi che mettono a rischio la sua stessa presenza, e ormai le politiche ambigue di pace e violenza non possono più essere considerate adatte a risolvere la questione. Pare che il regime sionista debba rassegnarsi davanti alle richieste legittime del popolo palestinese più di altri tempi.
Il regime sionista, essendo consapevole del problema della sua legittimità, a volte con un linguaggio di pace e a volte di guerra ha violato e continua a violare i più elementari diritti umani nel territorio occupato e ferisce la coscienza umana.
La storia contemporanea può testimoniare diversi esempi del comportamento violento e disumano del regime sionista nell’arco della sua non lunga storia. Il massacro di centinaia di persone con la scusa dell’uccisione di tre israeliani, l’attacco contro i civili e la distruzione delle loro abitazioni ne sono un esempio lampante.
Oggi la questione della Palestina non è solo un problema dei paesi arabi ed islamici, bensì è diventata un problema umanitario. L’occupazione e le azioni criminali commessi sono una grande catastrofe umana e rappresentano la questione più importante a livello mondiale.
Purtroppo oggi i paesi arabi ed islamici e addirittura i paesi che si presentano come i difensori dei diritti umani nel mondo sono indifferenti nei confronti di queste azioni criminali e si limitano a dare mere indicazioni politiche.
L’omicidio di Mohammed Abu Khdeir ha causato l’incremento della tensione nei territori occupati e gli attacchi dell’esercito sionista, armato fino ai denti, vengono portati avanti sia per via aerea che terrestre contro il popolo indifeso della Palestina, provocando diversi feriti e morti.
La reazione del mondo non è andata, come detto, oltre generiche indicazioni politici, mentre il regime sionista continua a massacrare i palestinesi. Addirittura l’uccisione dei palestinesi è diventato un spettacolo divertente per alcuni giovani estremisti d’Israele che, seduti su una collina, si emozionano a vedere il bombardamento di Gaza.
Dopo l’uccisione di centinaia di palestinesi Israele vorrebbe dimostrare la sua “clemenza” accettando la proposta di pace avanzata di un altro paese per coprire le sue azioni criminali, pretendendo che il popolo di Gaza, e in particolare il movimento di resistenza, accetti immediatamente il cessate il fuoco!
Ancora un’altra volta il mondo si trova davanti a un esame di coscienza, per vedere come agisce nei confronti delle azioni barbariche del regime sionista.
Si spera che gli organismi internazionali rispettino i loro impegni nei confronti dell’umanità e si assumano la loro responsabilità per impedire l’occupazione e l’oppressione della patria altrui, e permettano che il popolo palestinese possa decidere liberamente il suo destino.

Ghorban Ali Pourmarjan
Direttore dell’Istituto Culturale dell’Iran – Roma

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IL RISCHIO SISTEMICO È PIÙ ELEVATO ORA RISPETTO AL 2008

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A partire dalla crisi del 2008, è stata devoluta grande attenzione da parte dei regolatori del sistema finanziario al rischio sistemico, ovvero la possibilità che qualche evento potesse causare la crisi dell’intero sistema bancario e non solo di una singola banca. Migliaia di pagine di regolamentazioni finanziarie sono state stese in proposito, e un gran numero di discorsi sono stati fatti sull’argomento, in particolare su come adesso abbiamo appreso il pericolo della filosofia “too big to fail” (Troppo grande per fallire) e pertanto il rischio di un crash finanziario come quello del 2008 non possa ripetersi nuovamente. Non c’è bisogno di dire che queste tesi sono senza senso; il rischio sistemico è più elevato ora rispetto al 2008. In aggiunta, la prossima crisi sarà quasi certamente peggiore dell’ultima.

Il problema principale addotto dalla legislazione del “Troppo grande per fallire” è l’idea che alcune banche sono così espanse che il loro fallimento possa causare un collasso economico catastrofico che debba poi essere pagato a tutti gli effetti dai contribuenti con le loro tasse. Non vi sorprenderà, però, sapere che per me questa non è la questione centrale.

Un gran numero di rischi nel sistema bancario dei giorni nostri sono presenti in un vasto numero di enti, tutti altamente interconnessi tra loro e sempre più dipendenti l’uno dall’altro. In tal maniera, il fallimento di un’istituzione di media grandezza, se sufficientemente connessa al sistema nella sua globalità, potrebbe avere implicazioni sistemiche. Allo stesso tempo, più o meno tutte le banche usano sistemi di management del rischio molto simili (e spuri), mentre la leva finanziaria, sono entrambe aperte ma più pericolosamente nascoste, è elevata in tutto il sistema. Una politica monetaria folle risulta folle per tutti e se dovesse accadere un disastro tecnologico, questo si ripercuoterebbe anche sui software usati da una gran parte dei sistemi bancari nella loro totalità. Ci sono un buon numero di ragioni per dissolvere i grandi agglomerati di banche, ma dissolverli in una maniera fine a se stessa, non risolverebbe il problema del rischio sistemico.

Il rischio sistemico è stato esacerbato dalla finanza moderna per diverse ragioni: l’interconnessione elevata del sistema è una di queste ragioni, dal momento che è un intreccio di contratti derivativi che arrivano ad un totale nominale di 710 miliardi di $, che si interseca per tutti gli enti mondiali (dato aggiornato a dicembre 2013 secondo i calcoli della BIS – Bank for International Settlements, ndt).

Alcuni di questi contratti come quello relativo ai 584 miliardi di $ di interest rate swaps (CDS) e options hereon, hanno un rischio potenziale quasi elevato come il loro ammontare nominale. In aggiunta, ci sono 25 miliardi di $ di contratti “non allocati”. Il mio sonno e reso irrequieto dal pensiero che il 150% del prodotto interno lordo degli USA (GDP) è situato in contratti che i regolatori del sistema non riescono a “definire”

Il problema è anche reso peggiore dalla non liquidità di molti di questi strumenti. Un tipo di derivati esotici con una maturazione a lungo termine che è probabile scambiare davvero raramente una volta che il flusso di creazione iniziale è terminato. Questi rischi sono alleviati dai contratti standard trading relativi ai cambi. Ma anche se il management di rischio delle banche fosse buono, il fallimento, Dio non lo voglia, di una maggiore controparte o di un exchange, causerebbe un disastro sistemico a causa delle strette interconnessioni.

Un altro rischio sistemico reso potenzialmente peggiore dalla moderna finanza è quello relativo ad un inadeguato management di rischio. Il management di rischio non è per nulla differente rispetto a quello del crash del 2008. Più di tre anni dopo il crash (e quasi due anni dopo che Kevin Dowd e io avevamo analizzato i suoi fallimenti nel management risk in “Alchemists of Loss”), J.P. Morgan stava ancora utilizzando una variazione sul Value-at-Risk per amministrare le posizioni dei suoi indici CDS nel disastro di London Whale. J.P. Morgan riuscì a “sopravvivere” a quell’episodio, ma da una prospettiva di risk-management, per nessuna logica ragione, le perdite avrebbero potuto essere di 100 miliardi di $, come anche di 2 miliardi di $, cosa che non avrebbe permesso loro di “sopravvivere”. I regolatori del sistema non hanno fatto niente per risolvere la questione. Invero, la nuova regolamentazione Basel III continua a permettere alle più larghe banche di disegnarsi da sole il proprio sistema di risk-management, una ricetta per il disastro sicuro.

Potreste pensare che il management di rischio, sia almeno un problema esacerbato dalla stazza delle banche “troppo grandi per fallire”: in realtà, non è del tutto così. Ogni banca commetterà i propri disastri di trading, alla stessa maniera un ritorno a banche più piccole diminuirebbe la grandezza dei disastri di trading, rendendoli però non meno frequenti, sarebbe sicuramente un miglioramento (e i successore della London Whale sarebbero meno portati alla megalomania e ai tentavi di controllo dell’intero mercato). Dall’altra parte, se il mercato nel suo complesso fa cose non contemplate nel sistema di management di rischio – come in David Vinar, Goldman Sachs “25 movimenti di deviazioni standard, in fila per diversi giorni” nell’anno 2007 – dal momento che tutte le banche usano sistemi di rischio simili con simili andamenti, sono tutte portate naturalmente a collassare nello stesso momento, producendo un collasso sistemico. Come spiegherò a breve, credo che il prossimo collasso dei mercati possa aver luogo in simultanea in tutti gli asset, senza possibilità di fuga. Così un collasso globale bancario del sistema di management del rischio, che vada ad impattare sulla stragrande maggioranza degli asset, causerà perdite a tutte le banche più importanti. Nessun accumulo di regole potrà mettere ordine in questo campo.

La finanza moderna ha anche reso il sistema di rischio peggiore, a causa della sua incomprensibilità, opacità e velocità. Né i trader e neppure gli analisti quantitativi che disegnano nuovi secondi e terzi ordini di contratti derivativi hanno idea di come quei contratti si comporteranno in una situazione di crisi, dal momento che sono sopravvissuti al massimo ad una crisi e il loro comportamento è stato sia quello di far da leva, ma anche separato dall’attività sottostante o dal gruppo di attività. Le banche non conoscono i rischi delle loro controparti e così non possono valutare la solidità dell’istituzione con cui stanno avendo a che fare. Per quello che riguarda le aree di “fast-trading”, i computer sviluppano algoritmi di trading a velocità elevatissima, così producendo inaspettati “flash-crash” in cui la liquidità scompare e i prezzi salgono in maniera vertiginosa.

L’opacità delle operazioni bancarie è resa peggiore dalle operazioni di tipo “Market to market”, che fanno riportare in maniera assurda alle banche enormi profitti mentre le loro operazioni si deteriorano con la qualità del credito dei loro debiti e il valore di questi debiti diminuisce. Ciò fa sì che i metodi operativi attuali delle banche portino ad una fase discendente, incomprensibile agli occhi degli investitori.

Il problema del “leverage” non è ancora risolto, nonostante tutti i tentativi di controllarlo fatti nel
2008. In aggiunta, gran parte del rischio del sistema finanziario è stato “emarginato” in istituzioni non bancarie come i fondi del mercato monetario, veicoli di cartolarizzazione, veicoli di titoli di credito supportati dagli asset e specialmente, mutui ipotecari REITs (Real Estate Investment
Trusts, ndt), che sono cresciuti molto a partire dal 2008. Questi veicoli sono ancor meno regolamentati delle stesse banche, e ogniqualvolta ci sia stato un tentativo di regolamentazione, è stato fatto in modo errato. Per esempio, sono stati fatti grandi sforzi, con l’appoggio della lobby delle banche, per creare confusione nei Money Market Fund, che da sempre ha solo avuto una perdita inferiore all’1% del valore del fondo. Al contrario, i giganteschi tassi di interesse dei mutui ipotecari REITs, che acquistano mutui ipotecari a lungo termine e si rifinanziano col mercato dei riacquisti, sono più incontrollate e costituiscono un rischio maggiore per il sistema.

Non dobbiamo dimenticare neppure grande ruolo della tecnologia, un sostanziale e crescente contributore del rischio sistemico. Ai nostri giorni le grandi banche sviluppano poco software per loro stessi affidandosi invece a “pacchetti” grandi e piccoli forniti da sviluppatori esterni. Il bug “Heartbleed” dell’aprile 2014 ha mostrato che anche piccoli programmi come OpenSSL, universalmente utilizzato, possono essere attaccati in diverse maniere e risultare molto difficili da difendere e portare così vulnerabilità all’intero sistema bancario. Un hacker con cattive intenzioni nella vasta sfera di influenza russo-cinese, o anche un ragazzo da casa propria, potrebbe produrre un bug in qualsiasi momento in grado di intrufolarsi nei sistemi di protezione comuni alla maggior parte delle banche, danneggiando o anche compromettendo definitivamente il sistema nella sua globalità.

Comunque, il più grande fattore che determina il rischio sistemico e la ragione per cui è peggiore oggi rispetto al 2008, è la politica monetaria: questa si è espansa al di sopra delle proprie possibilità a partire dal 1995, e come effetto ha avuto un boom della finanza ipotecaria tra il 2002-2006, anomalo anche che nelle aree meno prospere e le persone più povere ricevessero più finanze sul mutuo rispetto alle persone ricche. In ogni caso, questo incoraggiamento alla “leva” non è mai stato così grande come nel periodo a partire dal 2009. Come conseguenza i prezzi degli asset sono cresciuti a livello globale e il “leverage” sia aperto, e in maggior parte anche quello nascosto, è aumentato di dimensioni.

In generale, i tassi di interesse molto bassi, incoraggiano a prendersi dei rischi. I regolatori delle politiche monetarie teorizzano fantasiosamente che tutto ciò produrrà molti più “imprenditori da garage”. In realtà, le banche non faranno prestiti agli imprenditori, così, più semplicemente, si produrranno più artisti della speculazione in giacca e cravatta. Il risultato è un incremento del rischio. Quando la politica monetaria è così estrema per molto tempo, il risultato è più rischio sistemico. E’ molto semplice.

Di preciso, sotto quale forma si presenterà il collasso e quando arriverà, non è ancora chiaro. E’ probabile che sarà altamente inflazionistico. Se i 2.7 miliardi di $ di riserve in eccesso nel sistema bancario USA cominciano ad essere dati in prestito, il contraccolpo inflazionistico sarebbe molto rapido. In ogni caso, è anche possibile che la montagna di investimenti errati, conseguenza della politica monetaria scellerata degli ultimi cinque anni, possano collassare sul loro peso senza un aumento dell’inflazione. In qualsiasi caso, il crash del sistema bancario che accompagnerebbe la regressione economica, sarebbe molto più pesante dell’ultimo, perché il prezzo degli asset che lo causa non sarà solo confinato al mercato immobiliare, ma sarà, in misura maggiore o minore, a livello globale.

Dopo tutto ciò, il rischio sistemico sarebbe molto ridotto, principalmente a causa del fatto che non resterebbe molto del sistema bancario.

(Traduzione di: Marco Nocera)

Fonte: http://www.atimes.com/atimes/Global_Economy/GECON-01-170614.html

Articolo completo:
http://www.prudentbear.com/2014/06/the-bears-lair-systemic-risk-isworse.html#.U9Y_Ll69fL8

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ERITREA E ITALIA: UN PARTENARIATO POSSIBILE E ALTERNATIVO?

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Nel rapporto elaborato nei giorni scorsi dal Dipartimento di Stato USA sulla “libertà religiosa” nel mondo, l’Eritrea è stata riconfermata nella lista che comprende i paesi peggiori, insieme ad Arabia Saudita, Myanmar, Cina, Iran, Corea del Nord, Sudan, Turkmenistan e (per la prima volta) Uzbekistan.
Oltre alle pressioni statunitensi, il Governo di Asmara deve far fronte alle critiche provenienti da quel variegato mondo della sinistra “umanitaria” impegnata a difendere più i diritti dell’individuo che quelli dei popoli nel loro complesso, ma riesce a mettere d’accordo ex comunisti e liberali milanesi (Manfredi Palmeri) che ne hanno recentemente chiesto l’esclusione dall’Expo (insieme a quella dell’India …).
Il “regime eritreo”, in quanto sgradito all’establishment atlantista, viene infatti accusato di perseguitare politicamente i propri cittadini e di costringerli ad emigrare; in realtà, solo poche settimane fa, migliaia di eritrei si sono ritrovati per una grande festa di tre giorni al Parco Nord di Bologna senza alcun problema.
Se è vero che qualche sparuta contestazione c’è stata, questa sembra più riconducibile ad elementi dell’alta borghesia eritrea, oggi in rotta con il Governo di Asmara, che al proletariato affamato e ribelle.
Molto più saggiamente, dopo il totale disastro libico provocato dagli stessi critici di cui sopra (sinistra “umanitaria”, liberali e atlantisti), il Governo italiano tramite il Viceministro degli Esteri Lapo Pistelli, ha incontrato il Presidente eritreo Isaias Afewerki, per affrontare insieme le questioni migratorie e del traffico di uomini conseguente.
Esattamente come il Governo Berlusconi faceva, altrettanto opportunamente, con l’ex capo libico Gheddafi, sia per ragioni di sicurezza sia per assicurarsi vantaggi economici.
Ora, sperando che questi accorgimenti diplomatici del Governo di Roma non siano il preludio ad un’altra “bancarotta” come quella registrata a Tripoli per colpa di Washington, Parigi e Londra (e per la subordinazione italiana a queste tre capitali), bisogna brevemente ricordare alcune cose.
Innanzitutto l’Eritrea si trova sottoposta ad un assurdo embargo dell’ONU (astenuti Russia e Cina) dopo essere uscita dalla guerra difensiva con l’Etiopia (che cercava uno sbocco al mare); eppure quest’ultima, insieme a Kenya ed Uganda, continua imperterrita ad invadere i paesi vicini come la Somalia senza riceve sanzioni di alcun tipo: è evidente la strumentalità della condanna ad Asmara.
In secondo luogo l’Eritrea, il cui unico crimine pare essere quello di non aver voluto concedere una base militare agli Stati Uniti (1), da sempre interessati al controllo geopolitico di un’area che si estende fino agli strategici Sudan ed Egitto, è comunque un paese ricco di risorse naturali (metalli, minerali preziosi) e con possibilità di investimenti nel settore ittico, turistico, agricolo e delle infrastrutture.
E’ altrettanto evidente l’interesse dell’Italia, nazione storicamente legata all’Eritrea, a tutelare e a sviluppare ulteriori accordi politici e commerciali con quel paese, ignorando l’ipocrisia di buona parte della Comunità Internazionale.

1) http://www.eritreaeritrea.com/tutto%20cio%20che%20non%20dovreste%20sapere%20sull’Eritrea.htm

Stefano Vernole è Vicedirettore di “Eurasia” Rivista di studi geopolitici

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ESCALATION A GAZA: RAPPORTI E STRATEGIE (ANALISI CESE-M)

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Analisi di Emma Ferrero, Marco Arnaboldi, Giovanni Bronte e Gaetano Mauro Potenza.

Nei più classici approcci alla dottrina geopolitica, lo studioso che si interroga circa situazioni apparentemente prive di razionalità elabora modelli analitici ad ampio raggio in grado di spiegare ex tunc comportamenti e strategie operative degli attori coinvolti, inserendo così la totalità degli eventi in un piano metodico funzionale a determinati obiettivi. Nell’intraprendere un’ analisi delle condotte dei vari protagonisti dell’ennesimo scontro armato fra Palestina e Israele, appaiono evidenti fin da subito alcuni aspetti storicamente innovativi: una mutazione de facto dei rapporti endogeni agli attori, la presenza di nuovi player regionali e, cosa più
allarmante, una velata schizofrenia di intenti e propositi, probabilmente causata da errate valutazioni del proprio ed altrui potenziale, la quale distorce e devia fortemente anche i meglio intenzionati tentativi di decodificazione che vengono portati avanti da ricercatori ed esperti.

http://www.cese-m.eu/cesem/2014/07/analisi-cese-m-escalation-a-gaza-rapporti-e-strategie/

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IL VI VERTICE DEI BRICS E IL MUTAMENTO DEGLI EQUILIBRI GLOBALI

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I recenti avvenimenti sul piano internazionale suggeriscono che vi sia in atto una trasformazione degli equilibri globali e delle relazioni tra i grandi attori continentali, nel senso di un superamento del paradigma unipolare che ha dominato la scena mondiale negli ultimi 23 anni.(1) Tale prospettiva sembra delinearsi con sempre maggior forza se si guarda all’irrigidimento degli Usa e dell’Europa rispetto alla Russia (e agli iterati tentativi di avanzamento della linea di fronte della Nato nei territori delle ex repubbliche sovietiche), nonché alla fedeltà perenne al paradigma neo-liberale (figlia di una scienza economica affermatasi solo nell’ultimo trentennio) delle istituzioni finanziarie di Bretton-Woods, i cui programmi continuano a venire imposti nei paesi del vecchio continente, fattori di un arroccamento delle potenze occidentali all’interno delle proprie vetuste strutture militari ed economiche che hanno dominato la scena globale dalla fine della seconda guerra mondiale. Questa chiusura sembra spia di una difficoltà strategica di fondo che porta ad un inasprimento delle relazioni coi paesi concorrenti o percepiti come nemici sulla strada dell’egemonia globale.
I tentativi di spiegare la recente svolta negativa nei rapporti russo-americani come “ritorno alla guerra fredda” non rendono giustizia del quadro globale, limitati come sono a un punto di vista che presuppone un equilibrio ancora bipolare, ormai estinto. La guerra diplomatica in atto tra Russa e Stati Uniti andrebbe contestualizzata nel quadro della dinamica degli equilibri globali a favore dei paesi emergenti, come provano le decisioni prese dai BRICS durante il sesto summit tenutosi a Fortaleza, in Brasile, il 15 luglio scorso, avvenuto nella cornice dei mondiali di calcio, onde accrescerne la visibilità (anche se in Occidente tale notizia ha avuto comprensibilmente scarsa eco). Il summit ha sanzionato la nascita della Nuova Banca di Sviluppo (New Development Bank – NDB), che avrà un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari, che saranno aumentati a 100, nonché di un fondo strategico di riserva (Contingent Reserve Arrangement – CRA) con un potenziale di 100 miliardi per far fronte alle crisi di liquidità, al quale i paesi contribuiranno in percentuale alla ricchezza.(2)
L’accordo per la NDB è stato preceduto dalle visite di Putin e Xi Jinping nel “cortile di casa” degli USA, il Sud-America. Il viaggio del primo ha toccato i paesi di Cuba (dove ha estinto l’intero ammontare del debito contratto dal regime castrista durante il periodo sovietico), Nicaragua, Argentina e Brasile. Gli stessi paesi, tranne il Nicaragua, sono stati oggetto del viaggio del presidente cinese Xi, che in più ha visitato il Venezuela. I rappresentanti di Russia e Cina hanno stretto accordi duraturi con i paesi indiolatini. Le intese hanno riguardato l’apertura di linee di credito, gli ambiti energetico (sulle forniture petrolifere, in particolare tra Cina e Venezuela), infrastrutturale (la Cina finanzierà la costruzione di due dighe in Patagonia e la quarta centrale nucleare argentina), spaziale, industriale e finanziario (con la sottoscrizione di un currency swap tra peso e renminbi nell’intento di scalzare il dollaro come unità di conto argentina). Rilevanti sono stati gli accordi tra Brasile e Cina, che è ormai il primo partner commerciale del paese sudamericano (grande importatore di materie prime brasiliane). (3)
L’obiettivo dei paesi emergenti è ormai apertamente quello di un nuovo ordine mondiale in senso multipolare, che superi i meccanismi di Bretton Woods e veda una partecipazione più ampia (democratica e rispettosa delle sovranità nazionali) degli stessi paesi nelle sedi decisionali mondiali, nella prospettiva di un ribaltamento dell’egemonia americana, espressa dal dominio del dollaro, nuovamente minacciato dopo la firma sull’accordo energetico tra la compagnia russa Gazprom e quella petrolifera cinese Cnpc per la fornitura trentennale di gas naturale russo che prevede il pagamento in yuan.(4)
Le rivelazioni di E. Snowden e il caso “datagate” hanno contribuito certamente ad una accelerazione di questo processo di trasformazione degli assetti mondiali, ancora non chiaro però. Queste hanno svelato che i principali obbiettivi dello spionaggio della National Security Agency erano praticamente quelli della sigla BRIC (Brasile, Russia, India e Cina).(5) Lo scandalo fu il motivo principale dell’annullamento della visita di Rousseff a Washington, ma oggi altre ragioni spingono sempre più il Brasile a voltare le spalle all’Occidente, tra cui proprio la mancata riforma delle quote di voto presso il FMI rimasta giacente al Congresso statunitense. (6)
Gli stessi dissapori con Washington ha creato la scoperta dello spionaggio ai danni della Cancelliera Merkel in Germania, cui ha fatto seguito l’espulsione del capo della CIA a Berlino.(7) La Merkel in questa occasione ha parlato duramente di “diversità di principi molto grandi rispetto ai compiti assunti dai servizi segreti dopo la guerra fredda”. I recenti tentativi di ricucire la situazione,(8) non è detto se riusciranno a impedire che la Germania possa volgere ad est e defilarsi dalla strategia di rottura dei rapporti con la Russia (soprattutto per le ricadute sui rapporti economici con Mosca), cui costringe oggi una acquiescenza dell’Europa alla linea aggressiva americana.
Recentemente un articolo apparso su Die Zeit critica radicalmente l’appiattimento sulla politica estera di Washington dell’Europa (che si vorrebbe unita), lamentando che la decisione di voler espandere la Nato in Ucraina costituisca la peggiore scelta strategica europea dalla fine della guerra fredda. (9) E nel giudizio espresso dal Die Zeit, come nelle recenti dichiarazioni del governatore della Banca di Francia Noyer, critico verso l’egemonia del dollaro(10), si colgono chiari indizi di un’insofferenza crescente, anche dell’Europa che conta, verso l’unipolarismo.
Le trattative in atto sull’approvazione del Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership – TAFTA), che prevede la creazione di un’area di libero scambio tra Europa e USA (e si paventa possa attribuire un potere abnorme alle aziende multinazionali d’oltreoceano), in linea col perseguimento del Partenariato transpacifico (Trans-Pacific Partnership – TPP),(11) risulta una risposta al crescente peso globale del commercio cinese. Rinsaldare i legami economici col vecchio continente risulta il tentativo degli USA di innalzare barriere alla penetrazione cinese e difendere il primato economico, appena intaccato, del commercio e del dollaro statunitense. Il dollaro sebbene ridotto a cartamoneta inconvertibile, conserva per il momento centralità negli scambi internazionali.(12)
Il ruolo dei paesi europei negli equilibri geopolitici globali risulta ancora una volta decisivo. Spetterà a tali paesi e alla realpolitik tedesca decidere se proseguire al traino degli USA oppure risolvere di dotarsi di un proprio piano strategico di riferimento. Bisognerà prima capire, tuttavia, se un “ministero degli esteri europeo”, e se un’Europa politicamente unitaria, possano esistere nei fatti, prima ancora che a livello internazionale.

NOTE
1 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-07-19/l-egemonia-perduta-america-081130.shtml?uuid=ABnMaPcB
2 http://rt.com/business/173008-brics-bank-currency-pool/
3 http://www.tvsvizzera.it/radio-monteceneri/Cartacanta/Xi-e-Putin-a-spasso-nel-giardino-degli-Stati-Uniti-1545886.html ; http://www.agichina24.it/focus/notizie/cina-cuba-firmano-29-accordi
4 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-05-21/gas-maxi-accordo-cina-e-russia-fornitura-38-miliardi-metri-cubi-annui-123703.shtml?uuid=ABH770JB L’accordo segue la decisione presa dalla Cina il 6 settembre 2012 di pagare in yuan le forniture di petrolio provenienti dalla Russia, vd. http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2012-09-25/cina-snobba-dollaro-paga-111255.shtml?uuid=AbCWZKjG
5 http://temi.repubblica.it/limes/con-chi-e-contro-chi-spiano-gli-usa/63879
6 http://temi.repubblica.it/limes/dilma-obama-e-i-simboli-di-una-visita-rinviata/51960
7 http://www.lastampa.it/2014/07/10/esteri/datagate-la-germania-accusa-lamerica-espulso-il-n-dei-servizi-usa-a-berlino-5H2rL5zhg8Av1TXr4VtmUO/pagina.html
8 http://www.nytimes.com/2014/07/23/world/europe/germany-obama-merkel-mcdonough-nsa.html
9 http://www.zeit.de/politik/ausland/2014-06/europaeische-interessenpolitik
10 http://lexpansion.lexpress.fr/entreprises/amende-bnp-paribas-christian-noyer-trouve-les-transactions-en-dollar-trop-risquees_1557009.html
11 http://www.cese-m.eu/cesem/2013/05/laccordo-strategico-transpacifico-di-cooperazione-economica-tpp-dubbi-e-riflessioni/
12 http://www.lafinanzasulweb.it/2014/i-brics-contro-il-nuovo-ordine-mondiale-e-su-moneta-e-petrolio-faranno-da-se/

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